Comportamento illegale del fornitore: il contribuente non è responsabile
La Sezione Tributaria Civile della Corte di Cassazione, con una pronuncia ha confermato un principio analogo già espresso in altre sentenze: il Fisco non può contestare una fattura come soggettivamente falsa solo sulla base del fatto che il fornitore è un soggetto che ha ripetutamente violato la legge, ma deve essere in grado di provare che il contribuente, con l’uso della “ordinaria diligenza”, avrebbe potuto sapere preventivamente che chi ha emesso la fattura stava compiendo un illecito.
I fatti
L’Agenzia delle Entrate aveva notificato un avviso di rettifica a un contribuente in relazione a detrazioni IVA operate su fatture considerate soggettivamente inesistenti. Il contribuente aveva vinto il ricorso in Commissione Tributaria Provinciale e, successivamente, la Commissione Tributaria Regionale aveva respinto il ricorso proposto in appello dall’Agenzia delle Entrate, confermando l’annullamento dell’avviso di rettifica.
Nella sentenza della CTR si legge che “L’ufficio fonda il suo convincimento sul fatto che le fatture emesse nei confronti dell’impresa del contribuente da imprese edili che hanno mantenuto comportamenti contrari alla legge debbano essere considerate come emesse per operazioni inesistenti, e non considerando che nessun imprenditore può essere responsabile del comportamento illegittimo dei suoi fornitori”.
Il giudice d’appello, inoltre, aggiunge che “era onere dell’ufficio, in quanto attore sostanziale, produrre concreti elementi di prova della legittimità della pretesa erariale”.
Il ricorso delle Entrate
L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso in Cassazione sostenendo, tra i motivi, che a suo parere si era invertito l’onere probatorio, a carico del contribuente, e soprattutto la violazione del DPR n. 633/1972, art. 19, nella parte in cui la sentenza d’appello trascurava che “la detrazione d’imposta è consentita solo quando vi sia assoluta corrispondenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale e non come, nella specie, quanto tale corrispondenza non sia sussistente per la presenza di evidenti discrasie”.
Secondo l’Amministrazione finanziaria, infatti, è il contribuente a dover provare di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione non era il fatturante, ma un altro soggetto.
La pronuncia degli Ermellini
La Cassazione confermava l’operato dei giudici tributari, giudicando non idonee le motivazioni addotte dall’Amministrazione finanziaria, soprattutto alla luce del fatto che secondo la giurisprudenza nazionale e comunitaria – Corte di Giustizia, 21/6/2012, nelle cause riunite C-80/11 e 142/11 – “spetta all’amministrazione finanziaria, che contesta il diritto del contribuente a portare in detrazione l’IVA pagata su fatture emesse da soggetto diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio (cosiddette operazioni soggettivamente inesistenti), provare che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente abbia, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode”. La relativa prova può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, dimostrando che al momento in cui pagò l’imposta che successivamente intese portare in detrazione, “il contribuente disponeva di elementi tali da porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto”.
Inoltre, secondo la Cassazione, mancavano da parte del Fisco “l’enunciazione e il riscontro documentale di quegli indizi (gravi, precisi e concordanti) circa l’esistenza soggettiva, richiesti dalla giurisprudenza comunitaria”.
La Suprema Corte concludeva quindi sostenendo che poiché nel ricorso dell’Agenzia non si individuavano “quegli elementi minimi per un’adeguata conoscenza delle operazioni contestate, della loro natura fittizia e del fatto che il contribuente sapesse o potesse sapere che il soggetto formalmente cedente avesse evaso l’imposta o compiuto una frode”, lo stesso era da considerare inammissibile per difetto del requisito di autosufficienza.