CASSAZIONE

Avviso di accertamento: il verbale del pvc deve essere depositato in giudizio

Tributi – Contenzioso tributario – Procedimento – Onere della prova – Avviso di accertamento con rinvio a verifiche operate dalla Guardia di finanza – Contestazione di attendibilità dei relativi esiti – Onere di produzione in giudizio del p.v.c. in capo all’Amministrazione finanziaria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 29878 del 30 dicembre 2020, intervenendo sulla mancata allegazione di un pvc in sede contenziosa, ha posto un interessante distinguo tra onere di motivazione e onere della prova – il primo relativo all’avviso di accertamento, il secondo al processo – per ribadire il principio di diritto che non si può prescindere dalla produzione in giudizio del processo verbale di constatazione, in quanto “…Il fatto che l’accertamento sia stato basato sugli elementi del p.v.c. e che questo sia stato precedentemente reso noto al contribuente vale a renderlo ‘perfetto’ sotto il profilo della sua motivazione, ma non è sufficiente a dare dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria che non può prescindere dalla produzione in giudizio del processo verbale di constatazione”. (Cass. 3978/2017)
La recente giurisprudenza della S.C. ha confermato il principio in virtù del quale anche nel processo tributario vale la regola generale in tema di distribuzione dell’onere della prova dettata dall’art. 2697 cod. civ. e, pertanto, in applicazione della stessa, l’Amministrazione finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa: in presenza, quindi, di un avviso di accertamento che richiami espressamente elementi di indagine ricavati da verifiche operate dalla Guardia di Finanza, ed a fronte delle contestazioni mosse dal contribuente circa l’attendibilità dei relativi esiti, l’onere di dimostrare la legittimità della pretesa fiscale ricade in capo all’Amministrazione finanziaria e non può prescindere dalla produzione in giudizio del processo verbale di constatazione (Cass. n. 955 del 2016; cfr. anche Cass. nn. 21509 del 2010, 1946 del 2012).
Come è noto, il processo tributario ha carattere dispositivo in quanto la materia del contendere è delineata dalle parti e non può esser ampliata dal giudice (art.7, D.lgs. 546/1992). La motivazione dell’atto, quindi, svolge sul piano processuale la funzione di circoscrivere la materia del contendere, con la conseguenza che in tutti i casi in cui l’atto impositivo sia stato motivato facendo riferimento al contenuto di un atto non allegato né comunicato al contribuente, i fatti e le argomentazioni nello stesso riportate non possono esser prese in considerazione in ambito processuale al fine della decisione. Nel momento in cui si dovessero verificare che fatti determinanti a sostegno della pretesa erariale non fossero stati riportati correttamente nel contenuto dell’atto impugnato, si dovrà procedere al suo annullamento per carenza di motivazione e per violazione del diritto di difesa del contribuente accertato.
L’art. 3della legge n. 241/1990, nel dettare disposizioni di ordine generale sulla motivazione degli atti amministrativi, dispone espressamente che la motivazione degli stessi “deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”, precisando, al terzo comma, che “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile anche l’atto cui essa si richiama”. Tale principio trova riconoscimento, in materia tributaria, nel generale principio affermato dall’art.7 della L. n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente).
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7649/2020 ha stabilito il principio secondo cui, in caso di motivazione per relationem, qualora l’Amministrazione finanziaria integri i documenti nel corso del giudizio di appello dopo aver omesso di allegarli o riportarli nell’iniziale atto impositivo, l’atto deve considerarsi nullo, non rilevando la previsione di cui all’art. 58, co. 2, D.lgs. 546/1992, che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame, seppur preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado.
Giova, per meri fini di chiarezza, soffermarsi su quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 955/2016, nella quale diverse ed entrambe essenziali sono le funzioni che la motivazione dell’atto impositivo e la prova dei fatti che ne sono posti a fondamento sono dirette ad assolvere, poiché, mentre la motivazione dell’atto “ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an e il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze”, la prova, invece, “attiene al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso”.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione sull’argomento è pertanto univoca nel distinguere l’adeguatezza della motivazione dell’atto impositivo dalla prova dei fatti posti a fondamento dello stesso: l’esistenza di un’adeguata motivazione del primo non implica anche la prova dei fatti sui quali la pretesa si regge, diverse ed entrambe essenziali essendo le funzioni che l’una (motivazione dell’atto) e l’altra (prova dei fatti che ne sono posti a fondamento) sono dirette ad assolvere.
