Bene non inerente: irrilevanti i componenti positivi di reddito
Tributi – IRES, IRAP e IVA – Contratti simulati in frode al fisco – Natura commerciale dell’utilizzo di imbarcazione – Accertamento – Costi indeducibili – Difetto di inerenza – Ricavi – Reddito d’impresa – Esclusione – Delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento conferita dal dirigente – Accoglimento
Con l’ordinanza n. 4365 del 13 febbraio 2023 la Corte di Cassazione, intervenendo in tema di imposta sui redditi d’impresa e riaffermando la clausola dell’inerenza dei costi per la corretta determinazione del reddito, ha stabilito che se il bene è estraneo all’attività commerciale dell’imprenditore, i relativi costi sono indeducibili, mentre i componenti positivi derivanti dal suo utilizzo vanno esclusi dal reddito d’impresa.
Comunque gli Ermellini hanno anche confermato, a favore della parte contribuente, la violazione dell’art. 37-bis cit., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., perché non erano state decurtate le imposte relative agli atti dei quali si è esclusa la natura commerciale, rilevando la contraddittorietà della posizione dell’ufficio, che accertato l’uso personale e non commerciale dell’imbarcazione, aveva disconosciuto i costi ma, nel contempo, non aveva escluso dall’accertamento i ricavi conseguiti dall’utilizzo a nolo di quel bene: “… Sebbene l’art. 37-bis, comma 2, vigente ratione temporis (secondo cui le imposte determinate in base alle disposizioni eluse sono dovute ‘al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione’), come sopra osservato, non trovi applicazione nella fattispecie in esame, la norma esprime un più generale canone, rispondente al principio costituzionale della imposizione fiscale secondo capacità contributiva (v. art. 53 cost.). Questo principio trova espressione, tra l’altro, nell’art. 8, comma 2, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito dalla I. 26 aprile 2012, n. 44 («Non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati») – avente portata retroattiva, in quanto più favorevole del previgente art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993 (Cass. n. 19000 del 2018; Cass. n. 7896 del 2016) – nonché nell’art. 37, ultimo comma cit. («Le persone interposte, che provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati, a norma del comma terzo, ad altro contribuente, possono chiederne il rimborso»)”.
La regola generale in materia di reddito d’impresa è che “il reddito complessivo è determinato apportando all’utile o alla perdita risultante dal C.E. relativo al periodo d’imposta, le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione delle norme tributarie”. Costituiscono componenti positivi di reddito i ricavi (art. 85 del Testo Unico), le plusvalenze patrimoniali (art. 86), le sopravvenienze attive (art. 88), i dividendi e gli interessi attivi, i proventi immobiliari e le rimanenze. Nel diritto tributario l’imputazione temporale dei componenti positivi e negativi che concorrono a determinare il reddito d’impresa deve essere fatta applicando il principio di competenza economica, che si contrappone a quello di cassa. Si attribuisce rilievo al momento economico: i ricavi devono essere imputati all’esercizio in cui sono conseguiti in senso economico, nel momento in cui si perfeziona lo scambio con i terzi e non nel momento in cui i terzi pagano i prodotti, e i costi devono essere correlati ai ricavi, cioè assumono rilievo quando sono realizzati i ricavi che hanno concorso a produrre: tali regole fissano la competenza temporale, individuano cioè la data in cui i costi si considerano sostenuti e quella in cui i ricavi si considerano conseguiti. Ciò implica che i costi non sono dedotti nell’esercizio in cui sono sostenuti, ma nell’esercizio in cui sono conseguiti i ricavi che hanno concorso a produrre.
I Giudici tornano oggi ad affrontare un aspetto spinoso dell’argomento, ovvero quello dell’inerenza di un costo nella determinazione del reddito d’impresa, giudizio dal quale dipende la deducibilità dello stesso ai fini fiscali, confermando l’indeducibilità dei costi, che nella specie erano relativi all’uso personale di una imbarcazione e, quindi, estranei all’attività dell’impresa per difetto di inerenza, evidenziando come non rilevava tanto accertare la natura reale o fittizia dell’interposizione, quanto accertato era di per sé sufficiente per escludere, con riguardo alla società mera intestataria, l’inerenza dei costi relativi al natante.
