CASSAZIONE

Commercialista intercettato, cliente inguaiato

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14007 del 26 marzo 2018, ha chiarito un punto significativo sulla tutela del segreto professionale nell’ambito delle verifiche fiscali, affermando che sono comunque utilizzabili contro il cliente le intercettazioni nelle quali il commercialista suggerisce metodi per evadere le imposte.

L’art. 200 c.p.p. annovera tra i soggetti che “non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria”, i professionisti ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale (lett. d).

Con la sentenza 11 ottobre 2017, n. 46588, la Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, aveva preso posizione circa la controversa utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal professionista in violazione del segreto professionale, premurandosi innanzitutto di ricordare che, a norma dell’art. 5, D.lgs. 139/2005, “gli iscritti nell’Albo hanno l’obbligo del segreto professionale”. Nei loro confronti si applicano gli articoli 199 e 200 cod. proc. pen. e l’articolo 249 del codice di procedura civile, salvo per quanto concerne le attività di revisione e certificazione obbligatorie di contabilità e di bilanci, nonché quelle relative alle funzioni di sindaco o revisore di società o enti. La Suprema Corte ha così voluto consolidare quell’orientamento formatosi con la precedente pronuncia n. 15003/2013, in cui era già stato negato che la prova debba considerarsi “inutilizzabile, per essere stata acquisita in violazione delle norme in materia di segreto professionale dettate dal codice deontologico al cui rispetto sono obbligati gli avvocati”. Si tratta di un orientamento che, all’apparenza, predilige anche ragioni di economia processuale in quanto, se le dichiarazioni rese in violazione del segreto professionale fossero invece inutilizzabili, sarebbe di conseguenza necessario, caso per caso, discutere sui limiti di tale segreto, attendendo magari l’esito del connesso giudizio di accertamento.

Pertanto, se esiste ed è documentata la partecipazione attiva del consulente nel reato, fa venir meno il segreto professionale e le risultanze delle intercettazioni telefoniche e ambientali operate sulle utenze del commercialista sono utilizzabili nell’indagine penale per frode fiscale a carico del cliente se, come nel contesto in esame, hanno a oggetto operazioni illecite.

La vicenda ha inizio quando un contribuente ha visto respinta la richiesta di riesame della misura del sequestro preventivo disposta sui beni mobili e immobili intestati allo stesso richiedente, indagato per sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: questi era stato accusato di aver sottratto al pagamento delle imposte sul reddito e sul valore aggiunto ben 2 milioni di euro, detenuti in attività finanziarie non dichiarate situate all’estero presso un conto corrente di una banca di Dubai, rendendo così impossibile ogni forma di riscossione delle imposte evase.

Il contribuente ha proposto ricorso per Cassazione lamentando, tra gli altri motivi, l’utilizzabilità ai fini delle indagini delle intercettazioni telefoniche operate a carico del proprio commercialista e aventi a oggetto conversazioni intercorse con lo stesso. Secondo il ricorrente era illegittimo che le prove acquisite a suo carico fossero il frutto delle intercettazioni realizzate sull’utenza in uso al suo commercialista, coindagato e, secondo l’ipotesi accusatoria, ideatore del sistema di frodi. Secondo i giudici di Piazza Cavour le intercettazioni non riguardavano l’attività professionale svolta dal commercialista dell’indagato e riferita alla cura degli interessi patrimoniali di quest’ultimo; anzi, avevano a oggetto un’attività in sé illecita, chiaramente oltre ai limiti dello svolgimento di un incarico professionale che presuppone – ove non si voglia cadere nell’insanabile contraddizione logica di ritenere tutelato dall’ordinamento lo svolgimento di un’attività criminosa – la piena legalità della condotta tenuta.

Respingendo quindi tutti i motivi di impugnazione, gli Ermellini hanno riconosciuto come, nella specie, emergesse chiaramente l’esistenza di una spiccata connessione investigativa nelle indagini: le condotte attribuite al ricorrente erano emerse a seguito delle indagini volte alla verifica della liceità penale delle metodiche operative che il commercialista suggeriva ai propri clienti al fine di fornire “servizi di cosiddetta ottimizzazione fiscale”.

In tale contesto non era necessario, per affermare l’utilizzabilità delle intercettazioni al commercialista, il fatto che quest’ultimo non fosse indagato in concorso con il cliente.

