CASSAZIONE

Accordo transattivo di lavoro e deducibilità fiscale: inderogabile il principio di competenza

Tributi – Redditi d’impresa – Determinazione – Costi per controversie di lavoro concluse con verbale di conciliazione dinanzi al giudice del lavoro – Deducibilità – Nell’anno d’imposta in cui il giudice conferisce valore esecutivo al verbale

La Cassazione, con la sentenza n. 11728 dell’8 giugno 2016, ha ricordato che il contribuente che voglia evitare il fenomeno della doppia imposizione può farlo con la richiesta di restituzione della maggior imposta, la quale è proponibile nei limiti ordinari della prescrizione ex art. 2935 c.c., a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei costi in relazione alla annualità non di competenza.

La Corte di Cassazione, nello specifico, ha affermato che il costo relativo all’accordo transattivo di lavoro (giudiziale o stragiudiziale), può essere portato in deduzione dal reddito d’impresa nell’esercizio in cui il giudice rende esecutivo il verbale di conciliazione. Il tema generale, quello riguardante la prescrizione dei rimborsi, è stato spesso dibattuto in sede di legittimità, come nel caso della recente sentenza n. 22799 del 9 novembre 2015, nella quale la stessa Cassazione aveva fissato e ricordato che il principio della competenza fiscale è inderogabile e pertanto il contribuente non può adottare, ai fini fiscali, un diverso metodo di contabilizzazione, ancorché costante, in luogo del criterio di competenza previsto dalla normativa fiscale. Le vie della prescrizione per il rimborso peraltro sono sempre proponibili, nei limiti ordinari della prescrizione a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei tributi erroneamente versati.

Tanto premesso, e tornando nel caso esaminato, la conclusione a cui sono giunti i giudici di legittimità, conseguentemente, non può che discostarsi rispetto a quella della CTR, riformando la decisione dei giudici tributari e ritenendo corretta la ripresa a tassazione del costo della transazione, poiché non indicato nell’esercizio di competenza.

La vicenda è nata con l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate emesso nei confronti della società contribuente, che ne ha rideterminato il reddito d’impresa imponibile per effetto del recupero a tassazione, tra l’altro, del costo rappresentato dall’importo dovuto a un dipendente a titolo di risarcimento nell’ambito della transazione giudiziale di lavoro con cui è stata definita l’impugnazione del licenziamento. L’Ufficio, in particolare, ha contestato la deduzione del costo nell’esercizio d’imposta in cui si è perfezionato l’accordo tra le parti (società e lavoratore), mentre la deduzione doveva essere correttamente applicata nel successivo esercizio d’imposta, in cui la transazione si è conclusa con il verbale di conciliazione davanti al giudice del lavoro.

I giudici della Suprema Corte hanno affermato, in particolare, che la somma dovuta dal datore di lavoro al lavoratore a seguito di controversia di lavoro, conclusasi con verbale di conciliazione dinanzi al giudice del lavoro, va dedotta dal reddito imponibile nell’anno d’imposta in cui il giudice conferisce al predetto verbale valore esecutivo, e non in quello anteriore in cui l’accordo tra le parti si è perfezionato. Ciò in quanto solo dopo che il verbale è stato dichiarato esecutivo lo stesso non è più modificabile e, quindi, gli eventuali oneri che ne derivano per una delle parti assumono il carattere della certezza, che è una delle condizioni fondamentali per la deducibilità fiscale.

Il negozio transattivo stipulato in sede conciliativa (giudiziale o stragiudiziale) gode, infatti, di una condizione di certezza essendo assoggettato a un regime giuridico derogatorio della regola generale circa l’impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi, in quanto l’intervento del terzo investito di una funzione pubblica (giudice, autorità amministrativa, associazione di categoria) è considerato idoneo a superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore.

