CASSAZIONE IVA

Attività cinotecnica: la vendita dei cani è sempre soggetta all’aliquota ordinaria IVA

Tributi – Accertamento – Attività cinotecnica – Esclusione dal D.M. 20/4/2006 – Qualificazione di attività commerciale – IVA – Cessione di cani – Agevolazioni – Soggetta a regime ordinario – Applicazione aliquota Iva ordinaria – L. n. 349/1993 – Società di fatto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7374 del 17 marzo 2020, è intervenuta per la definizione delle agevolazioni previste per l’impresa agricola, per ricordare che prima dell’entrata in vigore del D.M. 20/4/2006 l’attività di allevamento dei cani era tassata come attività commerciale in base alla differenza tra costi e ricavi di competenza, mentre dall’anno di imposta 2005 tale attività poteva essere ricompresa, anche ai fini tributari, tra quelle produttive di redditi agrari. Di conseguenza era fatta salva, per l’allevatore, la scelta del regime applicabile alla quantità di reddito eccedente il limite di cui all’art. 32 citato. Per quanto poi attiene alla cessione di cani, con riferimento all’IVA, essa è sempre soggetta al regime ordinario, con applicazione dell’aliquota di riferimento.

Rammentiamo che l’attività relativa all’allevamento di cani è regolata dalla legge n. 349 del 23 agosto 1993 che, dopo aver precisato all’articolo 1 che “per attività cinotecnica si intende l’attività volta all’allevamento, alla selezione e all’addestramento delle razze canine”, ha stabilito, all’articolo 2, che tale attività è considerata a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto, per cui le persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’attività cinotecnica sono imprenditori agricoli, ai sensi dell’ art. 2135 del Codice civile. In ottica fiscale l’articolo 32, comma 2, lett. b) del TUIR (Testo unico imposte sui redditi) assoggetta a tassazione nell’ambito del reddito agrario anche l’allevamento di animali esercitato dalle persone fisiche, dalle società semplici ed enti non commerciali, a patto che sia rispettato un determinato rapporto tra superficie agricola coltivata e numero degli animali allevati, in grado di assicurare il soddisfacimento teorico di almeno 1⁄4 del mangime necessario all’allevamento.

Il numero di animali allevati che consente di rientrare nel regime del reddito agrario è stabilito per ciascuna specie animale da un decreto del ministro dell’Economia e delle Finanze emanato di concerto con il ministro delle Politiche agricole e forestali, in considerazione della potenzialità produttiva dei terreni e delle unità foraggere occorrenti per ciascuna specie allevata.

Con il DM 20/04/2006, emanato ai sensi dell’art. 56, comma 5 del TUIR, anche i cani sono stati inclusi tra le specie animali per cui si rende applicabile la determinazione del reddito su base catastale, e nel caso in cui siano allevati in numero eccedente rispetto alla potenzialità del terreno coltivato si rende applicabile un metodo forfetario di determinazione del reddito, in aggiunta a quello agrario.

Con riferimento all’IVA, la cessione di cani è sempre soggetta al regime ordinario con applicazione dell’aliquota ordinaria del 22%, non essendo tali animali compresi tra i prodotti agricoli elencati nella tabella A, parte prima, allegata al Dpr n. 633/1972.
In buona sostanza, nell’allevamento e vendita di cani l’oggetto dell’operazione consiste nella cessione del cane, mentre il soggetto che la effettua è l’allevatore di cani il quale, ai sensi dall’art. 4 del Dpr 633/72 esercita un’attività d’impresa, mentre la neutralità dell’IVA viene assicurata dalla detrazione dell’imposta pagata sugli acquisti (art. 19) e dalla rivalsa sul cessionario o committente per le operazioni attive effettuate (art. 18).

Tanto premesso, e tornando al caso di specie, un avviso di accertamento per gli anni d’imposta 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005 raggiungeva dei contribuenti componenti lo stesso nucleo familiare, dei quali, però, solo i genitori risultavano titolari di un allevamento di cani.