Premesso quanto sopra, l’obbligo di motivazione degli atti impositivi previsto dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del Contribuente si pone anche come strumento di garanzia del diritto di difesa del contribuente. Diritto di difesa che risulta effettivamente garantito solo nella misura in cui il contribuente sia posto nella condizione di conoscere, sin dalla fase iniziale di notifica dell’atto, tutti gli elementi posti a fondamento della pretesa fiscale. La motivazione dell’atto impositivo mira, infatti, a “delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio nella successiva fase contenziosa ed, altresì a consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa. È, pertanto, necessario a tal fine che l’atto stesso contenga gli elementi essenziali, comprensivi dell’allegazione dei documenti richiamati in motivazione, se non già noti al contribuente” (Cass. n. 4070/2020).
Il requisito formale della motivazione dell’atto impositivo di cui all’art. 7 può ritenersi assolto anche attraverso la motivazione per relationem, ossia mediante il riferimento a elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato, ovvero riprodotti nel loro contenuto essenziale.
Tanto premesso e tornando ai fatti dibattuti, nell’ambito di una verifica fiscale nei confronti della società contribuente la Guardia di Finanza individuava una netta discordanza tra il prezzo degli immobili venduti e numerosi altri elementi raccolti atti a dimostrare l’omessa dichiarazione dei più elevati ricavi e l’evasione delle imposte. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento solamente richiamando quanto riportato nel pvc, senza allegarlo all’atto e senza, soprattutto, produrlo successivamente in giudizio.
La società impugnava l’atto impositivo.
La CTR respingeva il ricorso dell’Agenzia affermando come la stessa non avesse assolto il proprio onere probatorio. Il Fisco ricorreva in Cassazione.
I Giudici di legittimità, nel respingere il ricorso delle Entrate hanno ribadito che: “… L’Agenzia ricorrente non coglie la ratio decidendi della pronuncia della CTR, la quale non ha affatto escluso la validità degli elementi presuntivi dedotti dall’amministrazione, ma ha rilevato che gli stessi erano stati solo allegati e non supportati da prova. Il fatto che l’accertamento sia stato basato sugli elementi del p.v.c. e che questo sia stato precedentemente reso noto al contribuente (circostanza sulla quale insiste la ricorrente) vale a renderlo “perfetto” sotto il profilo della sua motivazione, ma non è sufficiente a dare dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria che «non può prescindere dalla produzione in giudizio del processo verbale di constatazione» (Cass. 3978/2017). In proposito, la giurisprudenza di questa Corte è univoca nel distinguere l’adeguatezza della motivazione dell’atto impositivo dalla prova dei fatti posti a fondamento dello stesso: l’esistenza di una adeguata motivazione del primo non implica anche la prova dei fatti sui quali la pretesa si regge, «diverse ed entrambe essenziali essendo le funzioni che l’una (motivazione dell’atto) e l’altra (prova dei fatti che ne sono posti a fondamento) sono dirette ad assolvere. Mentre infatti la motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica, presidiata dall’art. 7 della legge 27 luglio 2002, n. 212, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an ed il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze;
la prova attiene al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso, sicché in definitiva tra l’una e l’altra corre la stessa differenza concettuale che vi è tra allegazione di un fatto costituivo della pretesa fatta valere in giudizio e prova del fatto medesimo … In mancanza del p.v.c. più volte richiamato — secondo quanto viene pacificamente riferito — dall’avviso di accertamento e indicato come indispensabile nella sentenza di primo grado, non si poteva ritenere raggiunta la prova dei fatti costitutivi» (Cass. 955/2016).
È irrilevante che il processo «verbale di constatazione sia stato a suo tempo notificato alla società contribuente, dal momento che, a seguito dell’impugnazione giudiziale del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo di accertamento dell’imposta, ci si muove in un ambito strettamente processuale, in cui anche, e soprattutto, il giudice, oltre che le parti, deve essere messo in grado di conoscere – e per intero – tutti gli atti rilevanti ai fini della decisione, fra cui riveste un ruolo primario quello richiamato per relationem nella motivazione del provvedimento impugnato, di guisa che le affermazioni dell’ufficio appellante … non potevano ritenersi acquisite e provate indipendentemente da qualsiasi analisi e/o vaglio critico ed in assenza persino, appunto, del processo verbale che avrebbe dovuto contenere o, quanto meno, indicare, le prove di quanto affermato dai verificatori» (Cass. 5903/2019 e Cass. 5904/2019; sull’indispensabilità della produzione
Col secondo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) degli artt. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992, 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. per avere la CTR omesso di esercitare i propri poteri officiosi di indagine per acquisire il p.v.c., documento «non contestato quanto ad esistenza e contenuto, ma, soltanto, non inserito tra gli atti del giudizio nel supporto cartaceo» (come si ammette nel ricorso introduttivo). Il motivo è infondato.