Ne consegue che, a seguito della conciliazione ex art. 411 cod. proc. civ. non è impugnabile l’accordo con cui il datore di lavoro abbia pattuito l’erogazione di somme di denaro, ottenendo in cambio la rinuncia all’impugnativa del licenziamento. I giudici della Cassazione evidenziano inoltre che vi è la preclusione dell’imputazione di un determinato costo a un esercizio diverso da quello di competenza. In tal modo il contribuente viene lasciato libero di scegliere il periodo in cui registrare le passività, con l’ovvia conseguenza che la determinazione del reddito imponibile potrebbe risultare non veritiera. Se ne deduce, dunque, che la scelta dei giudici di legittimità è indirizzata per il termine prescrizionale e non per quello decadenziale dell’art. 25, D.P.R. n. 602/1973, in ragione del fatto che il titolo che legittima la riscossione non è più l’accertamento ma la sentenza (operando la prescrizione decennale).

Gli Ermellini così concludono: “… Diversamente da quanto argomentato dalla C.T.R. è preclusa l’imputazione di un determinato costo ad un esercizio diverso da quello di competenza, giacché, così opinando, il contribuente sarebbe inammissibilmente lasciato arbitro della scelta del periodo in cui registrare le passività, con innegabili riflessi sulla determinazione del reddito imponibile (v. Cass. Sez. 5, n. 6331 del 10/03/2008, Rv. 602235; Sez. 5, n. 16198 del 27/12/2001, Rv. 551334). Né l’applicazione di detto criterio implica di per sé la conseguenza, parimenti vietata, della doppia imposizione, che è evitabile dal contribuente con la richiesta di restituzione della maggior imposta, la quale è proponibile, nei limiti ordinari della prescrizione ex art. 2935 cod. civ. a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei costi in relazione alla annualità non di competenza (Sez. 5, n. 6331 del 2008, cit.)”.

a man rising coins

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 8 giugno 2016, n. 11728

 

Svolgimento del processo

  1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, con cinque motivi, avverso la sentenza della C.T.R. del Lazio n. 164/36/08, depositata il 18.12.2008, con la quale, in riforma della sentenza di primo grado – che aveva solo parzialmente accolto il ricorso della contribuente – veniva interamente annullato l’avviso di accertamento a carico della S.I.S.A. S.r.l., recante, per l’anno d’imposta 01/10/2002 – 30/09/2003, minori costi, ai fini Irpeg ed Irap, per euro 69.631,00, nonché ritenute non operate e non versate per euro 7.820,00.

L’avviso di accertamento conteneva due riprese a tassazione:

– costo non indicato nell’esercizio di competenza, in violazione dell’art. 75 (vecchio testo) T.U.I.R., rappresentato dall’importo dovuto a un dipendente a titolo di risarcimento in conseguenza di licenziamento da questo impugnato in controversia definita con conciliazione giudiziale;

– quote indeducibili di costo pluriennale, recuperate a tassazione ex art. 67 T.U.I.R.,

La C.T.R. nell’accogliere l’appello della contribuente afferma anzitutto la nullità dell’avviso di accertamento per carenza assoluta di motivazione. Esclude altresì nel merito la fondatezza delle riprese a tassazione, rilevando la corretta imputazione dei costi nell’esercizio di competenza ex art. 75 T.U.I.R. ed affermando in ogni caso che l’indicazione di un costo in un esercizio diverso da quello di competenza avrebbe unicamente implicato l’applicazione di sanzioni ed interessi, determinandosi, in caso di definitiva indeducibilità del costo, un ingiustificato arricchimento in capo all’Amministrazione Finanziaria.

La contribuente resiste con controricorso.

L’Agenzia delle entrate ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

 

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate, denunziando violazione degli artt. 109 (già 75 e 98) T.U.I.R. e 411 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. censura l’impugnata sentenza per aver ritenuto corretta l’imputazione all’esercizio di competenza del costo relativo all’importo corrisposto a titolo transattivo dalla contribuente ad un proprio dipendente, dando rilievo, non già alla data di conclusione del verbale di conciliazione davanti al giudice del lavoro, ma a quella, anteriore, in cui l’accordo si era perfezionato tra le parti.

Con il secondo motivo, denunziando violazione dell’art. 102 (già 67) T.U.I.R., in relazione all’art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. censura la statuizione della C.T.R. che afferma la legittimità della deduzione in un’unica annualità di una spesa straordinaria sostenuta dalla contribuente.