Secondo quanto prospettato dall’ufficio fiscale ricorrevano invece indizi a carico anche delle due figlie, peraltro proprietarie di alcuni cani, per affermare la sussistenza di una società di fatto. Dopo un primo diniego da parte dei giudici tributari di primo grado, la CTR accoglieva il ricorso dei contribuenti riformando la sentenza di primo grado, affermando che stante il rapporto familiare non assumeva alcun significato che le due figlie vivessero presso l’azienda della madre o dessero un aiuto nella gestione dell’allevamento dei genitori. Inoltre, la CTR riteneva che l’avviso di accertamento illegittimamente qualificava l’attività svolta come commerciale e non come agricola, ai sensi della legge 23 agosto 1993, n. 349 che aveva introdotto, per l’allevamento dei cani, un’agevolazione che prescindeva dalla necessità dell’alimentazione degli animali con i prodotti del fondo.

L’Amministrazione Finanziaria proponeva allora ricorso per Cassazione lamentando essenzialmente che sussistevano tutti gli elementi necessari per configurare una società di fatto, comprendendo tutti e quattro i componenti della famiglia, e che tali elementi erano sintomatici dell’esistenza di un vincolo finalistico orientato alla produzione di un utile.

La Suprema Corte ha condiviso questa tesi prospettata dall’Avvocatura erariale, affermando inoltre che: “… L’attività cinotecnica è considerata a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto. I soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’attività cinotecnica di cui al comma 1 sono imprenditori agricoli, ai sensi dell’art. 2135 del codice civile. Non sono comunque imprenditori agricoli gli allevatori che producono nell’arco di un anno un numero di cani inferiore a quello determinato, per tipo o per razze, con decreto del Ministro dell’agricoltura e delle foreste da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”; secondo la ricorrente tale norma, di carattere generale ed operante sul piano civilistico ed amministrativo, non è idonea a derogare le norme speciali di carattere fiscale, dovendosi invece ritenere che l’attività cinotecnica sia stata ricompresa nelle disposizioni sul reddito agricolo solo a seguito del Decreto Interministeriale 20/04/2006, emanato in attuazione dell’art. 56, comma quinto, T.U.I.R., che stabilisce il criterio forfettario di determinazione del reddito per le attività di allevamento di animali che eccedono il limite stabilito dall’art. 32 T.u.i.r (ex art. 29); effettivamente, sul piano fiscale, l’articolo 32, comma 2, lett. b) del Tuir (Testo unico imposte sui redditi) assoggetta a tassazione nell’ambito del reddito agrario anche l’allevamento di animali esercitato dalle persone fisiche, dalle società semplici ed enti non commerciali, a patto che sia rispettato un determinato rapporto tra superficie agricola coltivata e numero degli animali allevati in grado da assicurare il soddisfacimento teorico di almeno un quarto del mangime necessario all’allevamento; pertanto anche l’allevamento dei cani è soggetto al limite individuato dal suddetto articolo, ai fini della determinazione del reddito agricolo tassabile; il numero di animali allevati che consente di rientrare nel regime del reddito agrario è stabilito per ciascuna specie animale da un decreto del ministro dell’Economia e delle Finanze, emanato di concerto con il ministro delle Politiche agricole e forestali, in considerazione della potenzialità produttiva dei terreni e delle unità foraggere occorrenti per ciascuna specie allevata; con il DM 20/04/2006, emanato ai sensi dell’art. 56, comma 5 del Tuir, anche i cani, per la prima

