CASSAZIONE SENTENZE

Autoriciclaggio: è sempre reato, anche quando l’operazione è risultata tracciabile

Reati tributari – Trasferimento di quote sociali – Autoriciclaggio – Art. 648 ter.1 c.p. – Identificazione della provenienza delittuosa del bene – Validi riscontri investigativi – Tracciabilità dell’operazione – Idoneità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n 45397 del 9 dicembre 2021 è intervenuta sul tema dell’integrazione del reato di autoriciclaggio, affermando che nelle operazioni di trasferimento delle utilità provenienti dal delitto presupposto l’intervenuta tracciabilità, emersa a seguito delle attività di indagine poste in essere dopo la consumazione del reato, non esclude l’idoneità “ex ante” della condotta a ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. In altre parole, il reato di autoriciclaggio si rappresenta anche quando la titolarità del profitto cambia per effettuazione di un’operazione risultata poi tracciabile per effetto delle attività di indagine.

La questione dell’introduzione nel nostro ordinamento del reato di autoriciclaggio, avvenuta con la legge n. 186 del 15 dicembre 2014 e in vigore solo nel gennaio 2015, relativo all’utilizzo da parte di un soggetto di denaro o altre utilità derivanti da un reato presupposto da egli stesso commesso, è tuttora aperta nel dibattito giurisprudenziale, dottrinale e soprattutto normativo, anche in virtù della clausola di riserva di apertura degli artt. 648 bis e ter, di cui tratteremo più in avanti.

L’idea di fondo, che ritiene di giustificare l’incriminazione dell’autoriciclaggio, riposa sulla considerazione di congelare il profitto in capo al soggetto che ha commesso il reato presupposto, in modo da impedirne la sua utilizzazione maggiormente offensiva, quella che espone a pericolo o addirittura lede “l’ordine economico”.

Ricordiamo in proposito che il legislatore pose attenzione ai sistemi di contrasto alla criminalità orientata al profitto, nei quali la ragione insisteva sulla constatazione che l’utilizzazione di mezzi provenienti dalle stesse attività illegali davano luogo a fattori rilevanti di alterazione delle regole della concorrenza e del mercato. La disponibilità in proprio di mezzi economici di provenienza illecita, che come tali non sono soggetti a imposizione fiscale e svincolati da qualsiasi controllo, generati attraverso modalità a loro volta alterative della concorrenza, ne permette l’utilizzo o verso ulteriori attività illecite o in impieghi che pongono l’utilizzatore in una condizione di privilegio rispetto ai competitori rispettosi delle regole.

In sintesi è possibile osservare che in merito agli elementi costitutivi dell’illecito penale in commento, il bene giuridico presidiato dall’art. 648 ter1, per  la duplice valenza delle condotte di reimmisione nel circuito legale dei mezzi provenienti da attività illecite e di ostacolo alla tracciabilità della provenienza, allontana la fattispecie criminosa dalla componente meramente patrimonialistica, per collocarla nell’alveo dei reati inquinati dalla reimmisione di capitali sporchi nel circuito dell’economia legale.

L’introduzione del 648 ter-1 rappresenta, pertanto, una piena presa di coscienza da parte del legislatore rispetto a un fenomeno in costante crescita e dagli effetti non meno preoccupanti dei reati-base.

Nel dettaglio sarà bene evidenziare che l’autoriciclaggio, ex articolo 648-ter1 del codice penale, punisce “chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo”, svolga poi una serie qualificata di comportamenti di carattere “auto-riciclatorio” ponendo così un concreto ostacolo all’identificazione della loro provenienza delittuosa. Con l’autoriciclaggio si è in sostanza cercato di limitare una lacuna nel nostro jus puniendi superando la limitazione costituita dalla clausola di riserva apposta sia al reato di riciclaggio 648-bis c.p. che a quello di impiego 648-ter che recita, in entrambi, “fuori dai casi di concorso nel reato”, escludendo così per tali fatti la punibilità sia in capo all’autore che in capo al concorrente del reato presupposto e, di conseguenza, di disporre di uno strumento più efficace per colpire l’occultamento dei patrimoni illeciti.

Comunque, in tema di limiti del concorso nel reato da cui derivano i proventi illeciti, la dottrina e la giurisprudenza hanno più volte affermato l’esclusione di una concorrente responsabilità tra delitto presupposto e successivo riciclaggio, con la conseguente qualificazione giuridica del fatto commesso nel suo corrispondente ambito di rilevanza penale. Sul tema intervenne inizialmente una pronuncia della Cassazione, che con la sentenza n. 6561/2009 ebbe il merito di porre in primo piano la questione dell’ammissibilità del riciclaggio realizzato mediante versamento di denaro di provenienza illecita in una società partecipata a maggioranza dall’autore del delitto presupposto. La condotta incriminata può consistere, alternativamente, nell’impiegare, sostituire o trasferire in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative denaro, beni o altre utilità provenienti dal delitto non colposo in precedenza perpetrato, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

Più in dettaglio l’oggetto materiale del reato è costituito da denaro, beni o qualsiasi altra utilità proveniente dal delitto presupposto, con ciò ricomprendendo altresì gli immobili, le aziende, i titoli di credito e quant’altro. L’elemento soggettivo del reato di autoriciclaggio è il dolo generico, e cioè la coscienza e volontà di realizzare il fatto tipico. Si richiede, infatti, la volontaria realizzazione di una delle condotte dissimulatore previste dal comma 1 dell’art. 648-ter1, accompagnata dalla consapevolezza dell’idoneità dell’operazione realizzata a creare un concreto ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa del denaro, dei beni o delle altre utilità autoriciclate.

Deve al contrario presumersi la consapevolezza della provenienza delittuosa della cosa, essendo il reo anche l’autore del reato presupposto. Trattandosi di reato di pura condotta, la consumazione si ha nel momento e nel luogo in cui viene realizzato dall’agente il comportamento tipico.

Il quinto comma dell’art. 648-ter1 prevede un aumento di pena allorquando le condotte siano state poste in essere nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o in un’altra attività professionale. La ratio dell’aggravante è da rintracciarsi nel fatto che lo svolgimento di determinate attività professionali rende più agevole la realizzazione di operazioni di ripulitura di capitali “sporchi”.

Il sesto comma della norma in commento, invece, introduce un’attenuante speciale di tipo premiale applicabile al soggetto che si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro o delle altre utilità provenienti dal delitto.