Con il terzo motivo, denunziando violazione degli artt. 75 e 163 T.U.I.R., 53 Cost. e 19 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. censura la statuizione della C.T.R. secondo cui l’imputazione di un costo ad un’annualità piuttosto che ad un’altra non comporta riduzione di imponibile ma può determinare unicamente l’addebito di sanzioni ed interessi a carico del contribuente.

Con il quarto motivo, denunziando violazione dell’art. 42 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. censura la statuizione della C.T.R. che afferma la nullità dell’avviso di accertamento per omessa motivazione.

Con il quinto motivo, denunziando carenza di motivazione, in relazione all’art. 360, comma primo n. 5, cod. proc. civ. censura la motivazione della sentenza impugnata in quanto priva dei riferimenti essenziali per comprendere l’iter logico della valutazione sottostante all’affermazione della carenza di motivazione dell’avviso di accertamento.

  1. Ragioni di priorità logica impongono di esaminare anzitutto il quarto e quinto motivo di ricorso, che, in quanto connessi, possono essere trattati congiuntamente, salvo precisare in prima battuta che il quarto – secondo la controricorrente inammissibile perché incentrato sulla questione della motivazione dell’avviso di accertamento per relationem al p.v.c., laddove a priori essa aveva bensì fatto valere il vizio di difetto di motivazione, ma «principalmente» (p. 13 controric.) per la mancata indicazione delle norme violate e la mancata esplicitazione delle ragioni logiche e giuridiche dell’accertamento – tale certamente non è. L’articolazione del motivo affronta la questione di cui si tratta in quanto funzionale alla critica dell’affermazione della C.T.R. in punto dì carenza di motivazione tout court dell’avviso, tanto che trascrive le parti rilevanti dell’avviso (p. 19 s. ric.) per evidenziarne l’autonomia valutativa rispetto al pur richiamato p.v.c.

Tanto premesso, entrambi i motivi sono fondati.

L’affermazione della C.T.R. di carenza di motivazione dell’avviso disattende il costante insegnamento di questa Suprema Corte secondo cui il richiamo di un p.v.c. regolarmente notificato al contribuente e di cui dunque questi ha avuto integrale e legale conoscenza si salda nel percorso motivazionale afferente, al di là del p.v.c., all’atto impositivo in quanto tale, che dunque assurge a compiutezza ed intelligibilità, giacché sull’Amministrazione Finanziaria grava esclusivamente l’onere di porre il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali (v. ex multis Cass., Sez. 5, n. 407 del 14/01/2015, Rv. 634243). Nel caso di specie, è pacifico che il p.v.c. è stato notificato alla controricorrente, la quale infatti nulla oppone sul punto, mentre l’avviso di accertamento, come riportato nel corpo del ricorso, pur rinviando a tale atto per maggiori indicazioni, risulta di per sé adeguatamente motivato, in quanto reca in modo chiaro e preciso la ratio delle singole contestazioni e le disposizioni normative asseritamente violate, sì da permettere una conoscenza sia delle pretese impositive sia dei fondamenti su cui esse riposano con un grado di determinatezza ed intelligibilità idonei a consentire un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa (Cass., Sez. 5, n. 7056 del 26/03/2014. Rv. 630415). Prova ne è del resto il fatto che, nonostante la pretesa carenza di motivazione dell’avviso, per un verso, la controricorrente è stata in grado di aggredire, ancora dinanzi a questa Suprema Corte, la fondatezza in sé delle pretese impositive e, per altro verso, la C.T.R., oltrepassando il segno dell’annullamento dell’avviso stesso per il ritenuto vizio, ha, per ciò solo contraddittoriamente, avuto agio ad affrontare il merito di siffatte pretese.

  1. Venendo quindi all’esame dei primi tre motivi, deve anzitutto rilevarsi la fondatezza del primo di essi, della cui ammissibilità non può dubitarsi afferendo esso non già a una quaestio facti come obiettato dalla controrlcorrente, ma alla regula iuris applicata in punto di imputazione temporale del costo di una transazione giudiziale in materia lavoristica.