Difatti, secondo consolidata giurisprudenza, «l’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, attribuisce al giudice tributario il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova non per sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma soltanto in funzione integrativa degli elementi di giudizio, il cui esercizio è consentito ove sussista una situazione obiettiva di incertezza e laddove la parte non possa provvedere per essere i documenti nella disponibilità della controparte o di terzi. (In applicazione di detto principio, la S.C. ha ritenuto che il giudice tributario non potesse esercitare il potere di acquisizione d’ufficio di un processo verbale di constatazione richiamato nell’avviso di rettifica)» (così, Cass. 955/2016, Rv. 638439-01; analogamente, Cass. 10401/2018 e Cass. 25563/2017).
Col terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) degli artt. 39 D.P.R. n. 600 del 1973, 54 e 55 D.P.R. n. 633 del 1972 per avere la CTR omesso di prendere in considerazione gli elementi (richiamati nel testo del ricorso) posti dall’Agenzia delle Entrate a fondamento della rettifica dei valori dichiarati.
Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato.
Infatti, l’Agenzia ricorrente non coglie la ratio decidendi (relativa alla mancata produzione in giudizio del p.v.c. quale prova della pretesa fiscale) e pretende inammissibilmente di sottoporre a questa Corte di legittimità la valutazione degli elementi probatori che la CTR non ha considerato (proprio in ragione della mancanza del citato documento). In ogni caso, il dedotto elemento riguardante lo scostamento del prezzo di vendita rispetto ai valori OMI – asseritamente trascurato dalla CTR – non vale a rendere fondata la pretesa fiscale: infatti, «nell’ipotesi di contestazione di maggiori ricavi derivanti dalla cessione di beni immobili, la reintroduzione, con effetto retroattivo, della presunzione semplice, ai sensi dell’art. 24, comma 5, della I. n. 88 del 2009 (legge comunitaria 2008), che ha modificato l’art. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 54 del D.P.R. n. 633 del 1972, sopprimendo la presunzione legale (relativa) di corrispondenza del prezzo della compravendita al valore normale del bene, introdotta dall’art. 35 del d.l. n. 223 del 2006, conv. in L. n. 248 del 2006, non impedisce al giudice tributario di fondare il proprio convincimento su di un unico elemento, purché dotato dei requisiti di precisione e di gravità, elemento che non può, tuttavia, essere costituito dai soli valori OMI, che devono essere corroborati da ulteriori indizi, onde non incorrere nel divieto di presumptio de presumpto» (da ultimo, Cass. 2155/2019, Rv. 652213-01). In conclusione, il ricorso è respinto.

Corte di Cassazione – Ordinanza 30 dicembre 2020, n. 29878

sul ricorso 14707-2014 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, 2020 che lo rappresenta e difende;

  • ricorrente –
    contro D. P. IMM. SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LIMA 7, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE IANNUCCILLI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIORGIO SAGLIOCCO;
  • controricorrente –
    avverso la sentenza n. 74/2014 della COMM.TRIB.REG. della Campania depositata il 09/01/2014;
    udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/07/2020 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI.