E’ possibile ora affrontare il tema dell’ambito di applicazione della clausola di non punibilità prevista dal comma 4 dell’art. 648-ter1 che statuisce che“… Fuori dai casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni, o le altre utilità vengano destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale”; il quarto comma, dunque, delimita l’ambito di applicazione della fattispecie e segna un limite negativo, descrivendo una modalità della condotta espressamente esclusa dalla rilevanza penale.

Nella  controversa questione riguardante l’ambito applicativo della clausola di non punibilità nel reato di autoriciclaggio occorre ribadire che, ai fini dell’integrazione del reato, non è necessario che l’agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo al contrario sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo a ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza. Necessita, comunque, che l’ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa del bene sia “concreto”, così come prescrive la norma incriminatrice. In tale contesto, il necessario accertamento in ordine alla concreta idoneità della condotta dell’agente a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosadei beni non può che essere rimessa al giudice del merito, dipendendo dalla valutazione specifica della dinamica del caso concreto. La querelle giurisprudenziale, sorta all’indomani dell’introduzione del reato in esame, si è incentrata sul corretto significato da attribuire alla locuzione “Fuori dei casi di cui ai commi precedenti”. Sul punto, due tesi si sono confrontate nel tempo.

Un primo indirizzo giurisprudenziale dichiarava che la fattispecie disciplinata dal comma 4 dell’art. 648-ter1 sarebbe, già sul piano della tipicità, diversa e autonoma rispetto alle condotte descritte nei commi precedenti. Per i sostenitori di tale indirizzo interpretativo la norma dovrebbe essere interpretata secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole in essa indicate, sicchè la suddetta clausola non si applicherebbe alle condotte descritte nei commi precedenti. L’espressione “Fuori dei casi…”, a livello semasiologico, sta a significare che la fattispecie testé contemplata è diversa e autonoma rispetto a quelle previste nei “commi precedenti”.

La norma, dunque – avendo una sua autonomia e ponendosi all’esterno delle fattispecie previste nei commi precedenti – avrebbe una funzione interpretativa o di puntualizzazione del primo comma, proprio perché si sarebbe potuti addivenire alle medesime conclusioni anche senza di essa e sulla base di una semplice interpretazione a contrario. Infatti, posto che il primo comma sanziona l’impiego, la sostituzione, il trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative del denaro, dei beni o delle altre utilità provenienti dalla commissione del delitto presupposto, si sarebbe potuti ugualmente pervenire a ritenere non punibili le condotte con cui il denaro, i beni e le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale, proprio perché si tratta di condotte estranee all’area della condotta tipica e, quindi, penalmente irrilevanti, in ossequio al principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost.

Un secondo orientamento controbatte che l’interpretazione appena richiamata condurrebbe a una inevitabile interpretatio abrogans della fattispecie de qua, rendendo del tutto superfluo il quarto comma dell’art. 648ter1. Di conseguenza, a seguito di tale rilettura della norma, la clausola in esame fungerebbe da limite alla condotta descritta e sanzionata nel primo comma, ossia come una clausola di non punibilità da applicare tutte le volte in cui la condotta autoriciclatoria, di per sé punibile, sia stata finalizzata alla utilizzazione o godimento personale del denaro, dei beni o delle altre utilità provento del delitto presupposto.

L’adesione alla prima, piuttosto che alla seconda, delle tesi ricordate non conduce a conclusioni meramente dogmatiche, bensì è foriera di conseguenze rilevanti sul piano applicativo.

La Corte, iniziando un percorso giurisprudenziale consolidato nel tempo, ha optato con la soluzione prospettata dalla Seconda Sezione penale (Cass. n. 30399/2018) che ha accolto la prima delle tesi prospettate e, quindi, affermato che la fattispecie criminosa che integri tutti i requisiti di cui al comma 1 dell’art. 648-ter1 è sanzionabile penalmente, essendo del tutto irrilevante che alla fine della operazioni di autoriciclaggio il soggetto abbia deciso di semplicemente utilizzare o godere dei suddetti beni a titolo personale.

Tale interpretazione è stata poi confermata da altre pronunzie che hanno precisato (ex multis Cass.n. 27859/2019) che, ai fini della valutazione della legittimità del provvedimento (sequestro probatorio ex art. 253, c.p.p.), tenuto conto della fase in cui interveniva la convalida, ovvero nella prima fase delle indagini preliminari, poteva ben farsi riferimento esclusivamente al titolo del reato per cui si procedeva ed agli atti redatti dalla polizia giudiziaria. Inoltre, la S.C. metteva in evidenza che, seppur ci si trovasse in una fase embrionale delle indagini nella quale le modalità di commissione del reato ancora non apparivano del tutto chiare, era necessario effettuare una descrizione della condotta ipotizzata a carico dell’indagato, dalla sua riconduzione a una fattispecie incriminatrice, ma anche la necessità di portare elementi utili all’individuazione della natura dei beni da vincolare e dalla precisazione della loro relazione con tale ipotesi criminosa, non essendo esaustiva l’indicazione della sola norma violata, che non consente di apprezzare compiutamente le esigenze probatorie e la ragione per cui i beni sequestrati sono cose pertinenti al reato (Cass. n. 37639/2019 e n. 3604/2019).

In definitiva, i giudici della Suprema Corte proseguendo nel solco tracciato da questi univoci pronunciamenti in materia, ribadivano che ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio, pur non essendo necessaria la ricostruzione del delitto presupposto in tutti gli estremi storici e fattuali,  necessitava che esso fosse individuato nella sua tipologia, rimarcando la necessità che il provvedimento cautelare fornisse anche indicazioni circa le ragioni d’esclusione della clausola di riserva contenuta nell’art. 648-bis c.p. e specifichi la condotta tipica del delitto di riciclaggio oggetto di provvisorio addebito, non potendo essere considerata tale quella del mero possesso di denaro, inidonea ad integrare l’attività diretta alla “sostituzione, al trasferimento o ad altre operazioni” intese a occultare la provenienza delittuosa del denaro.

Sempre gli Ermellini, infine, ribadivano che ai fini della configurabilità del delitto di riciclaggio non è necessaria la ricostruzione del delitto presupposto in tutti gli estremi storici e fattuali, nondimeno ciò non esonera il giudice dalla necessità di individuare la tipologia di delitto all’origine del bene da sottoporre a vincolo, in quanto appunto di provenienza delittuosa, non risultando all’uopo sufficiente il richiamo a indici sintomatici privi di specificità in ordine alla derivazione della disponibilità oggetto di espropriazione e suscettibili esclusivamente di provare un ingiustificato possesso di danaro.