Per determinare il reddito di un’impresa attiva o anche di un lavoratore autonomo, risulta fondamentale un principio, quello d’inerenza, che non ha una definizione normativa ben precisa: infatti, non viene né visto né considerato determinante ai fini fiscali, ma risulta basilare per i bilanci degli esercizi. L’inerenza è una nozione giuridica di origine economica che si calcola al netto dei costi sostenuti per la propria azienda.
Per dedurre i costi è importante per un’impresa, innanzitutto, interpretare in modo ampio tale concetto, fare acquisti potenziali che devono produrre utili soddisfacenti o intraprendere progetti da cui derivino altri proventi che concorrono a formare il reddito: non si possono prendere in considerazione, invece, i ricavi. Dunque, il principio d‘inerenza stabilisce che le spese e i vari componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, si possono dedurre solo qualora riguardanti l’attività e il suo sviluppo alla crescita, costituisce in generale il necessario presupposto per la deducibilità dei componenti negativi nella determinazione del reddito di impresa.
In particolare, rileva la Corte, è stato indicato che il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa (e non dall’art. 109, comma 5, del TUIR, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili), che esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera ad essa estranea, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta), dato che è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, con un giudizio sull’inerenza di carattere qualitativo e non quantitativo.
Ai fini del riconoscimento della deducibilità del costo in regime d’impresa deve sussistere una correlazione del costo non in relazione ai ricavi, bensì all’attività imprenditoriale nel suo complesso, avuto riguardo all’oggetto dell’impresa. Nutrita la giurisprudenza al riguardo (v. Cass. n. 902/ 2020, Cass. n. 27987/2020 e Cass. n. 450/2018), dove la ratio di questa impostazione si fonda sulla nozione di reddito d’impresa e non sulla correlazione tra costi e ricavi, escludendosi dal novero dei costi deducibili solo quelli che si collocano in una sfera estranea all’attività imprenditoriale. Inoltre, nell’ordinanza 35925/2021 i Giudici di Piazza Cavour confermavano alcuni principi fondamentali, ricordando in primo luogo che l’inerenza all’attività d’impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione ex art. 109 (già 75) del DPR 917/1986, va definita come una relazione tra due concetti – la spesa (o il costo) e l’impresa – sicché il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione a una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (cfr. Cass. n. 20049/2017; n. 11241/2017 e n. 4041/2015).
La giurisprudenza ha quindi introdotto una modifica giungendo, a stabilire come “…l’inerenza deve esprimere la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza necessità di compiere valutazioni in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta. È infatti configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, né deve assumere rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass., 11 gennaio 2018, n. 450)”.
In buona sostanza la Suprema Corte afferma che, in definitiva, il principio di inerenza dei costi deducibili, esprimendo una correlazione in concreto tra costi e attività d’impresa, si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde da valutazioni di natura: l’inerenza è dunque un giudizio e la prova deve investire i fatti costitutivi del costo. Tutta la questione, in sostanza, si sposta sul piano probatorio, laddove, ad esempio, l’antieconomicità dell’operazione non comporta automaticamente l’indeducibilità dei costi, ma semplicemente la necessità di una prova più “convincente” in ordine alla deducibilità del componente negativo: è in tale prospettiva che assume rilievo la possibile valutazione circa la congruità o antieconomicità della spesa, intesa come proporzionalità fra importi corrisposti e utilità conseguite.