Per la Terza Sezione penale il mezzo di raccolta delle prove è assolutamente legittimo.

In particolare, hanno ricordato i Supremi giudici che “… Al riguardo va rilevato che, sebbene l’art. 271, comma 2, cod. proc. pen. preveda espressamente, fra i divieti di utilizzazione, quello concernente le intercettazioni relative alle conversazioni o comunicazioni delle persone di cui all’art. 200, comma 1, cod. proc. pen., quando esse hanno ad oggetto fatti da loro conosciuti in ragione, per quanto ora interessa, della loro professione, siffatta disposizione deve essere intesa, conformemente alle condivise indicazioni interpretative rivenienti da questa Corte, nel senso che il divieto in questione è posto a tutela dei soggetti indicati nell’art. 200, comma primo, cod. proc. pen. e dell’esercizio della loro funzione professionale, ancorché non formalizzato in un mandato fiduciario, purché detto esercizio sia causa della conoscenza del fatto, ben potendo un libero professionista venire a conoscenza, in ragione della sua professione, di fatti relativi ad un soggetto dal quale non sia stato formalmente incaricato di alcun mandato professionale. Ne consegue che detto divieto sussiste ed è operativo quando le conversazioni o le comunicazioni intercettate siano pertinenti all’attività professionale svolta dai soggetti indicati nell’art. 200, comma primo, cod. proc. pen. e riguardino, di conseguenza, fatti conosciuti in ragione della professione da questi esercitata (Corte di cassazione, Sezione V penale, 19 aprile 2013, n. 17979); come, infatti, la Corte ha ulteriormente precisato, in materia di intercettazioni, il divieto di utilizzazione stabilito dall’art. 271, comma secondo, cod. proc. pen., non sussiste quando le conversazioni o le comunicazioni intercettate non siano pertinenti all’attività professionale svolta dalle persone indicate nell’art. 200, comma primo, cod. proc. pen., e non riguardino di conseguenza fatti conosciuti per ragione della professione dalle stesse esercitata (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 5 maggio 2015, n. 18638; idem Sezione VI penale, 18 gennaio 2008, n. 2951). Nel caso di specie le intercettazioni eseguite, lungi dal riguardare l’attività professionale svolta dal commercialista dell’indagato e riferita alla cura degli interessi patrimoniali di quest’ultimo, avevano ad oggetto un’attività in sé illecita, tale evidentemente da esulare rispetto ai limiti dello svolgimento di una incarico professionale, il quale presuppone, ove non si voglia cadere nell’insanabile contraddizione logica di ritenere tutelato dall’ordinamento lo svolgimento di un’attività criminosa, la piena liceità della condotta tenuta. Poiché, invece, nel caso che interessa i contenuti delle intercettazioni in questione erano afferenti alle indicazioni fornite dal R. al C. sulle modalità di perpetrazione del delitto in provvisoria contestazione, è di tutta evidenza come esse, essendo indubbiamente esuberanti rispetto al corretto esercizio di un incarico professionale o, comunque, esulando rispetto ai limiti della lecita attività professionale, non possano essere protette dalle guarentigie di cui all’art. 271, comma 2, cod. proc. pen. Né ha un qualche rilievo, ai fini della utilizzabilità delle intercettazioni operate a carico di del commercialista, il fatto che il C. non sia indagato in concorso con il R., atteso che in tema di intercettazione di conversazioni, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270, comma primo, cod. proc. pen., nel concetto di “diverso procedimento” non rientrano solo le indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova viene predisposto, né tale nozione equivale a quella di “diverso reato”, sicché la diversità del procedimento deve essere intesa in senso sostanziale, non collegabile al dato puramente formale del numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 dicembre 2014, n. 52503).

Nel caso di specie, emerge chiaramente la esistenza di una spiccata connessione investigativa ove si rifletta sulla circostanza che le condotte attribuite al C. sono emerse a seguito, appunto, delle indagini volte alla verifica della liceità penale delle metodiche operative che il ricordato commercialista R. suggeriva ai propri clienti al fine di fornire quelli che, con singolare ma significativo eufemismo, l’ordinanza impugnata riferisce essere definiti “servizi di cosiddetta ottimizzazione fiscale”.