I principi statuiti nelle citate sentenze hanno di fatto compiuto una accurata e definitiva perimetrazione dei presupposti giuridici per la contestazione del reato di riciclaggio, anche se è doveroso ribadire che il ricorso aveva a oggetto l’impugnazione di un provvedimento cautelare reale emesso nella fase embrionale delle indagini preliminari, fase per sua natura molto duttile proprio perché le indagini sono in continuo divenire, al contrario della fase di merito in cui gli atti sono oramai cristallizzati senza possibilità di modifiche. In buona sostanza, i giudici della Suprema Corte hanno puntualizzato dei principi di diritto in tema di riciclaggio che sinteticamente fanno riferimento alla disponibilità ingiustificata di una somma di denaro di considerevole importo, alle modalità di occultamento, alla condizione di impossidenza dei prevenuti e, infine, ai precedenti penali a carico degli indagati.

Sul tema si può fare riferimento alla nota pronunzia n. 32112/2020, che ha aperto una significativa quotazione sull’evoluzione giurisprudenziale del reato di riciclaggio, nella quale i Supremi Giudici ammonivano che “ … Ai fini della legittimità del sequestro preventivo di cose che si assumono pertinenti al reato di riciclaggio di cui all’art. 648 c.p., pur non essendo necessario la specifica individuazione e l’accertamento del delitto presupposto, è tuttavia indispensabile che esso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti e scrutinati, almeno astrattamente configurabile e precisamente indicato, situazione non ravvisabile quando il giudice si limiti semplicemente a supporne l’esistenza, sulla sola base del carattere asseritamente sospetto delle operazioni relative ai beni e valori che si intendono sottoporre a sequestro”.

Pertanto, al fine di poter contestare il reato di riciclaggio sono necessari validi riscontri investigativi in grado di suffragare l’esistenza del reato presupposto, in assenza del quale non si configura il reato di riciclaggio, ovvero bisogna dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio l’illecita provenienza del denaro oppure dei beni o altre utilità economiche.

Tanto premesso e tornando al caso de quo, che riguardava alcuni ricorrenti indagati a vario titolo che, secondo la prospettazione accusatoria, erano imputati di aver effettuato un trasferimento di quote sociali da una s.r.l. ad altra s.r.l. attraverso unaoperazione tracciabile, ma interferendo illecitamente nell’ambito di una procedura fallimentare, turbando occultamente la regolarità della vendita delle quote della società con un prezzo ritenuto  dall’accusa non corrispondente al valore reale dei beni che erano stati sottostimati per la partecipazione illecita del perito estimatore nominato nell’ambito della procedura fallimentare.

I ricorrenti, nelle motivazioni del ricorso in Cassazione si lamentavano essenzialmente della non considerazione nel precedente giudizio del fatto che  sarebbe stata garantita a tutti i possibili acquirenti interessati ogni informazione e pubblicità “senza alcun nascondimento e senza percorrere alcuna via privilegiata nei confronti di taluno, a danno di altri” e che, pertanto, il reato non sarebbe astrattamente configurabile in quanto anche il Tribunale ha affermato la regolarità formale della procedura di scelta del contraente; inoltre, la sottostima dell’immobile non sarebbe condotta ricompresa nell’art. 353-bis cod. pen., esulando dalla contestazione ogni altra condotta asseritamente fraudolenta la cui indicazione costituirebbe una radicale modifica dell’addebito. La Suprema Corte ha ritenuto invece che “… Nel caso in esame, si è trattato di un “trasferimento” di beni, una delle attività espressamente indicate dalla norma incriminatrice. In particolare, di un trasferimento di quote sociali da una s.r.l. ad altra s.r.l. (dalla C. s.r.l. alla MA s.r.l.). Per ciò stesso, vertendosi in ambito economico-imprenditoriale, deve escludersi che il trasferimento non riguardi “attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”, secondo quanto richiesto dalla norma incriminatrice, ovvero che esso trasferimento inerisca ad una “mera utilizzazione o godimento personale”, che scriminerebbe la condotta ex art. 648-ter.1, comma 4, cod. pen. Tale trasferimento ha attuato, obbiettivamente, un mutamento della titolarità del profitto del reato riveniente dai reati presupposto (il valore delle quote della C. s.r.l. ottenuto attraverso l’attività fraudolenta passata da una loro sottostima). Il mutamento della titolarità del profitto è avvenuto attraverso una operazione tracciabile, ma tale requisito della transazione non esclude, in astratto, la sussistenza del reato, che deve affermarsi anche soltanto sulla base di una condotta che abbia creato intralcio non definitivo rispetto alla identificazione della provenienza delittuosa del bene. In questo senso, Sez. 2, n. 36121 del 24/05/2019, Draebing, Rv. 276974, secondo cui, ai fini dell’integrazione del reato di autoriciclaggio non occorre che l’agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza. In tema di autoriciclaggio, l’intervenuta tracciabilità, per effetto delle attività di indagine poste in essere dopo la consumazione del reato, delle operazioni di trasferimento delle utilità provenienti dal delitto presupposto non esclude l’idoneità “ex ante” della condotta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa (Sez. 2, n. 16908 del 05/03/2019, Ventola, Rv. 276419). Occorre, tuttavia, tenere in conto che l’ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa del bene deve essere “concreto”, così come prescrive la norma incriminatrice. Ed il necessario accertamento in ordine alla concreta idoneità della condotta dell’agente ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni non può che essere rimessa al giudice del merito, dipendendo dalla valutazione specifica della dinamica del caso concreto. Per quel che attiene alla vicenda in esame, il Tribunale ha ampiamente messo a fuoco la circostanza che gli indagati P. L. M. e M. A. dovevano essere considerati come i reali dominus della vicenda illecita, avendo entrambi occultato le loro cointeressenze servendosi di soggetti prestanome, scelti nei rispettivi ambiti familiari, attraverso i quali avevano, dapprima, trasferito a terzo soggetto (M. S.) il profitto illecito dei reati presupposto, costituito, come si è già detto, dalle quote della C. s.r.l., ottenendo un controvalore di un milione e mezzo di euro a fronte di un acquisto per un valore capziosamente sottostimato di euro 237.000. L’attività di schermatura delle persone di P. L. M. e M. A., posta in essere attraverso la commissione del reato di cui all’art. 512-bis cod.pen. – completato con i trasferimenti di parte delle quote da M. S. al di lui fratello R. ed a V. S. – porta a ritenere che l’intera operazione, che non è corretto segmentare in punto di fatto, abbia comportato un concreto ostacolo alla identificazione dei beni di provenienza illecita, anche solo per il fatto di aver determinato, in un secondo momento costituito dalla successiva vendita alla Ma s.r.l., una differenziazione tra titolari formali e titolari sostanziali della transazione, solo oggettivamente riferibile a soggetti diversi dal P. e da M. A. ma a costoro nella sostanza riconducibile, i quali, ex ante, avevano avuto un ruolo tanto primario quanto occulto nell’ottenimento illecito dei beni poi oggetto del “trasferimento” di cui si discute, il quale trasferimento aveva allontanato da loro il profitto illecito immesso nel circuito economico sano rendendo più difficile, a posteriori, la ricostruzione della intera operazione e dei suoi reali artefici. Rimane ininfluente ed, anzi, ricompresa nella finalità della condotta illecita – così inquadrata ex art. 648-ter.1. cod. pen. in ragione di quanto detto – che il ricorrente ed i correi mirassero a “lucrare legittimamente la plusvalenza riguardo al bene acquisito”, così come sottolineato dalla difesa. Inoltre, alla sussistenza del reato di autoriciclaggio, nella particolare forma del “trasferimento” di beni di illecita provenienza individuata nella specie, non è di ostacolo la circostanza, sottolineata dal ricorrente, che i beni fossero stati venduti ad un soggetto terzo, estraneo agli illeciti contestati (l’imprenditore A. G., cui era riferibile la Ma s.r.l.).  Nella specifica ipotesi del “trasferimento” di beni provenienti da delitto, infatti, a meno di non voler azzerare la portata della norma, non è richiesto che il soggetto mantenga una signoria sul bene anche dopo la transazione, così come avviene nei casi di “impiego”; quel che importa, nel caso del “trasferimento”, è che si sia in presenza degli altri requisiti richiesti dall’art. 648-ter.1.cod. pen. costituiti, sul piano oggettivo, dalla immissione nel circuito economico sano di beni di provenienza illecita ponendo concreto ostacolo alla loro identificazione”.