Tuttavia, limitandoci alla valutazione dell’antieconomicità di un costo – intesa, in particolare, come sproporzione fra la spesa e l’utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell’impresa – questo può fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza. In tale ultimo caso, ove il contribuente indichi i fatti che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare, se del caso anche con ricorso a indizi, gli ulteriori elementi addotti in senso contrario, in particolare evidenziando l’inattendibilità della condotta del contribuente. In particolare, l’onere probatorio che grava sul contribuente attiene all’esistenza di circostanze fattuali che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa; ma laddove l’Amministrazione adduca ulteriori elementi tali da far ritenere – per sé soli o in combinazione con quelli portati dal contribuente – che il costo non sia in realtà correlato all’attività d’impresa, la stessa è tenuta a fornire la prova della propria contestazione
Il contribuente è tenuto però a dimostrarne l’inerenza, intesa in termini qualitativi e dunque di compatibilità, coerenza e correlazione, non già ai ricavi in sé ma all’attività imprenditoriale svolta, dovendo quindi provare e documentare l’imponibile maturato, ossia l’esistenza e la natura dei costi, i relativi fatti giustificativi e la loro concreta destinazione alla produzione (v. Cass., n. 2224/2021). E a tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, e risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità del costo (v. Cass., n. 13300/2017).
Tanto premesso e guardando alla vicenda oggi in esame, una società contribuente a seguito di verifica della Guardia di Finanza riceveva dall’Agenzia delle entrate un avviso di accertamento recante maggiore IRES, IRAP e IVA fondato, in particolare, sul recupero di costi non inerenti, sul presupposto che l’imbarcazione da diporto detenuta in leasing dalla società, secondo gli accertatori, era di fatto in uso personale di uno dei soci e dei suoi familiari. Rivolgendosi alla giustizia tributaria la società vedeva in entrambi i gradi respinte le proprie richieste: in particolare, la CTP e CTR avevano rigettato l’impugnazione della società contribuente, ritenendo corretta l’esclusione della natura commerciale dell’utilizzo cui era destinata la barca e concludendo che il contratto concluso configurasse un’ipotesi di elusione fiscale.
Seguiva il ricorso in Cassazione, articolato su cinque motivi nei quali viene essenzialmente affermata la violazione dell’art. 37-bis cit., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. perché non erano state decurtate le imposte relative agli atti dei quali si è esclusa la natura commerciale. In particolare, la ricorrente deduceva di aver rilevato, sin dal primo grado, la contraddittorietà della posizione dell’ufficio, che accertato l’uso personale e non commerciale dell’imbarcazione, aveva disconosciuto i costi ma nel contempo non aveva escluso dall’accertamento i ricavi conseguiti dall’utilizzo a nolo di quel bene La Suprema Corte, riconoscendo la validità di quest’ultimo motivo di ricorso, ha affermato che “… In particolare, la ricorrente deduce di aver rilevato, sin dal primo grado, la contraddittorietà della posizione dell’Ufficio che, accertato l’uso personale e non commerciale della imbarcazione, aveva disconosciuto i costi ma nel contempo non aveva escluso dall’accertamento i ricavi conseguiti dall’utilizzo a nolo di quel bene. Il motivo è fondato. 5.1. Sebbene l’art. 37 bis comma 2 vigente ratione temporis (secondo cui le imposte determinate in base alle disposizioni eluse sono dovute “al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione”), come sopra osservato, non trovi applicazione nella fattispecie in esame, la norma esprime un più generale canone, rispondente al principio costituzionale della imposizione fiscale secondo capacità contributiva (v. art. 53 cost.). Questo principio trova espressione, tra l’altro, nell’art. 8, comma 2, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito dalla I. 26 aprile 2012, n. 44 («Non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati») – avente portata retroattiva, in quanto più favorevole del previgente art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993 (Cass. n. 19000 del 2018; Cass. n. 7896 del 2016) – nonché nell’art. 37 ult. comma cit. («Le persone interposte, che provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati, a norma del comma terzo, ad altro contribuente, possono chiederne il rimborso»). In sostanza, la riconosciuta estraneità del bene all’attività commerciale dell’imprenditore, se importa l’indeducibilità dei relativi costi, deve comportare l’esclusione dal reddito di impresa dei corrispondenti componenti positivi derivanti dall’utilizzo di quel bene. Il più prossimo riferimento positivo alla fattispecie in esame si può rinvenire proprio nell’art. 8, comma 2 cit., poiché l’imbarcazione in questione, sulla base di quanto accertato, non può considerarsi “effettivamente prestata” alla società e alla sua attività di impresa, essendo stata destinata all’uso personale dei soci. 6. Conclusivamente, accolto il quinto motivo e rigettati gli altri, la sentenza impugnata deve essere cassata con riferimento al motivo accolto con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania che deciderà, in diversa composizione, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità”.