volta, sono stati inclusi tra le specie animali, per cui si rende applicabile la determinazione del reddito su base catastale, con l’indicazione, non solo dei coefficienti per la determinazione forfettaria del reddito d’impresa eccedente quello agrario, ma anche della misura del reddito agrario prodotta dagli allevamenti canini, avuto riguardo alla tipologia del terreno ed al numero di capi su esso insistenti; deve, quindi, concludersi nel senso che, prima dell’entrata in vigore del D.M. 20/4/2006, l’attività di allevamento dei cani continuava ad essere tassata come attività commerciale, in base alla differenza tra costi e ricavi di competenza, mentre dall’anno di imposta 2005 (cioè dall’entrata in vigore del suddetto decreto ministeriale, emanato in attuazione dell’art. 56, comma quinto, T.U.I.R.), tale attività poteva essere ricompresa, anche ai fini tributari, tra quelle produttive di redditi agrari, con conseguente possibilità di scelta, per l’allevatore, del regime applicabile alla quantità di reddito eccedente il limite di cui all’art. 32 citato; infine, con riferimento all’Iva, la cessione di cani è sempre soggetta al regime ordinario, con applicazione dell’aliquota ordinaria, non essendo tali animali compresi tra i prodotti agricoli elencati nella tabella A, parte prima, allegata al d.P.R. n. 633/1972 (ex art. 34 D.P.R. citato); in conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla C.T.R. della Toscana, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 17 marzo 2020, n. 7374

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Sul ricorso iscritto al n. 14263/2012 R.G proposto da:
Agenzia delle entrate, in persona del direttore p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, in via dei Portoghesi, n. 12;
-ricorrente-
CONTRO
G. L., in proprio e quale titolare dell’azienda “Allevamento S., T. B. di L. G.”, L. T., P. T., B. T., rappresentati e difesi dagli Avv.ti Pasquale Russo e Guglielmo Fransoni, ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo in Roma, in viale Crescenzio n. 2
-controricorrenti-
avverso la sentenza n. 24/1/12 della Commissione tributaria regionale della Toscana, depositata in data 1 febbraio 2012 e ritualmente notificata.
Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 18 dicembre 2019 dal consigliere Andreina Giudicepietro;
Rilevato che
L’Agenzia delle Entrate ricorre con tre motivi per l’annullamento della sentenza n. 24/1/2012 della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, depositata l’1/02/2012 e successivamente notificata, che, in controversia relativa all’impugnazione dell’avviso di accertamento, emesso dall’Amministrazione finanziaria nei confronti dei controricorrenti indicati in epigrafe per gli anni d’imposta 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005, accoglieva il ricorso, riformando la sentenza di primo grado della Commissione tributaria provinciale di Arezzo;
con la sentenza impugnata la C.T.R. riteneva che, mentre esistevano sufficienti elementi indiziari per affermare la sussistenza di una società di fatto tra i coniugi G.L. e B.T., che gestivano congiuntamente l’allevamento di cani, intestati ai fini sportivi a B.T., non sussistevano analoghi indizi a carico della due figlie, che esercitavano autonoma attività lavorativa;
secondo i Giudici di appello, stante il rapporto familiare, non assumeva alcun significato che le due figlie vivessero presso l’azienda della madre o dessero un aiuto nella gestione dell’allevamento dei genitori; inoltre, la C.T.R. riteneva che l’avviso di accertamento illegittimamente qualificava l’attività svolta come commerciale e non come agricola, ai sensi della legge 23 agosto 1993, n.349, che aveva introdotto, per l’allevamento dei cani, un’agevolazione che prescindeva dalla necessità dell’alimentazione degli animali con i prodotti del fondo;
a seguito del ricorso, i contribuenti resistono con controricorso; il ricorso è stato fissato per la Camera di Consiglio del 18 dicembre 2019, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal d.l. 31.08.2016, n.168, conv. in legge 25 ottobre 2016, n.197; Considerato che
1.1. con il primo motivo di ricorso la ricorrente censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 2247 e ss. e dell’art. 2297 cod.civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3), cod.proc.civ.;
secondo la ricorrente, la C.T.R. ha erroneamente affermato che non ricorrono indizi a carico delle due figlie per affermare la sussistenza di una società di fatto, ritenendo irrilevante che le stesse vivano presso l’azienda della madre o diano aiuto nella gestione dell’allevamento del genitori;
la ricorrente sostiene che nel caso di specie/sussistano tutti gli elementi necessari, individuati analiticamente nel ricorso, affinché si configuri una società di fatto, non solo tra i coniugi, ma con riferimento a tutti e quattro i componenti della famiglia, e che tali elementi siano sintomatici dell’esistenza di un vincolo finalistico, orientato alla produzione di un utile;
con il terzo motivo di ricorso, da esaminare unitamente al primo perché connesso, l’Agenzia delle Entrate censura l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5), cod.proc.civ.;
secondo l’Agenzia delle entrate, la decisione è censurabile nella parte in cui ha ritenuto che nella fattispecie non ricorressero i presupposti per la configurazione di una società di fatto anche con riferimento alle figlie, perché non ha tenuto conto di tutti gli elementi indiziari risultanti dal P.V.C. e riportati nell’avviso di accertamento, con particolare riferimento alla circostanza decisiva che le due figlie, non solo aiutavano i