Corte di Cassazione – Sentenza 9 dicembre 2021, n. 45397

Sui ricorsi proposti da:

1) P. A., nato a Latina il 13/08/1964,

2) P. L. M., nato a Roma il 02/11/1964, avverso l’ordinanza del 09/03/2021 del Tribunale di Roma, visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione della causa svolta dal consigliere Giuseppe Sgadari;

sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale Domenico Seccia, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi;

sentiti i difensori: avv. Tommaso Pietrocarlo e Franco Coppi per P. L. M., avv. Leone Zeppieri per P. A., che hanno chiesto l’accoglimento dei ricorsi;

RITENUTO IN FATTO

1.Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Roma rigettava l’appello proposto dai ricorrenti avverso l’ordinanza emessa dal GIP del Tribunale di Latina il 10 dicembre 2020 che aveva applicato nei loro confronti la misura interdittiva del divieto di esercitare le rispettive professioni per un anno.

2. Secondo la prospettazione accusatoria, gli indagati odierni ricorrenti, in concorso con il coindagato M. A., avevano commesso i reati descritti ai capi 1) e 2) della imputazione provvisoria, avendo interferito illecitamente nell’ambito di una procedura fallimentare, turbando occultamente la regolarità della vendita delle quote della società C. s.r.1., proprietaria di un immobile in Terracina di rilevante valore economico adibito ad albergo (Hotel “Il G.”), vendita che si era conclusa con l’assegnazione, 1’8 febbraio 2018, di tutte le quote della società in capo a M. S., per un prezzo di euro 237.000 ritenuto dall’accusa non corrispondente al valore reale dei beni della C. s.r.1., sottostimati in ragione della partecipazione illecita all’operazione di M. M., perito estimatore nominato nell’ambito della procedura fallimentare.

Da qui la contestazione:

– del reato di cui al capo 1), di induzione in errore del curatore del fallimento a prendere interesse privato in un atto della procedura (artt. 48-228 Legge Fallimentare), contestato a P. A. quale amministratore della C. s.r.l. nominato dal curatore del fallimento ed a P. L. M. e M. A. quali istigatori;

– del reato di cui al capo 2), di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (art. 353-bis cod. pen.), contestato ai suddetti indagati, al perito estimatore M. M. ed anche a M. S., che aveva coadiuvato i correi divenendo beneficiario formale di tutte le quote della C. s.r.1. poi da lui trasferite, il 23 marzo 2018, per il 25% al di lui fratello M. R. e per il 50% a V. S., moglie di P. L. M.. L’accusa enuclea quali dominus occulti di tutta l’operazione illecita l’avv. P. L. M. (coniuge di V. S.) e M. A., padre di M. S. e M. R.

Alla luce di tale ruolo occulto, si prospetta come fittizio il trasferimento da M. S. a V. S. del 50% delle quote della C. s.r.1. contestando a P. L. M. ed agli stessi coindagati M. S. e V. S. il reato di cui al capo 3), di intestazione fittizia di beni ex art. 512-bis cod. pen..

I reati di cui ai capi 1), 2) e 3) sono stati considerati, sempre secondo l’impostazione accusatoria, come reati presupposto rispetto a quello di autoriciclaggio di cui al capo 4), contestato a P. L. M., M. S., M. A. e V. S., i quali, con differenti ruoli (di intestatari formali ma fittizi e di contitolari occulti) avevano trasferito, 1’8 gennaio del 2019, le quote societarie di loro spettanza della C. s.r.l. alla MA s.r.1., riferibile all’imprenditore A. G., soggetto ritenuto estraneo ad ogni addebito. Ad identico e contestuale trasferimento alla MA s.r.l. addiveniva anche M. R. – per il 25% delle quote della C. s.r.l. – coindagato al quale viene contestato il reato ex art. 648-ter cod. pen. di cui al capo 5), in quanto non ritenuto concorrente nei reati presupposto. Il prezzo complessivo del trasferimento di tutte le quote della C. s.r.l. alla MA s.r.l. era stato di euro 1.500.000.

Infine, al coindagato B. L., quale consulente dell’imprenditore A.e della MA s.r.1. è stato contestato il reato ex art. 648-ter cod. pen. di cui al capo 6), per avere agevolato la vendita alla MA s.r.l. delle quote della C. s.r.l. collaborando con i coindagati in quanto incaricato di sovrintendere alla transazione commerciale. 3. Il Tribunale riteneva la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza dei reati contestati nonché della esigenza cautelare del pericolo di reiterazione che poneva a giustificazione della misura. 4. Ricorrono per cassazione P. A. e P. L. M., con distinti atti.

