Applicazione della “tenuità del fatto” in ambito penale tributario
Reati tributari – IVA – IRPEF – Accertamento tributario – Contenzioso – Omessa presentazione delle dichiarazioni – Dolo specifico di evasione – Art. 5 del d.lgs. n. 74/2000 – Costi aziendali non contabilizzati – Superamento della soglia di punibilità – Elementi passivi del reddito – Documentazione – Tenuità del fatto
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34661 del 20 settembre 2021, operando in merito al reato di omessa dichiarazione IVA ha decretato che per la quantificazione dell’imposta evasa non si devono considerare le fatture passive non contabilizzate, che hanno invece rilevanza ai fini delle imposte sui redditi, sottolineando che nell’ambito della responsabilità penale per omessa dichiarazione IVA la determinazione della soglia di punibilità non deve tener conto delle fatture passive sopra indicate.
In proposito la Corte ha ricordato uno dei punti saldi della giurisprudenza in materia e, cioè, che ai fini della configurabilità dei reati in materia di IVA la determinazione della base imponibile e della relativa imposta evasa – dati rilevanti ai fini dell’accertamento del superamento della soglia di punibilità – deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l’eventuale sussistenza di costi non documentati. Di questi, tuttavia, è possibile tener conto se dimostrati in relazione alle ipotesi delittuose aventi a oggetto anche l’evasione delleimposte dirette.
Viene anche rammentato dalla Suprema Corte che il potenziale accertamento di ulteriori elementi reddituali può essere realizzato tenendo conto di tutti gli elementi – costi ricavi, proventi e oneri– che concorrono alla loro formazione.
Nello specifico, proseguono gli Ermellini, la determinazione dell’IVAevasa deve essere effettuata attraverso la contrapposizione tra l’imposta risultante dalle fatture emesse e quella detraibile sulla base delle fatture ricevute, senza che tale calcolo possa ritenersi ineseguibile sulla sola base del difetto di allegazione di eventuali fatture passive incombente sull’imputato, dovendo tenersi conto anche degli altri elementi probatori certi,acquisiti agli atti.
Nel determinare l’imposta evasa vanno quindi considerati anche i costi aziendali non contabilizzati che vengano documentati dai fornitori dell’impresa.
Al riguardo ricordiamo che la Suprema Corte si era già espressa in merito con alcune pronunce, fra le quali annotiamo la n. 53980/2018, nella quale emergeva la massima che in tema di reati tributari la gravità del fatto contestato è già stata valutata in astratto dal legislatore attraverso la predisposizione di specifiche soglie di punibilità; il fatto può essere ritenuto concretamente tenue, e dunque meritevole dell’applicazione della causa di non punibilità, solo quando l’ammontare dell’imposta evasa sia vicinissimo alla soglia di non punibilità predeterminata dal legislatore.
In buona sostanza la Corte di Cassazione ha confermato che, ai fini della sussistenza del reato di omessa presentazione della dichiarazione di cui all’art. 5, del D.lgs. n. 74/2000, è necessario tenere conto dei costi. In pratica, l’imposta evasa passa dall’astratto, derivante dalla violazione constatata, al concreto (effettiva) dopo il computo delle perdite/costi, così che potrebbe scendere al di sotto delle soglie penali.
Quindi i Supremi Giudici hanno tenuto conto anche di quanto disposto dal D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, che all’articolo 131-bis, titolato come “Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”, testualmente recita: “… Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.
Come è noto, il dolo specifico di evasione è integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine; l’omessa dichiarazione dei redditi è uno di quei reati la cui ratio è quella di perseguire comportamenti caratterizzati da effettiva e rilevante offensività per gli interessi dell’Erario.
Per tale ragione la quantificazione dell’imposta evasa assume un ruolo determinante nell’ambito del reato, che si configura solo quando l’omissione superi una certa soglia. Resta allora possibile ritornare al principio che si ricava dalla lettura della sentenza della Corte di Cassazione n. 16865/2021, dalla quale si evince cheil giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale, con la conseguenza che occorre tener conto dei costi non contabilizzati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza.
Del resto è possibile tracciare una linea interpretativa che guarda con attenzione anche a quanto affermato dagli stessi Ermellini con la sentenza n. 31343/2019, nella quale si sottolineava che il reato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi è consumato solo se ci sono elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato abbia consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione per evadere l’imposta in misura superiore alla soglia penalmente rilevante.