Corte di Cassazione – Sentenza 13 febbraio 2023, n. 4365
sul ricorso iscritto al n. 18480/2015 R.G. proposto da:
Y.C.B. SRL IN LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA FEZZAN 65, presso lo studio dell’avvocato CAMPERCHIOLI ITALIA (CMPTLI68B42A080P) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BASILAVECCHIA MASSIMO (BSLMSM56B11G482C);
– ricorrente
contro AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (ADS80224030587) che la rappresenta e difende;
– controricorrente-
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 414/44/2015 depositata il 20 gennaio 2015.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 29 settembre 2022, tenuta nelle forme previste dall’art. 23, comma 8 bis, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modif. dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, dal Consigliere Giovanni La Rocca;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Francesco Salzano, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Fatti di causa
Secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, a seguito di verifica della Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate emise nei confronti della Y.C.B. srl (ora in liquidazione), partecipata da I.S. per il 50% e dalla M.A. srl per l’altro 50%, avviso di accertamento recante maggiore IRES, IRAP e IVA per il 2006 fondato, in particolare, sul recupero di costi non inerenti, sul presupposto che l’imbarcazione da diporto (Azimut 86S), denominata “M.”, detenuta in leasing dalla società, fosse di fatto in uso personale di I.S. e dei suoi familiari.
L’Ufficio aveva contestato il carattere commerciale dell’utilizzo dell’imbarcazione, ritenendo la sussistenza di una fattispecie inquadrabile nei «contratti simulati in frode al fisco finalizzata a conseguire risparmi ai fini delle imposte dirette, dell’IVA e delle accise». L’avviso di accertamento era stato impugnato dalla società e la CTP Napoli, con sentenza n. 286/46/13, aveva respinto il suo ricorso «ritenendo la sussistenza di un contratto simulato in frode al fisco».
A sua volta la CTR Campania, con la sentenza n. 414/15, ha rigettato l’appello proposto dalla stessa società contro questa sentenza, affermando la correttezza della «esclusione della natura commerciale dell’utilizzo cui era destinata l’imbarcazione» e concludendo che il contratto era stato «simulato in frode alla legge tributaria, inquadrandosi la fattispecie nell’ipotesi di elusione fiscale».
La società propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Deposita memoria la ricorrente.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 36, d.lgs. n. 546 del 1992 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. In particolare, lamenta l’apparenza della motivazione, che tiene insieme diverse ed eterogenee fattispecie (simulazione assoluta, nullità per frode alla legge ed elusione fiscale/abuso del diritto) e risulta così perplessa, contraddittoria e illogica, determinando una lesione del diritto di difesa della contribuente, costretta «a difendersi da ciascuna delle plurime ipotesi “accusatorie”».
Il motivo deve essere disatteso.
1.1. E’ noto che, a seguito della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis anche alla sentenza in esame (pubblicata oltre il trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore dell’anzidetta legge di conversione), il vizio motivazionale deve essere considerato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, alla stregua del “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. sez. un. n. 8053 e 8054 del 2014), precisandosi ulteriormente che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda «percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice» (Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016; v. anche Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016 non massimata; Cass. n. 13977 del 2019; Cass. n. 6758 del 2022).
In ossequio a questi principi si è affermato che ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. n. 9105 del 2017).