4.1. P. A. deduce:

1) violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla dedotta nullità dell’ordinanza genetica per la omessa valutazione da parte del GIP degli elementi a discarico dedotti dalla difesa in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. In particolare, il ricorrente si duole della mancata considerazione della memoria difensiva depositata il 3 ottobre 2019 con allegati, sottoscritta dal curatore fallimentare Viviani Leonardo, il quale rivendicava la legittimità di tutti i passaggi della procedura fallimentare specificando di “aver agito nella piena consapevolezza delle scelte adottate senza essere vittima di attività di induzione alcuna” (fg. 6 del ricorso).

Il Tribunale avrebbe dovuto rilevare la mancanza di motivazione da parte del GIP annullando l’ordinanza impositiva della misura, senza procedere ad integrazioni, peraltro, nella specie, assenti con riguardo proprio alla valutazione della memoria controfirmata dal curatore del fallimento; in questa prospettiva sarebbe improprio il richiamo operato dal Tribunale alla previsione contenuta al comma 9 dell’art.309 cod. proc. pen. in quanto non richiamata nel successivo art. 310 stesso codice; 2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 228 Legge Fallimentare e del reato di cui all’art. 353-bis cod. pen..

Quanto al primo reato, secondo il ricorrente, egli, quale amministratore di una società in bonis, non sarebbe stato vincolato da un divieto normativo a rendere pubblici i dati contabili, finanziari, patrimoniali e debitori della società, così come gli si imputa al capo 1) con riguardo al disvelamento di notizie al coindagato P.

La condotta del ricorrente avrebbe avuto quale unico obiettivo, condiviso con il curatore ed il giudice delegato, la vendita delle quote della società, realizzando il M. possibile per il ceto creditorio, “sicché tale attività non poteva prescindere dal fornire informazioni dettagliate, complete e veritiere a coloro che potevano avere interesse all’acquisizione” (fg. 13 del ricorso).

La motivazione, sul punto, avrebbe travisato i fatti e sarebbe illogica.

Inoltre, secondo il ricorrente, il reato di interesse privato del curatore negli atti del fallimento di cui al capo 1) non sarebbe giuridicamente configurabile, posto che al curatore il Tribunale avrebbe assegnato, contraddicendosi, un ruolo di soggetto acquiescente rispetto a supposte (ma in realtà non sussistenti) condotte illecite altrui e, nello stesso tempo, vittima di induzione in errore ex art. 48 cod. pen., norma che non sarebbe applicabile al reato in esame trattandosi di reato cosiddetto di mano propria.

Inoltre, non sarebbe stato enucleato l’elemento falso trasmesso al curatore in modo da indurlo a optare per la scelta di cedere le quote della C. s.r.l., scelta rimasta libera ed indipendente come affermato dallo stesso curatore del fallimento e, peraltro, in linea con gli interessi della procedura e non con quelli privati. Quanto al reato di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente di cui al capo 2), in forza di quanto è stato precisato sul ruolo del ricorrente quale amministratore di una società in bonis e sulle prerogative ad esso riconducibili, si sostiene in ricorso che non sarebbe stata commessa alcuna condotta integrativa del reato in quanto volta a condizionare le modalità di scelta del contraente.

Per le ragioni esposte a fg. 19 del ricorso, sarebbe stata garantita a tutti i possibili acquirenti interessati ogni informazione e pubblicità “senza alcun nascondimento e senza percorrere alcuna via privilegiata nei confronti di taluno, a danno di altri”. Il reato non sarebbe astrattamente configurabile in quanto anche il Tribunale ha affermato la regolarità formale della procedura di scelta del contraente ed, inoltre, la sottostima dell’immobile non sarebbe condotta ricompresa nell’art. 353-bis cod. pen., esulando dalla contestazione ogni altra condotta asseritamente fraudolenta, la cui indicazione costituirebbe una radicale modifica dell’addebito;

3) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del pericolo di recidiva.

Il Tribunale non avrebbe fornito elementi volti a mettere in luce la concretezza e l’attualità di tale esigenza cautelare, limitandosi ad un “mero riferimento alla condotta criminosa oggetto di contestazione”, senza specificare alcunché.

4.2. P. L. M. deduce:

1) violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla dedotta nullità dell’ordinanza genetica per la omessa valutazione da parte del GIP degli elementi a discarico dedotti dalla difesa in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Motivo sovrapponibile a quello dedotto dal precedente ricorrente.

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 228 Legge Fallimentare. Motivo sovrapponibile a quello dedotto dal precedente ricorrente.

3) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 353-bis cod. pen.. Motivo sovrapponibile a quello dedotto dal precedente ricorrente P. A. nell’ambito del secondo motivo del suo ricorso.

4) violazione di legge in riferimento all’art. 512-bis cod. pen. il quale non richiama il reato di cui all’art. 648-ter.1. cod. pen. nel novero di quelli la cui commissione deve essere agevolata dalla condotta di intestazione fittizia di beni contestata al ricorrente al capo 3) della imputazione provvisoria.

5) violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di autoriciclaggio di cui al capo 4 della imputazione provvisoria.

Secondo il ricorrente, l’insussistenza dei reati presupposto di cui ai capi 1) e 2) della contestazione farebbe venir meno in radice la possibilità di configurare il reato di cui all’art. 648-ter.1. cod. pen. Inoltre, non sarebbe individuabile alcuna condotta finalizzata al concreto occultamento delle quote sociali della C. s.r.l., non potendosi individuare, nella cessione delle stesse alla società Ma s.r.l. alcuna finalità di riciclaggio o di reimpiego, anche in ragione del mancato coinvolgimento, nelle contestazioni di riciclaggio, del legale rappresentante della società acquirente (fg. 29 del ricorso).

Inoltre, il Tribunale di Latina, con ordinanza del 26 febbraio del 2021 resa in sede di riesame relativo a misura cautelare reale, aveva escluso il fumus del reato di autoriciclaggio per le ragioni trasfuse ai fgg. 30-33 del ricorso, sottolineandosi la necessità che per configurare il reato occorre un quid pluris rispetto al mero trasferimento del bene e che l’attività illecita abbia la finalità di occultare la reale titolarità del bene. Nel caso in esame, al contrario, “appare evidente come la cessione delle quote sociali non avesse alcuna finalità dissimulatoria, ma esclusivamente quella di lucrare legittimamente la plusvalenza riguardo al bene acquisito” (fg. 34 del ricorso); 6) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del pericolo di recidiva. Motivo sovrapponibile al terzo motivo di ricorso del ricorrente P. A.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono infondati.