Non è infatti sufficiente la mera violazione dell’obbligo dichiarativo o la colpa dell’imprenditore o del professionista inadempiente.
Al riguardo si può anche citare una recente pronunzia della Corte d’Appello di Campobasso, la n.242/2021divenuta definitiva, che reca un ulteriore interessante contributo alla vexata quaestio del superamento delle soglie di punibilità in relazione al reato di omessa dichiarazione. I giudici, muovendosi in conformità degli indirizzi di legittimità, hanno ricordato preliminarmente che il giudice penale ha l’esclusivo compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi, e anche a entrare in contraddizione, con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Cass. n. 20678/2012; Cass. n. 24811/2011; Cass. n. 21213/2008; Cass. n. 4516/2016; Cass. n. 15899/2016; Cass. n. 53907/2016; Cass. n. 19191/2019).
Facendo buon governo di detti principi, la Corte di Appello di Campobasso, accogliendo il gravame dell’imputato, ha ritenuto di assolverlo “quantomeno ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p.”, per difetto dell’elemento soggettivo, in quanto l’appellante ha dimostrato non soltanto che rimaneva incerto il superamento della soglia – elemento costitutivo del reato, secondo giurisprudenza ormai pacifica (Cass. n. 2342/2018; Cass. n. 7000/2017) – ma anche che l’irregolare tenuta delle scritture contabili, e in particolare la mancata registrazione di fatture passive, era dipesa dalle gravi e documentate condizioni di profonda depressione e di incoscienza delle proprie inadempienze in cui versava l’imputato. In questi termini, la pronuncia della Corte di Appello di Campobasso si pone nel solco delle correnti interpretative che ritengono che la prova del dolo specifico di evasione (come tale identificato già nella sentenza Sez. Un. Pen. Cassazione, n. 35, del 13 dicembre 2000), nel delitto di omessa dichiarazione, possa essere “desunta dall’entità del superamento della soglia unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta (Cass. n. 18936 del 2016) e che debbano ricorrere elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato abbia consapevolmente preordinatol’omessa dichiarazione all’evasione per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale (Cass. n. 37856 del 2015; Cass. sez. III, n. 31343, del 17.7.2019)”.
Tanto premesso e tornando al caso oggi in discussione, il titolare di una ditta individuale era accusato di omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali relative alle imposte dirette e ad IVA, in tal modo evadendo tale ultima imposta in misura superiore alla soglia di punibilità. Nel giudizio celebrato con rito abbreviato il Gup del Tribunale di Matera aveva condannato il contribuente avendolo riconosciuto responsabile di due ipotesi del reato di cui all’art. 5 del D.lgs. n. 74 del 2000, per avere omesso, in qualità di titolare di ditta individuale, la presentazione delle dichiarazioni fiscali relative alle imposte dirette e all’IVA per gli anni 2011 e 2012, in tal modo evadendo, quanto meno l’IVA, in misura superiore alla soglia di punibilità. La Corte d’Appello poi intervenuta, nel dichiarare inammissibile l’impugnazione presentata dall’imputato, aveva osservato che i costi asseritamente affrontati dal contribuente per la produzione del reddito, non essendo stati contabilizzati, non erano stati conteggiati ai fini del calcolo del reddito imponibile. L’interessato aveva promosso ricorso in Cassazione criticando la motivazione in oggetto in quanto non erano stati conteggiati gli elementi passivi di reddito, sebbene parte di essi fossero stati documentati dagli stessi fornitori dell’impresa.
La Suprema Corte, analizzando i fatti, ha convenuto sulle ragioni esposte dalla parte contribuente, affermando che “… Il ricorso, risultato fondato nei termini di cui in motivazione, deve essere, pertanto, accolto. Osserva, infatti, il Collegio che è fondata la doglianza avente ad oggetto la affermazione riguardante la asserita non valorizzabilità, ai fini della determinazione del reddito imponibile, dei costi affrontati dal ricorrente per la produzione di questo. Più volte, infatti, questa Corte ha rilevato che, ai fini della configurabilità dei reati in materia di IVA, la determinazione della base imponibile e della relativa imposta evasa, dati questi significativi ai fini dell’accertamento del superamento della soglia di punibilità, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l’eventuale sussistenza di costi non documentati, dei quali è, tuttavia, possibile tenere conto, laddove dimostrati, in relazione alle ipotesi delittuose aventi ad oggetto, come peraltro avviene nel presente caso, anche l’evasione delle imposte dirette (Corte di cassazione, Sezione III penale, 3 dicembre 2018, n. 53980).