    Rilevato che:
  • la D. P. IMM. S.r.l. impugnava l’avvisò di accertamento notificatole dall’Agenzia delle Entrate per maggiori imposte dirette, IRAP e IVA; l’avviso richiamava il p.v.c. del 27/9/2008 della Guardia di Finanza che, nell’ambito di una verifica fiscale nei confronti della società per le annualità 2004-2005-2006- 2007, aveva rilevato una netta discordanza tra il prezzo degli immobili venduti e numerosi altri elementi raccolti (preliminari di compravendita, assegni consegnati dagli acquirenti o bonifici di pagamento, mutui immobiliari stipulati per l’acquisto, valore dei cespiti, risposte degli acquirenti ai questionari, ecc.) atti a dimostrare l’omessa dichiarazione dei più elevati ricavi e l’evasione delle imposte;
  • la C.T.P. di Caserta accoglieva il ricorso in ragione dell’utilizzo dei valori OMI da parte dell’amministrazione (reputato arbitrario) e dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli acquirenti alla G.d.F. (stante il divieto di prova testimoniale), «prescindendo dai rilievi mossi in merito all’onere della prova ed all’insufficienza probatoria dell’avviso»;
  • la C.T.R. della Campania, con la sentenza n. 74/49/14 del 9/1/2014, respingeva l’appello dell’Agenzia delle Entrate, affermando che l’ufficio non aveva assolto il proprio onere probatorio, in quanto non aveva prodotto in giudizio il processo verbale di constatazione corredato della documentazione impiegata per dimostrare la pretesa erariale: «a fronte della doglianza relativa alla mancata produzione in giudizio del p.v.c. della Guardia di Finanza sul quale era fondata la prova della tesi inerente l’accertamento, l’ufficio … era restato … del tutto inerte. … Avrebbe dovuto provare al giudice l’affermata evasione compiuta dalla società … e per fornire tale prova avrebbe dovuto indicare i soggetti sentiti dalla Guardia di Finanza, produrre le loro dichiarazioni, per consentirne la valutazione del contenuto, indicare l’ammontare delle somme versate per le singole vendite da raffrontare con le dichiarazioni acquisite … In altre parole avrebbe dovuto produrre in giudizio il p.v.c. della Guardia di Finanza … Nel ricorso introduttivo la parte ricorrente aveva lamentato che l’ufficio aveva omesso di esibire tutti gli elementi richiamati nell’avviso di accertamento. … Non si vede come potrebbe considerarsi fondato l’accertamento se non si ha a disposizione nessuno degli elementi indispensabili per la decisione, contenuti nel p.v.c. della Guardia di Finanza»;
  • avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi;
  • resiste con controricorso la D. P. IMM. S.r.l.
    Considerato che
  1. Col primo motivo l’Agenzia ricorrente deduce violazione e falsa applicazione (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) degli artt. artt. 32 e 39 D.P.R. n. 600 del 1973, 51, 54, 55 D.P.R. n. 633 del 1972, 2697 cod. civ. per avere la C.T.R. escluso la fondatezza della pretesa impositiva che era fondata su elementi presuntivi, puntualmente riportati nell’avviso di accertamento, rispetto ai quali la parte non aveva opposto contrastanti elementi probatori.
  2. Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato.
    L’Agenzia ricorrente non coglie la ratio decidendi della pronuncia della C.T.R., la quale non ha affatto escluso la validità degli elementi presuntivi dedotti dall’amministrazione, ma ha rilevato che gli stessi erano stati solo allegati e non supportati da prova. Il fatto che l’accertamento sia stato basato sugli elementi del p.v.c. e che questo sia stato precedentemente reso noto al contribuente (circostanza sulla quale insiste la ricorrente) vale a renderlo “perfetto” sotto il profilo della sua motivazione, ma non è sufficiente a dare dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria che «non può prescindere dalla produzione in giudizio del processo verbale di constatazione» (Cass. 3978/2017). In proposito, la giurisprudenza di questa Corte è univoca nel distinguere l’adeguatezza della motivazione dell’atto impositivo dalla prova dei fatti posti a fondamento dello stesso: l’esistenza di una adeguata motivazione del primo non implica anche la prova dei fatti sui quali la pretesa si regge, «diverse ed entrambe essenziali essendo le funzioni che l’una (motivazione dell’atto) e l’altra (prova dei fatti che ne sono posti a fondamento) sono dirette ad assolvere.
    Mentre infatti la motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica, presidiata dall’art. 7 della legge 27 luglio 2002, n. 212, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an ed il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze; la prova attiene al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso, sicché in definitiva tra l’una e l’altra corre la stessa differenza concettuale che vi è tra allegazione di un fatto costituivo della pretesa fatta valere in giudizio e prova del fatto medesimo … In mancanza del p.v.c. più volte richiamato — secondo quanto viene pacificamente riferito — dall’avviso di accertamento e indicato come indispensabile nella sentenza di primo grado, non si poteva ritenere raggiunta la prova dei fatti costitutivi» (Cass. 955/2016).
    È irrilevante che il processo «verbale di constatazione sia stato a suo tempo notificato alla società contribuente, dal momento che, a seguito dell’impugnazione giudiziale del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo di accertamento dell’imposta, ci si muove in un ambito strettamente processuale, in cui anche, e soprattutto, il giudice, oltre che le parti, deve essere messo in grado di conoscere – e per intero – tutti gli atti rilevanti ai fini della decisione, fra cui riveste un ruolo primario quello richiamato per relationem nella motivazione del provvedimento impugnato, di guisa che le affermazioni dell’ufficio appellante … non potevano ritenersi acquisite e provate indipendentemente da qualsiasi analisi e/o vaglio critico ed in assenza persino, appunto, del processo verbale che avrebbe dovuto contenere o, quanto meno, indicare, le prove di quanto affermato dai verificatori» (Cass. 5903/2019 e Cass. 5904/2019; sull’indispensabilità della produzione in giudizio del processo verbale di constatazione, tra le altre, v. anche Cass. 3978/2017 e Cass. 21509/2010).