1.1. Quanto al primo motivo di ricorso nell’interesse di P. A., è affermazione giurisprudenziale pacifica quella secondo cui la norma contenuta al comma 9 dell’art. 309 cod. proc. pen. – laddove prescrive che “il Tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa” – abbia carattere eccezionale rispetto al generale principio che la motivazione del provvedimento impugnato è sostituita, nei limiti del devoluto, da quella del giudice dell’impugnazione.

In questi espressi termini, Sez. 3, n. 845 del 17/12/2015, dep. 2016, De Gol, Rv. 265646, riferita proprio all’appello cautelare (in tema di appello cautelare, anche in seguito alle modifiche apportate dalla legge n. 47 del 2015, il giudice può integrare il provvedimento impugnato, rispetto a motivazioni mancanti o non contenenti una autonoma valutazione degli indizi e delle esigenze cautelari o degli elementi forniti dalla difesa, in quanto l’art. 310 cod. proc. pen., che disciplina tale forma di impugnazione, non richiama l’art. 309, comma nono, cod. proc. pen. In motivazione, la Corte ha, altresì, precisato che quest’ultima norma ha carattere eccezionale, e quindi è insuscettibile di applicazione analogica, nella misura in cui deroga al principio generale secondo il quale la motivazione del provvedimento impugnato è, di regola, sostituita, nei limiti del devoluto, dalla pronuncia del giudice dell’impugnazione).

Il principio giuridico che il giudice dell’appello cautelare possa integrare il provvedimento impugnato senza procedere al suo annullamento, era stato, del resto, affermato anche precedentemente alla novella intervenuta con la Legge n. 47 del 2015 (cfr. Sez.1, n. 27677 del 10/06/2009, Genchi, Rv. 244718; Sez.6. n. 1108 del 03/03/2000, Galluccio, Rv. 215849).

D’altra parte, anche a voler ritenere che la sede dell’appello cautelare avverso l’ordinanza impositiva di misura interdittiva si atteggi sostanzialmente come un “riesame”, deve rilevarsi che, nel caso specifico, il provvedimento genetico era ampiamente motivato con riguardo alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e tale motivazione non può ritenersi mancante o apparente – tanto da non consentire alcuna integrazione da parte del Tribunale in sede di riesame – per il solo fatto che non avesse preso in considerazione le allegazioni provenienti da un (in allora) coindagato come il curatore del fallimento.

In questo senso, deve richiamarsi la regola giurisprudenziale secondo la quale, anche a seguito delle modifiche apportate dalla Legge 16 aprile 2015 n. 47 all’art. 309, comma 9, cod. proc. pen., il potere-dovere del Tribunale del riesame di integrare le insufficienze motivazionali del provvedimento impugnato non opera nelle ipotesi di motivazione mancante o apparente, quale quella in cui il primo giudice si sia limitato ad una sterile rassegna delle fonti di prova a carico dell’indagato, in assenza di qualsiasi riferimento contenutistico e di enucleazione degli specifici elementi reputati indizianti (nella specie la S.C. ha ritenuto immune da censure il provvedimento del giudice del riesame che aveva annullato l’ordinanza cautelare, essendosi limitato il G.I.P. a riportare nell’ordinanza la richiesta del pubblico ministero, ratificandone la valutazione con formule di stile. Sez. 2, n.46136 del 28/10/2015, Campanella. Sez. 5, n. 643 del 06/12/2017, dep. 2018, Pohl, Rv. 271925: anche a seguito delle modifiche apportate dalla legge 16 aprile 2015, n. 47 all’art. 309, comma 9, cod. proc. pen., il potere-dovere del tribunale del riesame di integrare le insufficienze motivazionali del provvedimento impugnato non opera nelle ipotesi di motivazione mancante sotto il profilo grafico, apparente o inesistente per inadeguatezza normativa, quale quella in cui il primo giudice si sia limitato ad una sterile rassegna delle fonti di prova a carico dell’indagato, in assenza di qualsiasi riferimento contenutistico e di enucleazione degli specifici elementi reputati indizianti).

1.2. Anche il secondo motivo è infondato.

1.2.1. Il ricorrente muove le sue critiche sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui all’art. 228 Legge Fallimentare senza tenere conto che la condotta illecita è stata costruita dal Tribunale – con una lettura di merito dei dati procedimentali esente da vizi logico giuridici rilevabili in questa sede – attraverso l’indicazione di una complessa attività preordinata ed ingannatrice di induzione in errore del curatore fallimentare da parte del P. e dei suoi consorti in veste di istigatori, che era passata non solo da una minuziosa informazione dei correi in ordine ai dati rilevanti della procedura fallimentare, ma anche attraverso una falsa rappresentazione della realtà costituita da una sottostima del valore delle quote della C. s.r.l. da parte del coindagato M.

Tale essendo la consistenza indiziaria – idonea ad enucleare anche gli elementi di falsità portati alla valutazione del curatore fallimentare e che ne avevano orientato, come la sottostima dei beni, le scelte ritenute dalla pubblica accusa inconsapevoli nel prosieguo delle indagini – le doglianze del ricorrente si rivelano per un verso generiche e per altro verso volte ad aggredire il merito delle valutazioni dell’ordinanza impugnata. Sotto il profilo della astratta configurabilità del reato, è a dirsi, inoltre, che il curatore del fallimento della C. s.r.l., dopo essere stato indagato per concorso nei reati ascritti ai ricorrenti, è stato ritenuto dal Tribunale (e prima ancora dal GIP), come soggetto non acquiescente alle scelte altrui ma tratto in inganno dalla maliziosa ed articolata condotta dei ricorrenti e per questo motivo privo dell’elemento soggettivo volto a sostenere la sua condotta, sul piano materiale idonea a determinare lo sviamento dell’interesse pubblico che permea la procedura fallimentare in favore dell’interesse privato dei ricorrenti e degli altri indagati beneficiari della vendita sottocosto della C. s.r.l. Così rappresentata la vicenda da parte del Tribunale, con giudizio di merito non rivedibile in questa sede, se è vero che il reato di cui all’art. 228 Legge fallimentare è un reato proprio, deve trovare applicazione il principio di diritto, di ordine generale, secondo il quale, in tema di concorso di persone nel reato, l’assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo in capo al concorrente “intraneo” nel reato proprio non esclude di per sé la responsabilità del concorrente “estraneo”, che resta punibile nei casi di autoria mediata di cui all’art. 48 cod. pen. e in tutti gli altri casi in cui la carenza dell’elemento soggettivo riguardi solo il concorrente “intraneo” e non sia quindi estensibile (Sez. 4, n. 36730 del 20/04/2018, Eccher, Rv. 273822; Sez. 5, n. 57706 del 28/09/2017, Lorenzetti, Rv. 272081; Sez. 5, n. 35884 del 20/07/2009, Lucchini, Rv. 244920).