E’, peraltro, stato ulteriormente precisato che l’eventuale accertamento di ulteriori elementi reddituali, rilevante ai fini della determinazione delle imposte, fra esse comprese anche L’IVA, non può essere eseguito se non tenendo conto di tutti gli elementi – costi, ricavi, proventi ed oneri – che concorrono alla loro formazione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 16 maggio 2018, n. 21639) e che la determinazione della imposta sul valore aggiunto evasa deve essere eseguita attraverso la “contrapposizione tra L’IVA risultante dalla fatture emesse e L’IVA detraibile sulla base delle fatture ricevute”, senza che tale computo possa ritenersi ineseguibile sulla sola base del “difetto di allegazione di eventuali fatture passive incombente sull’imputato”, dovendo tenersi conto, pertanto, in un’ottica volta a privilegiare il dato fattuale rispetto a quello meramente formale, anche degli altri elementi probatori certi acquisiti agli atti (Corte di cassazione, Sezione III penale, 19 luglio 2017, n. 35579). Nel caso in esame la Corte di appello, operando la verifica in ordine alla correttezza della determinazione del reddito imponibile, ha osservato, facendo cattivo governo dei principi dianzi esposti, che la mera non contabilizzazione dei costi aziendali da parte del L. era di per sé ostativa alla loro valorizzazione (rendendo in tal modo inammissibile la impugnazione presentata da questo), a prescindere dal fatto, dedotto dal ricorrente e non esaminato in sede di merito, che essi sarebbero comunque emersi dalla documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza presso i soggetti che con l’imputato avevano avuto rapporti commerciali. Ha, altresì, aggiunto la Corte di Potenza, in conformità con quanto sostenuto dal Tribunale, che, in ogni caso, il fatto che gli stessi, quand’anche computati, non avrebbero comportato il mancato superamento della soglia di punibilità, era fattore che rendeva siffatta operazione non rilevante; argomentazione quest’ultima non ragionevolmente sostenibile, posto che la maggiore o minore gravità del reato, elemento non trascurabile ai fini della dosimetria sanzionatoria, dipende, per questo genere di reati, in misura assai significativa proprio dalla entità della evasione fiscale realizzata. Si tratta, come è evidente, di argomenti che, al di là della loro discutibilità, esulano rispetto ad una pronunzia di inammissibilità che, pertanto, è stata adottata dalla Corte lucana al di là delle ipotesi che la avrebbero legittimata. Per completezza si osserva come anche il secondo motivo di impugnazione, avente ad oggetto la motivazione con la quale è stata dichiarata inammissibile la doglianza riguardante il criterio con il quale è stata determinata la pena in concreto inflitta al L., è fondato. La Corte territoriale ha fulminato con la sanzione della inammissibilità la censura formulata sul punto dalla difesa del ricorrente, affermando la genericità del motivo di impugnazione laddove questo – lamentandosi con esso la incoerente eccessività della pena in concreto irrogata, essendo stata questa, per un verso, contenuta nel minimo edittale in relazione al reato più grave fra quelli commessi e ritenuti in continuazione fra loro, salvo poi applicare, per altro verso, ad essa, diminuita per effetto delle circostanze attenuanti generiche, un aumento di pena, ai sensi dell’art. 81, cpv. cod. pen., per l’unico reato concorrente, che, dovendosi ritenere che anche su tale aumento debba operare l’effetto mitigatorio proprio dell’art. 62-bis cod. pen. (sulla presunzione di portata generale, salva espressa limitazione, della concessione delle circostanze attenuanti generiche si veda: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 28 marzo 2011, n. 12414; sostanzialmente nello stesso senso, sia pur con riferimento alla diminuente di cui all’art. 89 cod. pen.: Corte di cassazione, Sezione II penale, 4 marzo 2020, n. 8749; nonché, con riferimento appunto, alle circostanze attenuanti generiche: Corte di cassazione, Sezione II penale, 12 marzo 2018, n. 10995), appare determinata in misura superiore, senza alcuna motivazione, alla stessa diminuzione disposta sulla pena base per effetto delle attenuanti generiche – risulta, salva ed impregiudicata la sua fondatezza che compete al giudice del merito scrutinare, adeguatamente sviluppato e chiarito nei suoi contenuti. Il ricorso deve, perciò, essere accolto per i motivi che precedono e la sentenza impugnata va, pertanto annullata, con rinvio – essendo la Corte lucana composta da una sola Sezione penale – alla Corte di appello di Salerno, per nuovo esame”.