1.2. Nel caso di specie, la motivazione contiene una coerente e chiara esposizione degli elementi in fatto che hanno indotto a condividere la decisione di primo grado e ad escludere la natura commerciale dell’utilizzo della imbarcazione, «destinata invece a godimento diretto da parte dell’I.S. o dei suoi familiari».
In particolare, la CTR ha rilevato:
– la limitatezza dei noleggi stipulati (soltanto due, uno per tre giorni e uno per un mese) e l’assenza di ulteriori attività commerciali nel corso dell’anno;
– la fittizietà del noleggio a D. srl, tenuto conto dell’oggetto sociale (gestione di un albergo in Milano) e delle cointeressenze societarie (la D. srl era controllata per intero dalla D. srl a sua volta controllata per il 50% dalla M.A. srl, socia della ricorrente per il 50%, le cui quote riconducono a G.S.);
– il sostenimento delle spese relative all’imbarcazione direttamente da parte dai soci I.S. e M.A. srl che provvedevano a far affluire sul conto della società la provvista necessaria per far fronte ai canoni di leasing e alle varie spese di gestione dell’imbarcazione.
1.3. La censura riguarda, piuttosto, il profilo della qualificazione del fatto, così come accertato dal giudice di merito, ma sul punto soccorrono i poteri di cui all’art. 384 c.p.c. (analogamente, Cass. n. 6145 del 2019; v. anche Cass. sez. un. n. 2731 del 2017).
In primo luogo, si deve escludere la simulazione del contratto di leasing poiché non risulta la partecipazione della società concedente all’accordo simulatorio relativo al contratto (sulla necessità della partecipazione di tutti i contraenti alla simulazione, anche solo soggettiva, v., ultimamente, Cass. n. 18049 del 2022).
La fattispecie, inoltre, è estranea al fenomeno dell’abuso del diritto e della elusione fiscale poiché non si fa valere l’inopponibilità di un “atto, fatto o negozio”, nei termini di cui all’art. 37 bis d.P.R. n. 600 del 1973 che dava forma all’abuso del diritto prima della modifica dell’art. 10 bis legge n. 212 del 2000 introdotto dall’art. 1, d.lgs. n. 128 del 2015 ma, più semplicemente, si è accertata una complessa situazione fattuale da cui è derivato il giudizio di non inerenza dei costi contestati.
1.4. Secondo i giudici di merito, infatti, il bene intestato alla società era destinato non alla sua attività commerciale ma all’uso e al godimento del socio e dei suoi familiari: sul punto è assai esplicita la sentenza della CTP la quale, ricostruendo «la realtà del possesso ed utilizzo diretto dello yacht principalmente ed in via quasi esclusiva da parte del sig. I.S. che rappresenta, di fatto, il proprietario a pieno titolo dell’imbarcazione» (v. trascrizione in ricorso, pag. 8), descrive, sostanzialmente, una situazione di interposizione soggettiva. Non rileva, comunque, acclarare la natura reale o fittizia dell’interposizione (sulla irrilevanza, con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 37 comma 3 d.P.R. n. 600 del 1973, v. Cass. n. 5276 del 2022 e Cass. n. 11055 del 2021), perché quanto accertato è sufficiente per escludere, con riguardo alla società mera intestataria, l’inerenza dei costi relativi all’imbarcazione, atteso che il suo utilizzo era comunque estraneo all’attività di impresa della stessa («appare corretta l’esclusione della natura commerciale dell’utilizzo cui era destinata l’imbarcazione»).
1.5. Sul punto la decisione è in linea con la più recente giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’inerenza si ricava dalla nozione di reddito d’impresa – e non dall’art. 75, comma 5 d.P.R. n. 917 del 1986, ora art. 109, comma 5, del medesimo d.P.R., riguardante il diverso principio dell’indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti (ferma l’inerenza) cioè della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili – ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta), in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (v. Cass. n. 450 del 2018; Cass. n. 22938 del 2018; Cass. n. 29404 del 2019; Cass. n. 30366 del 2019; Cass. n. 26911 del 2022).