1.2.2. Quanto alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato di cui all’art. 353-bis cod. pen. ed alla sua astratta configurabilità, ritornando a quanto sottolineato in precedenza sulla articolata attività di induzione in errore del curatore fallimentare anche attraverso una sottostima dei beni ed una organizzata manipolazione sottobanco previamente concertata attraverso il passaggio di importanti informazioni tra i correi, deve essere richiamato il principio di diritto secondo cui, nel delitto di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, previsto dall’art. 353 bis cod. pen., la condotta di collusione consiste nell’accordo clandestino diretto ad influire sul normale svolgimento delle offerte, concretamente idoneo a conseguire l’evento del reato, che si configura non soltanto in un danno immediato ed effettivo, ma anche in un danno mediato e potenziale, attesa la natura di reato di pericolo della fattispecie (Sez. 6, n. 24477 del 04/05/2016, Sanzogni, Rv. 267092, n. 29267 del 2018, Rv. 273449 ove si sottolinea come si possa prescindere dalla regolarità formale del contenuto del bando).

Nel caso in esame, l’accordo collusivo sottotraccia e resistente alla formale regolarità della procedura, è stato ampiamente rappresentato dal Tribunale attraverso i sottolineati passaggi ed aveva provocato un danno costituito dalla vendita sottocosto – secondo la stima ritenuta inquinata della quale il curatore ha tenuto conto – delle quote della società C. s.r.l. Tale ricostruzione è in linea e non deborda dall’addebito sintetizzato nell’imputazione provvisoria, che fa riferimento, per l’appunto, ad una articolata attività illecita “mediante le azioni descritte nel capo che precede” (che è quello relativo al reato di cui all’art. 228 Legge Fallimentare), “condizionando a monte l’elaborazione del programma di liquidazione”, anche (e peraltro non solo) attraverso la rappresentazione di un valore dei beni sottostimato dal perito M.

1.3. E’, del pari, infondato il terzo motivo di ricorso, inerente alle esigenze cautelari.

Il Tribunale ha evidenziato, con ampie argomentazioni tratte dal merito del giudizio, la sussistenza del pericolo di recidiva, la sua concretezza ed attualità dovute alla complessa attività illecita posta in essere dal ricorrente, denotanti, anche in ragione della professione di commercialista esercitata (e di avvocato per P.), “abilità e spregiudicatezza” strutturatesi con pervicacia nel tempo e con l’ausilio di altri coindagati, a dimostrazione di una spiccata capacità a delinquere.

Si tratta di valutazioni prive di vizi logico giuridici rilevabili in questa sede ed aderenti al resoconto della vicenda sintetizzato nell’ordinanza impugnata. Si deve rammentare, infatti, come sia ormai consolidato l’orientamento di questa Corte, cui il Collegio aderisce, secondo cui, in tema di esigenze cautelari, il pericolo di recidiva è attuale ogni qual volta sia possibile una prognosi in ordine alla ricaduta nel delitto che indichi la probabilità di devianze prossime all’epoca in cui viene applicata la misura, seppur non specificamente individuate, né tantomeno imminenti, ovvero immediate; ne consegue che il relativo giudizio non richiede la previsione di una specifica occasione per delinquere, ma una valutazione prognostica fondata su elementi concreti, desunti dall’analisi della personalità dell’indagato (valutabile anche attraverso le modalità del fatto per cui si procede), sia dall’esame delle concrete condizioni di vita di quest’ultimo (Sez. 2, n. 47891 del 07/09/2016, Vicini, Rv. 268366; Sez. 2, n. 53645 del 08/09/2016, Lucà, Rv. 278977; Sez. 2, n. 11511 del 14/12/2016, dep. 2017, Verga, RV. 269684; Sez. 5, n. 33004 del 03/05/2017, Cimieri, Rv. 271216).

2. Anche il ricorso di P. L. M. è infondato.

2.1. In ordine ai primi tre motivi, possono essere interamente richiamate le argomentazioni svolte a proposito del ricorrente P. A., essendosi tenuto conto, nella esposizione appena svolta con riguardo a quest’ultimo, anche di qualche spunto difensivo tratto dal ricorso P., per lo più contenente deduzioni sovrapponibili a quelle del ricorso P.

2.2. In ordine al quarto motivo di ricorso, è vero che il reato di autoriciclaggio di cui all’art. 648-ter.1. cod. pen. non è contemplato dall’art. 512-bis cod. pen. tra quelli la cui commissione deve essere agevolata dalla condotta di trasferimento fraudolento di valori, reato contestato al ricorrente al capo 3 della imputazione provvisoria. E’ anche vero, però, che l’esame complessivo della vicenda e delle contestazioni accusatorie, dà conto del fatto che la condotta del P., in combutta con M. A. ed entrambi quali dominus occulti di tutta l’orchestrazione delittuosa, è stata ritenuta come finalizzata al trasferimento delle quote della C. s.r.l. a soggetto terzo attraverso anche una illecita intromissione di M. R., figlio di A.

A M. R. è stato contestato il reato di cui all’art. 648-ter cod. pen. in quanto non ritenuto soggetto partecipe dei reati presupposto. Nel che, l’astratta configurabilità del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al ricorrente P. e ad altri coindagati, consistente anche nell’aver agevolato, per la quota di interesse, il reimpiego (o, almeno, la ricettazione) dei beni di provenienza illecita da parte di M. R.. D’altra parte, la norma di cui all’art. 512-bis cod. pen. non prevede che il soggetto artefice della condotta ivi descritta di fittizia intestazione di beni debba essere anche il soggetto che compie personalmente la ricettazione, il riciclaggio od il reimpiego di beni di provenienza illecita, bastando che la commissione di tali reati, anche da parte di soggetto diverso, sia rimasta agevolata dalla condotta di chi compie il delitto ex art. 512-bis cod. pen., così come è avvenuto nel caso in esame.