Corte di Cassazione – Sentenza 20 settembre 2021, n. 34661
sul ricorso proposto da:
L. M., nato a Matera il 24 maggio 1966;
avverso la sentenza n. 715 del 2019 della Corte di appello di Potenza del 18 ottobre 2019;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;
letta la requisitoria scritta del Pm, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Valentina MANUALI, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in esito a giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato il Gup del Tribunale di Matera aveva condannato L. M. alla pena di giustizia, determinata, previa applicazione dell’art. 81, cpv, cod. pen. e della diminuente per la scelta del rito, nella misura di mesi 8 di reclusione oltre alle pene accessorie, avendolo riconosciuto responsabile di due ipotesi del reato di cui all’art. 5 del dlgs n. 74 del 2000, per avere omesso, nella qualità di titolare di ditta individuale, la presentazione delle dichiarazioni fiscali relative alle imposte dirette ed all’IVA per gli anni 2011 e 2012, in tal modo evadendo, quanto meno, l’IVA in misura superiore alla soglia di punibilità.
Tale sentenza è stata confermata in sede di gravame da parte della Corte di appello di Potenza, la quale, nel dichiarare inammissibile l’impugnazione presentata dall’imputato, ha osservato che, non essendo stati documentati i costi affrontati dal contribuente per la produzione del reddito, essi non erano stati legittimamente conteggiati ai fini della determinazione del reddito imponibile.
La Corte territoriale lucana ha ritenuto parimenti inammissibili le doglianze aventi ad oggetto la mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. ed il trattamento sanzionatorio.
Avverso la sentenza del giudice del gravame ha interposto ricorso per cassazione la difesa del L., articolando un unico, complesso, motivo di impugnazione.
Il ricorrente si è infatti doluto, sotto un primo profilo, della motivazione della sentenza impugnata, definita dal ricorrente apparente, in relazione al ritenuto superamento della soglia di punibilità, non essendo stati conteggiati gli elementi passivi di reddito, sebbene parte di essi fossero stati documentati dagli stessi fornitori della impresa condotta dal ricorrente.
Con un secondo profilo impugnatorio la difesa del L. si è lamentata del fatto che sia stata ritenuta inammissibile la sua censura in punto di trattamento sanzionatorio, sebbene la stessa – argomentata sulla base della circostanza che la pena base irrogata fosse stata contenuta nel minimo edittale mentre l’aumento per la continuazione fosse stato determinato in misura pari alla diminuzione della pena disposta per effetto delle ritenute circostanze attenuanti generiche – fosse stata congruamente sviluppata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, risultato fondato nei termini di cui in motivazione, deve essere, pertanto, accolto.
Osserva, infatti, il Collegio che è fondata la doglianza avente ad oggetto la affermazione riguardante la asserita non valorizzabilità, ai fini della determinazione del reddito imponibile, dei costi affrontati dal ricorrente per la produzione di questo. Più volte, infatti, questa Corte ha rilevato che, ai fini della configurabilità dei reati in materia di IVA, la determinazione della base imponibile e della relativa imposta evasa, dati questi significativi ai fini dell’accertamento del superamento della soglia di punibilità, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l’eventuale sussistenza di costi non documentati, dei quali è, tuttavia, possibile tenere conto, laddove dimostrati, in relazione alle ipotesi delittuose aventi ad oggetto, come peraltro avviene nel presente caso, anche l’evasione delle imposte dirette (Corte di cassazione, Sezione III penale, 3 dicembre 2018, n. 53980).