Una non dissimile nozione vale in tema di IVA ai fini della detraibilità dell’imposta assolta sugli acquisti, poiché «il diritto alla detrazione dell’imposta non sorge per il solo fatto dell’avvenuto pagamento dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza dell’operazione all’impresa» (Cass. n. 8919 del 2020; Cass. n. 7740 del 2021; Cass. n. 15616 del 2020).
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 e 56 d.P.R. n. 633 del 1972 nonché dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., perché era stato considerato valido l’accertamento senza che vi fosse prova della delega al sottoscrittore da parte del capo dell’ufficio, in quanto la delega prodotta non riportava i nominativi dei soggetti delegati né l’oggetto delle deleghe.
Il motivo è infondato.
2.1. Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, la delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento conferita dal dirigente ex art. 42, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, «è una delega di firma e non di funzioni» (Cass. n. 8814 del 2019; Cass. n. 18383 del 2019; Cass. n. 18675 del 2020).
La prima ipotesi si verifica quando un organo, pur mantenendo la piena titolarità circa l’esercizio di un determinato potere, delega ad altro organo, ma anche a funzionario non titolare di organo, il compito di firmare gli atti di esercizio dei potere stesso: in questi casi l’atto firmato dal delegato, pur essendo certamente frutto dell’attività decisionale di quest’ultimo, resta formalmente imputato all’organo delegante, senza nessuna alterazione dell’ordine delle competenze (Cass. n. 6113 del 2005). Al contrario, l’istituto di diritto pubblico della «delegazione amministrativa» di competenze assume rilevanza esterna, ragion per cui si richiede che sia disciplinato per legge attuandosi, mediante adozione di un formale atto di delega, l’attribuzione ad un diverso ufficio od ente di poteri in deroga alla disciplina delle competenze amministrative (c.d. delega di funzioni).
Appare evidente la differenza fra le due figure: la «delega di firma» realizza un mero decentramento burocratico in quanto il delegato alla firma» non esercita in modo autonomo e con assunzione di responsabilità i poteri inerenti alle competenze amministrative riservate al delegante, ma agisce semplicemente come longa manus – e dunque in qualità di mero sostituto materiale – del soggetto persona fisica titolare dell’organo cui è attribuita la competenza.
In altri termini, nella delega di firma il delegato non esercita alcun potere o competenza riservata al delegante (Cass. n. 20628 del 2015), ma la sua legittimazione alla sottoscrizione si giustifica con la relazione di natura organizzativa tra organi (o tra l’organo delegante ed il funzionario delegato) e trova titolo nei poteri di ordine e direzione, coordinamento e controllo attribuiti al dirigente preposto all’ufficio nell’ambito dello schema organizzativo della subordinazione gerarchica tra persone appartenenti al medesimo ufficio (Cass. n. 11013 del 2019; Cass. n. 2221 del 2021).
2.2. Si afferma, pertanto, l’inapplicabilità alla delega di firma della normativa prevista per la delega di funzioni, optandosi per una disciplina più adeguata all’istituto e «conforme alle esigenze di buon andamento e della legalità della pubblica amministrazione»: così si esclude la nominatività della delega e la sua temporaneità, dovendo ritenersi che «nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione della c.d. delega di firma possa avvenire, attraverso l’emanazione di ordini di servizio che abbiano valore di delega (Cass., 20 giugno 2011, n. 13512) e che individuino il soggetto delegato attraverso l’indicazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale parimenti consente la verifica della corrispondenza fra il sottoscrittore e il destinatario della delega stessa» (Cass. n. 11039 del 2019).
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 37 bis d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., a causa della mancata preventiva attivazione del procedimento ivi previsto, in particolare, ai commi 4 e 5.
3.1. Il motivo deve essere disatteso alla luce di quanto sopra osservato con riguardo al primo motivo, perché il praticato recupero di imposta non è da ricondurre alla sfera dell’elusione fiscale di cui all’art. 37 bis cit..