 

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 26 marzo 2018, n. 14007

Sul ricorso proposto da:

  1. M., nato a Pavia il 26 novembre 1948;

avverso l’ordinanza n. 163/2017 RGTRS del Tribunale di Milano del 3 agosto 2017;

letti gli atti di causa, l’ordinanza impugnata e il ricorso introduttivo;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;

sentita la requisitoria del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Giulio ROMANO, il quale ha concluso chiedendo in rigetto del ricorso;

sentito, altresì, per il ricorrente l’avv. Fabrizio GNOCCHI, del foro di Pavia, anche in sostituzione dell’avv.ssa Loriana Zanuttigh, del foro di Pavia, il quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza del 3 agosto 2017 il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta di riesame formulata dalla difesa di G.M. – indagato in relazione alla violazione dell’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000 per avere sottratto al pagamento delle imposte sul reddito e sul valore aggiunti la somma di euro 2.000000.00, da lui detenuta in attività finanziarie non dichiarate allocate all’estero, compiendo azioni tese al trasferimento di esse presso un conto corrente acceso presso un istituto di crediti di Dubai, rendendo in tale modo inefficace ogni forma di riscossione delle imposte evase – avverso il decreto di sequestro preventivo emesso, sino alla concorrenza della somma di euro 1.293.170.0, dei beni, mobili ed immobili, intestati al richiedente ed alla di lui moglie.

Secondo il Tribunale del riesame non coglierebbe nel segno la censura formulata dal ricorrente secondo la quale la condotta a lui attribuita, consistente nella omessa dichiarazione di beni da lui detenuti all’estero in sede di dichiarazione dei redditi, costituirebbe mero illecito amministrativo e non integrerebbe gli estremi del reato in provvisoria contestazione.

Ad avviso del Tribunale di Milano la complessità delle operazioni finanziarie poste in essere dal G., tramite la assistenza di professionisti a loro volta oggetto di indagine, non può essere ricondotta alla mera omissione della dichiarazione di taluni cespiti, ma va qualificata come compimento di atti fraudolenti sui propri beni, volti a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, sicuramente ostacolata dalla esteroverstizione dei beni in questione, in tal modo risultando integrata la fattispecie astratta in provvisoria contestazione.

Osserva, in particolare, il Tribunale quanto all’elemento soggettivo del reato in questione, che, secondo il disposto dell’art. 12, comma 2, del di n. 78 del 2009, convertito con modificazioni con legge n. 109 del 2009, si presumono costituiti con redditi sottratti alla tassazione tutti gli investimenti e le attività finanziarie detenute da cittadini in stati o territori a regime fiscale privilegiato; cioè i cosidetti paradisi fiscali.

Questo secondo il Tribunale, sarebbe l’indice della evasione fiscale commessa del G., presupposto per la commissione del reato in questione.

Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, assistito dai propri difensori di fiducia, articolando tre motivi di impugnazione.

Con il primo il ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 11 della legge n. 74 del 2000, anche in relazione all’art. 1 cod. pen., osservando che la disposizione in provvisoria contestazione sanziona solamente le attività volte a rendere inefficace la riscossione coattiva delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Nel caso in questione, invece, imposta eventualmente evasa sarebbe quella prevista dall’art. 18, comma 19, del decreto legge n. 201 del 2011, convertito con legge n. 214 del 2011, il quale prevede una imposta sul valore dei prodotti finanziari, dei conti correnti e dei libretti di risparmio detenuti all’estero dalle persone fisiche residenti sul territorio dello Stato. Altrimenti, aggiunge il ricorrente le somme detenute all’estero sarebbero state soggette alla imposta di cui all’art. 13-bis del di n. 78 del 2009, ma anche in questo caso non si tratta né di imposta sui redditi né di imposta sul valore aggiunto, sicché si sarebbe al di fuori dell’ambito di rilevanza dell’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000.