E’, peraltro, stato ulteriormente precisato che l’eventuale accertamento di ulteriori elementi reddituali, rilevante ai fini della determinazione delle imposte, fra esse comprese anche L’IVA, non può essere eseguito se non tenendo conto di tutti gli elementi – costi, ricavi, proventi ed oneri – che concorrono alla loro formazione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 16 maggio 2018, n. 21639) e che la determinazione della imposta sul valore aggiunto evasa deve essere eseguita attraverso la “contrapposizione tra L’IVA risultante dalla fatture emesse e L’IVA detraibile sulla base delle fatture ricevute”, senza che tale computo possa ritenersi ineseguibile sulla sola base del “difetto di allegazione di eventuali fatture passive incombente sull’imputato”, dovendo tenersi conto, pertanto, in un’ottica volta a privilegiare il dato fattuale rispetto a quello meramente formale, anche degli altri elementi probatori certi acquisiti agli atti (Corte di cassazione, Sezione III penale, 19 luglio 2017, n. 35579).
Nel caso in esame la Corte di appello, operando la verifica in ordine alla correttezza della determinazione del reddito imponibile, ha osservato, facendo cattivo governo dei principi dianzi esposti, che la mera non contabilizzazione dei costi aziendali da parte del L. era di per sé ostativa alla loro valorizzazione (rendendo in tal modo inammissibile la impugnazione presentata da questo), a prescindere dal fatto, dedotto dal ricorrente e non esaminato in sede di merito, che essi sarebbero comunque emersi dalla documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza presso i soggetti che con l’imputato avevano avuto rapporti commerciali. Ha, altresì, aggiunto la Corte di Potenza, in conformità con quanto sostenuto dal Tribunale, che, in ogni caso, il fatto che gli stessi, quand’anche computati, non avrebbero comportato il mancato superamento della soglia di punibilità, era fattore che rendeva siffatta operazione non rilevante; argomentazione quest’ultima non ragionevolmente sostenibile, posto che la maggiore o minore gravità del reato, elemento non trascurabile ai fini della dosimetria sanzionatoria, dipende, per questo genere di reati, in misura assai significativa proprio dalla entità della evasione fiscale realizzata.
Si tratta, come è evidente, di argomenti che, al di là della loro discutibilità, esulano rispetto ad una pronunzia di inammissibilità che, pertanto, è stata adottata dalla Corte lucana al di là delle ipotesi che la avrebbero legittimata. Per completezza si osserva come anche il secondo motivo di impugnazione, avente ad oggetto la motivazione con la quale è stata dichiarata inammissibile la doglianza riguardante il criterio con il quale è stata determinata la pena in concreto inflitta al L., è fondato.
La Corte territoriale ha fulminato con la sanzione della inammissibilità la censura formulata sul punto dalla difesa del ricorrente, affermando la genericità del motivo di impugnazione laddove questo – lamentandosi con esso la incoerente eccessività della pena in concreto irrogata, essendo stata questa, per un verso, contenuta nel minimo edittale in relazione al reato più grave fra quelli commessi e ritenuti in continuazione fra loro, salvo poi applicare, per altro verso, ad essa, diminuita per effetto delle circostanze attenuanti generiche, un aumento di pena, ai sensi dell’art. 81, cpv. cod. pen., per l’unico reato concorrente, che, dovendosi ritenere che anche su tale aumento debba operare l’effetto mitigatorio proprio dell’art. 62-bis cod. pen. (sulla presunzione di portata generale, salva espressa limitazione, della concessione delle circostanze attenuanti generiche si veda: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 28 marzo 2011, n. 12414; sostanzialmente nello stesso senso, sia pur con riferimento alla diminuente di cui all’art. 89 cod. pen.: Corte di cassazione, Sezione II penale, 4 marzo 2020, n. 8749; nonché, con riferimento appunto, alle circostanze attenuanti generiche: Corte di cassazione, Sezione II penale, 12 marzo 2018, n. 10995), appare determinata in misura superiore, senza alcuna motivazione, alla stessa diminuzione disposta sulla pena base per effetto delle attenuanti generiche – risulta, salva ed impregiudicata la sua fondatezza che compete al giudice del merito scrutinare, adeguatamente sviluppato e chiarito nei suoi contenuti. Il ricorso deve, perciò, essere accolto per i motivi che precedono e la sentenza impugnata va, pertanto annullata, con rinvio – essendo la Corte lucana composta da una sola Sezione penale – alla Corte di appello di Salerno, per nuovo esame.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Salerno per nuovo giudizio.
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2021.