genitori nell’attività e risiedevano presso azienda, ma risultavano, insieme al padre, proprietarie di parte dei cani;
1.2. i motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono fondati e vanno accolti;
1.3. invero, la C.T.R. non menziona la circostanza, riportata in ricorso dall’Agenzia delle entrate come risultante dal P.V.C. posto a base dell’accertamento, secondo cui le figlie erano proprietarie di parte dei cani presenti nell’allevamento;

la valutazione di tale circostanza, unitamente alle altre di cui la sentenza impugnata tiene conto, appare avere rilievo decisivo ai fini della configurabilità della società di fatto con le figlie, che la sentenza di appello ha escluso, con un esame solo parziale degli elementi dedotti dall’Agenzia delle entrate;
il giudice di appello, infatti, nell’escludere la partecipazione delle figlie alla società di fatto doveva chiarire in base a quali elementi ha ritenuto che la loro posizione si differenziasse rispetto ai genitori, non potendosi escludere in capo ad esse la qualità di socie per il solo fatto che svolgessero un’altra attività lavorativa;

in materia tributaria, perché un’attività imprenditoriale possa qualificarsi come societaria sono necessari – oltre al requisito dell’apparenza del vincolo societario nei confronti di terzi, quale indice rivelatore della reale esistenza della società – gli elementi richiesti dall’art. 2247 cod. civ. per la sussistenza di una società di fatto, e cioè l’intenzionale esercizio in comune fra i soci di un’attività commerciale, anche occasionale, a scopo di lucro ed il conferimento a tal fine dei necessari beni e servizi” (Sez. 5, Sentenza n. 27088 del 13/11/2008; vedi anche Sez. 5, Sentenza n. 15538 del 06/11/2002);

2.1. con il secondo motivo di ricorso la ricorrente censura la violazione la falsa applicazione degli artt. 1 e ss. della L. 23 agosto 1993 n. 349, degli artt. 32, comma secondo e 56 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3), cod.proc.civ.;
secondo l’Agenzia delle Entrate, la C.T.R. ha erroneamente ritenuto che l’attività svolta rientrava in quelle agricole, ex L. n. 349/1993, estendendo la portata della legge menzionata ai fini tributari, in particolare dell’imposizione diretta e dell’IVA;

nel settore tributario, infatti, la nozione e la disciplina dell’imprenditore agricolo sarebbe contenuta in un articolato normativo avente natura speciale e non potrebbe essere derogato da una legge a carattere generale, se questa non lo prevede espressamente;
norma fondamentale, secondo la ricorrente, sarebbe l’art. 32, comma secondo, lettera b) del T.U.I.R., che stabilisce che sono considerate attività agricole quelle di allevamento di animali con margini ottenibili per almeno un quarto dal terreno;

ad essa si aggiunge l’art. 56, comma quinto, T.U.I.R. che stabilisce il criterio forfettario di determinazione del reddito per le attività di allevamento di animali che eccedono il limite stabilito dal citato art. 32;
nel caso di specie, tuttavia, come rilevato dalla ricorrente, l’art. 56 sopra menzionato non risulta applicabile fino al periodo di imposta 2004, in quanto soltanto con il Decreto Interministeriale 20/04/2006 l’attività di allevamento di cani è stata inquadrata tra le attività di allevamento in ambito agricolo, includendo i cani nelle categorie di animali riportate nella specifica tabella allegata al decreto;

inoltre, poiché la signora L. ha compilato il quadro RF indistintamente, dal 2001 al 2005, si dovrebbe dedurre che la stessa abbia scelto comunque di essere tassata con le regole ordinarie del reddito d’impresa anche per tale ultima annualità;
2.2. il motivo è fondato e va accolto;