  3. Col secondo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) degli artt. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992, 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. per avere la C.T.R. omesso di esercitare i propri poteri officiosi di indagine per acquisire il p.v.c., documento «non contestato quanto ad esistenza e contenuto, ma, soltanto, non inserito tra gli atti del giudizio nel supporto cartaceo» (come si ammette nel ricorso introduttivo).
  4. Il motivo è infondato.
    Difatti, secondo consolidata giurisprudenza, «l’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, attribuisce al giudice tributario il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova non per sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma soltanto in funzione integrativa degli elementi di giudizio, il cui esercizio è consentito ove sussista una situazione obiettiva di incertezza e laddove la parte non possa provvedere per essere i documenti nella disponibilità della controparte o di terzi. (In applicazione di detto principio, la S.C. ha ritenuto che il giudice tributario non potesse esercitare il potere di acquisizione d’ufficio di un processo verbale di constatazione richiamato nell’avviso di rettifica)» (così, Cass.
    955/2016, Rv. 638439-01; analogamente, Cass. 10401/2018 e Cass. 25563/2017).
  5. Col terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) degli artt. 39 D.P.R. n. 600 del 1973, 54 e 55 D.P.R. n. 633 del 1972 per avere la C.T.R. omesso di prendere in considerazione gli elementi (richiamati nel testo del ricorso) posti dall’Agenzia delle Entrate a fondamento della rettifica dei valori dichiarati.
  6. Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato.
    Infatti, l’Agenzia ricorrente non coglie la ratio decidendi (relativa alla mancata produzione in giudizio del p.v.c. quale prova della pretesa fiscale) e pretende inammissibilmente di sottoporre a questa Corte di legittimità la valutazione degli elementi probatori che la C.T.R. non ha considerato (proprio in ragione della mancanza del citato documento). In ogni caso, il dedotto elemento riguardante lo scostamento del prezzo di vendita rispetto ai valori OMI – asseritamente trascurato dalla C.T.R. – non vale a rendere fondata la pretesa fiscale: infatti, «nell’ipotesi di contestazione di maggiori ricavi derivanti dalla cessione di beni immobili, la reintroduzione, con effetto retroattivo, della presunzione semplice, ai sensi dell’art. 24, comma 5, della I. n. 88 del 2009 (legge comunitaria 2008), che ha modificato l’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, sopprimendo la presunzione legale (relativa) di corrispondenza del prezzo della compravendita al valore normale del bene, introdotta dall’art. 35 del d.l. n. 223 del 2006, conv. in I. n. 248 del 2006, non impedisce al giudice tributario di fondare il proprio convincimento su di un unico elemento, purché dotato dei requisiti di precisione e di gravità, elemento che non può, tuttavia, essere costituito dai soli valori OMI, che devono essere corroborati da ulteriori indizi, onde non incorrere nel divieto di presumptio de presumpto» (da ultimo, Cass. 2155/2019, Rv. 652213-01).
  7. In conclusione, il ricorso è respinto.
    Alla decisione fa seguito la condanna dell’Agenzia ricorrente alla rifusione, in favore della società controricorrente, delle spese di questo giudizio di cassazione, le quali sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo secondo i parametri del d.m. Giustizia dell’8 marzo 2018, n. 37 (in proposito, e con riguardo all’applicabilità dei parametri fissati dal previgente d.m. n. 55 del 2014, Cass., Sez. 6-2, Sentenza n. 21205/2016, Rv. 641672-01).
  8. Poiché la ricorrente è un’Amministrazione dello Stato esonerata dal versamento del contributo unificato, va escluso l’obbligo di versare l’ulteriore importo pari a quello dovuto per il ricorso principale, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della Legge n. 228 del 2012 (Cass. 17789/2016).
    P. Q. M.
    La Corte rigetta il ricorso; condanna l’Agenzia delle Entrate ricorrente a rifondere a D. P. IMM. S.r.l. le spese di questo giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie e accessori di legge.
    Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 22 luglio 2020

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