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 164 e 109, 55 e 73 d.P.R. n. 917 del 1986 nonché, per l’IVA, degli artt. 4 e 19 bis lett. b) d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., laddove si è negata la strumentalità dell’imbarcazione rispetto all’attività commerciale. La ricorrente, in particolare, ha rilevato la legittimità delle operazioni infragruppo, la regolare pattuizione e corresponsione di prezzi di mercato nelle operazioni di noleggio, l’esito del procedimento penale con riguardo ai medesimi fatti (conclusosi con l’archiviazione sulla base dell’accertamento dell’effettivo esercizio di una attività di noleggio), l’insussistenza delle condizioni di cui all’art. 4 d.P.R. n. 633 del 1972 in base alle quali si può negare la qualifica di ente commerciale a chi esercita la gestione di imbarcazioni da diporto.
4.1. Il motivo è inammissibile perché, da un lato, attraverso il paradigma della violazione di legge si tenta in realtà di rimettere in discussione l’apprezzamento in fatto, che compete al Giudice di merito ed è insindacabile in quanto tale nel giudizio di legittimità, e, d’altro lato, esso non coglie la ratio decidendi della decisione, che ha escluso l’inerenza dei costi all’attività della società, avendo accertato, sia pure attraverso presunzioni, la destinazione e l’utilizzo della imbarcazione a favore del socio e dei suoi familiari.
Gli argomenti offerti risultano, così, inconferenti e, comunque, inidonei ad inficiare l’accertamento svolto dal Giudice d’appello.
5. Il quinto motivo lamenta la violazione dell’art. 37 bis cit., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., perché non erano state decurtate le imposte relative agli atti dei quali si è esclusa la natura commerciale.
In particolare, la ricorrente deduce di aver rilevato, sin dal primo grado, la contraddittorietà della posizione dell’Ufficio che, accertato l’uso personale e non commerciale della imbarcazione, aveva disconosciuto i costi ma nel contempo non aveva escluso dall’accertamento i ricavi conseguiti dall’utilizzo a nolo di quel bene.
Il motivo è fondato.
5.1. Sebbene l’art. 37 bis comma 2 vigente ratione temporis (secondo cui le imposte determinate in base alle disposizioni eluse sono dovute “al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione”), come sopra osservato, non trovi applicazione nella fattispecie in esame, la norma esprime un più generale canone, rispondente al principio costituzionale della imposizione fiscale secondo capacità contributiva (v. art. 53 cost.).
Questo principio trova espressione, tra l’altro, nell’art. 8, comma 2, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito dalla I. 26 aprile 2012, n. 44 («Non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati») – avente portata retroattiva, in quanto più favorevole del previgente art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993 (Cass. n. 19000 del 2018; Cass. n. 7896 del 2016) – nonché nell’art. 37 ult. comma cit. («Le persone interposte, che provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati, a norma del comma terzo, ad altro contribuente, possono chiederne il rimborso»).
In sostanza, la riconosciuta estraneità del bene all’attività commerciale dell’imprenditore, se importa l’indeducibilità dei relativi costi, deve comportare l’esclusione dal reddito di impresa dei corrispondenti componenti positivi derivanti dall’utilizzo di quel bene.
Il più prossimo riferimento positivo alla fattispecie in esame si può rinvenire proprio nell’art. 8, comma 2 cit., poiché l’imbarcazione in questione, sulla base di quanto accertato, non può considerarsi “effettivamente prestata” alla società e alla sua attività di impresa, essendo stata destinata all’uso personale dei soci.
6. Conclusivamente, accolto il quinto motivo e rigettati gli altri, la sentenza impugnata deve essere cassata con riferimento al motivo accolto con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania che deciderà, in diversa composizione, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il quinto motivo, rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto, rinviando alla Corte di giustizia di secondo grado della Campania, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso nella camera di consiglio della Corte di Cassazione