2.3. l’art. 2 della legge n. 349/1993, ha previsto:
“1. L’attività cinotecnica è considerata a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto.
2. I soggetti, persone fisiche o giuridiche, singoli o associati, che esercitano l’attività cinotecnica di cui al comma 1 sono imprenditori agricoli, ai sensi dell’art. 2135 del codice civile.
3. Non sono comunque imprenditori agricoli gli allevatori che producono nell’arco di un anno un numero di cani inferiore a quello determinato, per tipo o per razze, con decreto del Ministro dell’agricoltura e delle foreste da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”;
secondo la ricorrente tale norma, di carattere generale ed operante sul piano civilistico ed amministrativo, non è idonea a derogare le norme speciali di carattere fiscale, dovendosi invece ritenere che l’attività cinotecnica sia stata ricompresa nelle disposizioni sul reddito agricolo solo a seguito del Decreto Interministeriale 20/04/2006, emanato in attuazione dell’art. 56, comma quinto, T.U.I.R., che stabilisce il criterio forfettario di determinazione del reddito per le attività di allevamento di animali che eccedono il limite stabilito dall’art. 32 T.u.i.r (ex art. 29);

effettivamente, sul piano fiscale, l’articolo 32, comma 2, lett. b) del Tuir (Testo unico imposte sui redditi) assoggetta a tassazione nell’ambito del reddito agrario anche l’allevamento di animali esercitato dalle persone fisiche, dalle società semplici ed enti non commerciali, a patto che sia rispettato un determinato rapporto tra superficie agricola coltivata e numero degli animali allevati in grado da assicurare il soddisfacimento teorico di almeno un quarto del mangime necessario all’allevamento;

pertanto anche l’allevamento dei cani è soggetto al limite individuato dal suddetto articolo, ai fini della determinazione del reddito agricolo tassabile;
il numero di animali allevati che consente di rientrare nel regime del reddito agrario è stabilito per ciascuna specie animale da un decreto del ministro dell’Economia e delle Finanze, emanato di concerto con il ministro delle Politiche agricole e forestali, in considerazione della potenzialità produttiva dei terreni e delle unità foraggere occorrenti per ciascuna specie allevata;

con il DM 20/04/2006, emanato ai sensi dell’art. 56, comma 5 del Tuir, anche i cani, per la prima volta, sono stati inclusi tra le specie animali, per cui si rende applicabile la determinazione del reddito su base catastale, con l’indicazione, non solo dei coefficienti per la determinazione forfettaria del reddito d’impresa eccedente quello agrario, ma anche della misura del reddito agrario prodotta dagli allevamenti canini, avuto riguardo alla tipologia del terreno ed al numero di capi su esso insistenti;

deve, quindi, concludersi nel senso che, prima dell’entrata in vigore del D.M. 20/4/2006, l’attività di allevamento dei cani continuava ad essere tassata come attività commerciale, in base alla differenza tra costi e ricavi di competenza, mentre dall’anno di imposta 2005 (cioè dall’entrata in vigore del suddetto decreto ministeriale, emanato in attuazione dell’art. 56, comma quinto, T.U.I.R.), tale attività poteva essere ricompresa, anche ai fini tributari, tra quelle produttive di redditi agrari, con conseguente possibilità di scelta, per l’allevatore, del regime applicabile alla quantità di reddito eccedente il limite di cui all’art. 32 citato; infine, con riferimento all’Iva, la cessione di cani è sempre soggetta al regime ordinario, con applicazione dell’aliquota ordinaria, non essendo tali animali compresi tra i prodotti agricoli elencati nella tabella A, parte prima, allegata al d.P.R. n. 633/1972 (ex art. 34 D.P.R. citato);

in conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla C.t.r. della Toscana, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità;

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.t.r. della Toscana, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

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