Come questa Suprema Corte ha già avuto modo di affermare, in tema di imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, la somma dovuta dal datore di lavoro al lavoratore a seguito di controversia di lavoro, conclusasi con verbale di conciliazione dinanzi al giudice del lavoro, va dedotta dal reddito imponibile nell’anno d’imposta in cui il giudice ha conferito al predetto verbale valore esecutivo, in quanto, solo dopo che il verbale è stato dichiarato esecutivo, lo stesso non è più modificabile e, quindi, gli eventuali oneri che ne derivino per una delle parti assumono il carattere della certezza, che è una delle condizioni della deducibilità fiscale (Cass., Sez. 5, n. 12788 del 19/10/2001, Rv. 549756).

In forza dell’ultimo comma dell’art. 2113 cod. civ. che richiama gli artt. 410 e 411 cod. proc. civ., infatti, il negozio transattivo stipulato in sede conciliativa, giudiziale o stragiudiziale, è assoggettato ad un regime giuridico derogatorio della regola generale – stabilita dai commi secondo e terzo della predetta disposizione – dell’impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi, in quanto l’intervento del terzo investito di una funzione pubblica (giudice, autorità amministrativa, associazione di categoria) è ritenuto idoneo a superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore. Ne consegue che, a seguito della conciliazione ex art. 411 cod. proc. civ. non è impugnabile l’accordo con cui il datore dì lavoro abbia pattuito l’erogazione di somme di denaro, ottenendo in cambio la rinuncia all’impugnativa del licenziamento (Cass. Sez. L, n. 16283 del 19/08/2004, Rv. 575984).

A tale principio non si è conformata la sentenza impugnata che ha ritenuto la possibilità di imputare il relativo costo all’esercizio, anteriore a quello in cui si era verificata la conciliazione giudiziale, in forza di atto transattivo, che non possedeva carattere di definitività.

  1. È altresì fondato il secondo motivo.

Secondo l’art. 67, comma 6, T.U.I.R., la cui ratio va individuata nella Finalità di semplificare gli adempimenti dei contribuenti nel caso di spese di piccolo importo (Cass. Sez. 5, n. 23996 del 23/10/2013, Rv. 628491), è consentita la deduzione integrale delle spese di acquisizione nell’esercizio in cui sono state sostenute per i soli beni il cui costo unitario non è superiore ad euro 516,46: ne deriva a contrario che, nel caso di beni di valore superiore, deve procedersi ad ammortamento per quote costanti, restando esclusa la configurabilità di alcuna discrezionalità al riguardo da parte del contribuente (Cass. Sez. 5, n. 20680 del 14/10/2015, Rv. 636893; Sez. 5, n. 22016 del 17/10/2014, Rv. 632771).

Nel caso di specie, il valore della moquette (pari ad euro 59.446,00) era notevolmente superiore alla soglia, con conseguente obbligata deducibilità in più esercizi.

La sentenza della C.T.R., che ha invece annullato la relativa ripresa a tassazione, è dunque illegittima.

  1. È anche fondato il terzo motivo.

Diversamente da quanto argomentato dalla C.T.R. è preclusa l’imputazione di un determinato costo ad un esercizio diverso da quello di competenza, giacché, così opinando, il contribuente sarebbe inammissibilmente lasciato arbitro della scelta del periodo in cui registrare le passività, con innegabili riflessi sulla determinazione del reddito imponibile (v. Cass. Sez. 5, n. 6331 del 10/03/2008, Rv. 602235; Sez. 5, n. 16198 del 27/12/2001, Rv. 551334).

Né l’applicazione di detto criterio implica di per sé la conseguenza, parimenti vietata, della doppia imposizione, che è evitabile dal contribuente con la richiesta di restituzione della maggior imposta, la quale è proponibile, nei limiti ordinari della prescrizione ex art. 2935 cod. civ. a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei costi in relazione alla annualità non di competenza (Sez. 5, n. 6331 del 2008, cit.).

  1. In accoglimento del ricorso la sentenza impugnata va dunque cassata.

Considerato che non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, il ricorso può essere deciso nel merito, con il rigetto dell’appello proposto dalla società contribuente avverso la sentenza di primo grado.

La natura della controversia e le peculiarità della vicenda processuale giustificano l’integrale compensazione delle spese tra le parti.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’appello proposto dalla S.I.S.A. S.r.l.; compensa per intero tra le parti le spese processuali.

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