Con il secondo motivo il ricorrente ha rilevato che, anche a voler seguire il ragionamento del Tribunale, la sottrazione dei redditi alla imposizione fiscale tramite la loro esportazione all’estero si sarebbe verificata anno per anno non oltre il 2010; i relativi reati sarebbero pertanto oramai in via di completa prescrizione, ed i termini per gli accertamenti fiscali sarebbero del tutto perenti; da questo si fa derivare che, non essendoci un attuale debito fiscale, non sarebbe riscontrabile il reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, che presuppone la sottrazione di cespiti del contribuente alla possibilità per l’Erario di soddisfarsi coattivamente in relazione di ad un debito tributario effettivamente sussistente; sul punto conclude il ricorrente sostenendo la derivante insussistenza del fumus commissi delicti.

Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 271, commi 1 e 2, cod. proc. pen., che si sarebbe realizzata in quanto le prove acquisite a suo carico sono il frutto delle intercettazioni telefoniche realizzate sulla utenza in uso al suo commercialista R., coindagato ed ideatore del sistema di frodi secondo la ipotesi accusatoria.

Per altro al G. non è contestato alcun concorso nei reati in ipotesi commesso dal R. ma solamente la commissione del reato tributario cosa che, secondo la difesa del ricorrente, farebbe mancare i presupposti applicativi per la utilizzazione a suo carico delle intercettazioni telefoniche.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato.

Quanto al primo motivo di impugnazione, con il quale è dedotta la violazione dell’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000 per avere il Tribunale del riesame di Milano ritenuto integrato il delitto di cui alla norma sopra richiamata pur in assenza di condotte volte a rendere inefficace la azione esecutiva dell’Erario in relazione al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, osserva il Collegio che effettivamente il reato previsto dalla disposizione precettiva dianzi indicata è configurabile esclusivamente allorché l’attività simulatoria, o comunque fraudolenta, posta in essere dall’agente è finalizzata alla personale sottrazione al pagamento dei debiti tributari riferibili alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero ad interessi e sanzioni relative a dette imposte (Corte di cassazione, Sezione III penale, 12 settembre 2013, n. 37389); tuttavia non può trascurarsi che nella occasione il presupposto da cui muove l’ipotesi accusatoria in provvisoria contestazione a carico del prevenuto concerne il fatto che questi, attraverso il loro clandestino trasferimento all’estero e, pertanto, tramite il loro occultamento alla azione di accertamento, verifica e controllo istituzionalmente svolta dagli organi della amministrazione fiscale, abbia sottratto alla imposizione tributaria da operare su di essi ingenti redditi maturati nello svolgimento della sua attività di farmacista e non dichiarati in sede di dichiarazione dei redditi e che analoga destinazione abbiano avuto somme da lui riscosse a titolo di iva e non riversate allo Stato.

In tal modo risulta essere soddisfatto l’elemento normativo contenuto nelle descrizione della condotta penalmente rilevante.

Con riferimento al secondo motivo di ricorso osserva il Collegio come sia frutto di una autentica petizione di principio, come tale indimostrata, l’affermazione secondo la quale l’attività di trasferimento all’estero dei redditi maturati e non dichiarati sia cessata a decorrere dall’anno di imposta 2010 e, pertanto, essa non sia più suscettibile di formare oggetto di accertamento e di esazione fiscale; tanto più in questa sede meramente cautelare, caratterizzata da una cognizione di carattere delibativo, la verifica della riferibilità temporale dell’eventuale maturazione dei debiti tributari alla frustrazione della cui possibilità di esazione coattiva è preordinata la condotta del G. è elemento che esula rispetto alla semplice riconducibilità in linea astratta della condotta del prevenuto al paradigma normativo del reato a lui provvisoriamente contestato.

Riconducibilità che, allo stato degli atti, appare, nei limiti che ora rilevano, ipotesi più che verisimile.

Invero, come è noto, ai fini della legittimità, sotto il profilo della sussistenza dei presupposti legittimanti, della misura cautelare reale è per radicata giurisprudenza di questa Corte sufficiente che la condotta ascritta al prevenuto, senza la necessità che ricorrano a carico del medesimo i gravi indizi di colpevolezza, sia sussumibile in una determinata ipotesi di reato (Corte di cassazione, Sezione II penale, 5 febbraio, 2014, n. 5656; idem, Sezione II penale, 20 gennaio 2014, n. 2248; idem Sezione VI penale, 14 novembre 2013, n. 45908).