2.3. E’ infondato anche il quinto motivo di ricorso.

Posta la sussistenza, per le ragioni esplicitate anche a proposito del ricorrente P., dei reati contestati ai capi 1) 2) e 3) della imputazione provvisoria, resta superata la prima deduzione difensiva volta a ritenere impossibile la contestazione del reato di autoriciclaggio di cui al capo 4) per assenza dei reati presupposto. Inoltre, quanto alla configurabilità del reato di autoriciclaggio si osserva quanto segue. La giurisprudenza di questa Corte, cui occorre dare continuità, ha affermato che, in tema di autoriciclaggio, è configurabile una condotta dissimulatoria allorché, successivamente alla consumazione del delitto presupposto, il reinvestimento del profitto illecito in attività economiche, finanziarie o speculative sia attuato attraverso la sua intestazione ad un terzo, persona fisica ovvero società di persone o capitali, poiché, mutando la titolarità giuridica del profitto illecito, la sua apprensione non è più immediata e richiede la ricerca ed individuazione del successivo trasferimento (Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, Rv. 279407).

Nel caso in esame, si è trattato di un “trasferimento” di beni, una delle attività espressamente indicate dalla norma incriminatrice. In particolare, di un trasferimento di quote sociali da una s.r.l. ad altra s.r.l. (dalla C. s.r.l. alla MA s.r.l.). Per ciò stesso, vertendosi in ambito economico-imprenditoriale, deve escludersi che il trasferimento non riguardi “attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”, secondo quanto richiesto dalla norma incriminatrice, ovvero che esso trasferimento inerisca ad una “mera utilizzazione o godimento personale”, che scriminerebbe la condotta ex art. 648-ter.1, comma 4, cod. pen.. Tale trasferimento ha attuato, obbiettivamente, un mutamento della titolarità del profitto del reato riveniente dai reati presupposto (il valore delle quote della C. s.r.l. ottenuto attraverso l’attività fraudolenta passata da una loro sottostima).

Il mutamento della titolarità del profitto è avvenuto attraverso una operazione tracciabile, ma tale requisito della transazione non esclude, in astratto, la sussistenza del reato, che deve affermarsi anche soltanto sulla base di una condotta che abbia creato intralcio non definitivo rispetto alla identificazione della provenienza delittuosa del bene.

In questo senso, Sez. 2, n. 36121 del 24/05/2019, Draebing, Rv. 276974, secondo cui, ai fini dell’integrazione del reato di autoriciclaggio non occorre che l’agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza.

In tema di autoriciclaggio, l’intervenuta tracciabilità, per effetto delle attività di indagine poste in essere dopo la consumazione del reato, delle operazioni di trasferimento delle utilità provenienti dal delitto presupposto non esclude l’idoneità “ex ante” della condotta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa (Sez. 2, n. 16908 del 05/03/2019, Ventola, Rv. 276419).

Occorre, tuttavia, tenere in conto che l’ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa del bene deve essere “concreto”, così come prescrive la norma incriminatrice. Ed il necessario accertamento in ordine alla concreta idoneità della condotta dell’agente ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni non può che essere rimessa al giudice del merito, dipendendo dalla valutazione specifica della dinamica del caso concreto.

Per quel che attiene alla vicenda in esame, il Tribunale ha ampiamente messo a fuoco la circostanza che gli indagati P. L. M. e M. A. dovevano essere considerati come i reali dominus della vicenda illecita, avendo entrambi occultato le loro cointeressenze servendosi di soggetti prestanome, scelti nei rispettivi ambiti familiari, attraverso i quali avevano, dapprima, trasferito a terzo soggetto (M. S.) il profitto illecito dei reati presupposto, costituito, come si è già detto, dalle quote della C. s.r.l., ottenendo un controvalore di un milione e mezzo di euro a fronte di un acquisto per un valore capziosamente sottostimato di euro 237.000.

L’attività di schermatura delle persone di P. L. M. e M. A., posta in essere attraverso la commissione del reato di cui all’art. 512-bis cod.pen. – completato con i trasferimenti di parte delle quote da M. S. al di lui fratello R. ed a V. S. – porta a ritenere che l’intera operazione, che non è corretto segmentare in punto di fatto, abbia comportato un concreto ostacolo alla identificazione dei beni di provenienza illecita, anche solo per il fatto di aver determinato, in un secondo momento costituito dalla successiva vendita alla Ma s.r.l., una differenziazione tra titolari formali e titolari sostanziali della transazione, solo oggettivamente riferibile a soggetti diversi dal P. e da M. A. ma a costoro nella sostanza riconducibile, i quali, ex ante, avevano avuto un ruolo tanto primario quanto occulto nell’ottenimento illecito dei beni poi oggetto del “trasferimento” di cui si discute, il quale trasferimento aveva allontanato da loro il profitto illecito immesso nel circuito economico sano rendendo più difficile, a posteriori, la ricostruzione della intera operazione e dei suoi reali artefici.

Rimane ininfluente ed, anzi, ricompresa nella finalità della condotta illecita – così inquadrata ex art. 648-ter.1. cod. pen. in ragione di quanto detto – che il ricorrente ed i correi mirassero a “lucrare legittimamente la plusvalenza riguardo al bene acquisito”, così come sottolineato dalla difesa.

Inoltre, alla sussistenza del reato di autoriciclaggio, nella particolare forma del “trasferimento” di beni di illecita provenienza individuata nella specie, non è di ostacolo la circostanza, sottolineata dal ricorrente, che i beni fossero stati venduti ad un soggetto terzo, estraneo agli illeciti contestati (l’imprenditore A. G., cui era riferibile la Ma s.r.l.).

Nella specifica ipotesi del “trasferimento” di beni provenienti da delitto, infatti, a meno di non voler azzerare la portata della norma, non è richiesto che il soggetto mantenga una signoria sul bene anche dopo la transazione, così come avviene nei casi di “impiego”; quel che importa, nel caso del “trasferimento”, è che si sia in presenza degli altri requisiti richiesti dall’art. 648-ter.1.cod. pen., costituiti, sul piano oggettivo, dalla immissione nel circuito economico sano di beni di provenienza illecita ponendo concreto ostacolo alla loro identificazione.

2.4. Il sesto motivo sulle esigenze cautelari, sovrapponibile a quello dedotto nell’interesse di P. A., è infondato per le stesse ragioni espresse a proposito di quest’ultimo ricorrente, alle quali basterà rinviare.

Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deliberato in Roma, udienza in camera di consiglio del 10.11.2021.

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