Quanto, infine, al terzo motivo di impugnazione, con il quale è contestata la utilizzabilità ai fini delle indagini delle risultanze delle intercettazioni telefoniche ed ambientali operate a carico del R., commercialista dell’indagato ed aventi ad oggetto conversazioni intercorse fra questo ed il predetto professionista, rileva il Collegio la infondatezza del medesimo.

Al riguardo va rilevato che, sebbene l’art. 271, comma 2, cod. proc. pen. preveda espressamente, fra i divieti di utilizzazione, quello concernente le intercettazioni relative alle conversazioni o comunicazioni delle persone di cui all’art. 200, comma 1, cod. proc. pen., quando esse hanno ad oggetto fatti da loro conosciuti in ragione, per quanto ora interessa, della loro professione, siffatta disposizione deve essere intesa, conformemente alle condivise indicazioni interpretative rivenienti da questa Corte, nel senso che il divieto in questione è posto a tutela dei soggetti indicati nell’art. 200, comma primo, cod. proc. pen. e dell’esercizio della loro funzione professionale, ancorché non formalizzato in un mandato fiduciario, purché detto esercizio sia causa della conoscenza del fatto, ben potendo un libero professionista venire a conoscenza, in ragione della sua professione, di fatti relativi ad un soggetto dal quale non sia stato formalmente incaricato di alcun mandato professionale.

Ne consegue che detto divieto sussiste ed è operativo quando le conversazioni o le comunicazioni intercettate siano pertinenti all’attività professionale svolta dai soggetti indicati nell’art. 200, comma primo, cod. proc. pen. e riguardino, di conseguenza, fatti conosciuti in ragione della professione da questi esercitata (Corte di cassazione, Sezione V penale, 19 aprile 2013, n. 17979); come, infatti, la Corte ha ulteriormente precisato, in materia di intercettazioni, il divieto di utilizzazione stabilito dall’art. 271, comma secondo, cod. proc. pen., non sussiste quando le conversazioni o le comunicazioni intercettate non siano pertinenti all’attività professionale svolta dalle persone indicate nell’art. 200, comma primo, cod. proc. pen., e non riguardino di conseguenza fatti conosciuti per ragione della professione dalle stesse esercitata (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 5 maggio 2015, n. 18638; idem Sezione VI penale, 18 gennaio 2008, n. 2951).

Nel caso di specie le intercettazioni eseguite, lungi dal riguardare l’attività professionale svolta dal commercialista dell’indagato e riferita alla cura degli interessi patrimoniali di quest’ultimo, avevano ad oggetto un’attività in sé illecita, tale evidentemente da esulare rispetto ai limiti dello svolgimento di una incarico professionale, il quale presuppone, ove non si voglia cadere nell’insanabile contraddizione logica di ritenere tutelato dall’ordinamento lo svolgimento di un’attività criminosa, la piena liceità della condotta tenuta.

Poiché, invece, nel caso che interessa i contenuti delle intercettazioni in questione erano afferenti alle indicazioni fornite dal R. al C. sulle modalità di perpetrazione del delitto in provvisoria contestazione, è di tutta evidenza come esse, essendo indubbiamente esuberanti rispetto al corretto esercizio di un incarico professionale o, comunque, esulando rispetto ai limiti della lecita attività professionale, non possano essere protette dalle guarentigie di cui all’art. 271, comma 2, cod. proc. pen.

Né ha un qualche rilievo, ai fini della utilizzabilità delle intercettazioni operate a carico di del commercialista, il fatto che il C. non sia indagato in concorso con il R., atteso che in tema di intercettazione di conversazioni, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270, comma primo, cod. proc. pen., nel concetto di “diverso procedimento” non rientrano solo le indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova viene predisposto, né tale nozione equivale a quella di “diverso reato”, sicché la diversità del procedimento deve essere intesa in senso sostanziale, non collegabile al dato puramente formale del numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 dicembre 2014, n. 52503).

Nel caso di specie, emerge chiaramente la esistenza di una spiccata connessione investigativa ove si rifletta sulla circostanza che le condotte attribuite al C. sono emerse a seguito, appunto, delle indagini volte alla verifica della liceità penale delle metodiche operative che il ricordato commercialista R. suggeriva ai propri clienti al fine di fornire quelli che, con singolare ma significativo eufemismo, l’ordinanza impugnata riferisce essere definiti “servizi di cosiddetta ottimizzazione fiscale”.

Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

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