CASSAZIONE

Accertamento fiscale: presunzione di evasione anche per le imprese in contabilità semplificata

Tributi – IVA – IRAP – IRPEF – Intermediazione nel commercio – Dati emergenti dai conti correnti bancari – Presunzione legale in favore dell’erario – Onere della prova contraria del contribuente – Contabilità semplificata – Irrilevanza – Art. 32, DPR 600/1973 – Natura

La Corte di Cassazione – ordinanza n. 29245 del 7 ottobre 2022 – è tornata a interessarsi delle verifiche sui conti correnti bancari, in presunzione di evasione fiscale, per stabilire che in caso di accertamento fondato sulle risultanze bancarie non è prevista alcuna distinzione tra contribuenti in contabilità ordinaria o semplificata e, di conseguenza, le presunzioni di cui all’art. 32 del DPR 600/1973 valgono anche nei confronti delle imprese che abbiano adottato il regime della contabilità semplificata. Gli Ermellini hanno anche aggiunto la seguente affermazione: “…Nel regime di contabilità semplificata, i libri obbligatori sono gli stessi di quelli del regime di contabilità ordinaria (che per vero è finanche formalmente residuale rispetto all’altro), eccezion fatta per quel che riguarda il libro giornale ed il libro inventari, siccome previsti rispettivamente dagli artt. 2216 e 2217 cod. civ. Più particolarmente, resta fermo l’obbligo di tenuta dei registri Iva acquisti ed Iva vendite, da integrare con le annotazioni ai fini delle imposte sui redditi relativamente alle operazioni non soggette ad Iva (perché per esempio ‘fuori campo Iva’), giust’appunto al fine di consentire in sede di controllo l’effettiva determinazione dell’imponibile”.

Va anche ricordato che detta presunzione può essere sempre superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono a operazioni imponibili, da cui deriva l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze.

Comunque, per contabilità semplificata si intende quel regime contabile che presenta un sistema più snello rispetto alla contabilità ordinaria, prevedendo, tra l’altro, l’utilizzo del principio di cassa e non del principio di competenza, l’esonero di tenuta di alcuni libri contabili e in generale una più semplice gestione della fiscalità. Diversamente, nei regimi di contabilità ordinaria, che rientrano comunque nel principio di competenza, è prevista la registrazione non solo di costi e ricavi ma anche di incassi, pagamenti, versamenti e prelevamenti. Ogni soggetto che esercita attività d’impresa è quindi obbligato alla tenuta delle scritture. Per queste ragioni, la contabilità semplificata viene spesso scelta da imprese individuali, società di persone, enti non commerciali e professionisti, ovvero le imprese meno strutturate.

Secondo quanto previsto dall’articolo 32 del DPR 600/1973, l’accertamento fiscale è considerato legittimo quando è fondato sui versamenti ingiustificati nei conti bancari del contribuente. In definitiva, per l’accertamento delle imposte sui redditi, il menzionato art. 32 del DPR 600 prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi e a fronte dei quali il contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice.

Dal punto della giurisprudenza vigente, la Suprema Corte ha già avuto modo di statuire esplicitamente che la presunzione legale “si applica anche alle imprese che abbiano adottato il regime contabile semplificato”, citando la pronunzia della S.C. n. 13112/2020, nella quale si insiste che l’art. 32 del DPR 600/1973 e l’art. 51 del DPR 633/1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario e che, di conseguenza, “… in tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze”.

Nel regime di contabilità semplificata, peraltro, i libri obbligatori sono gli stessi di quelli del regime di contabilità ordinaria, eccezion fatta per quel che riguarda il libro giornale e il libro inventari: più in particolare, resta fermo l’obbligo di tenuta dei registri IVA acquisti e IVA vendite, da integrare con le annotazioni ai fini delle imposte sui redditi relativamente alle operazioni non soggette a IVA (perché, ad esempio, “fuori campo IVA”), al fine precipuo di consentire in sede di controllo l’effettiva determinazione dell’imponibile.

A mettere maggior ordine agli accertamenti possono essere infine solo le prove certe, precise e concordanti sulla provenienza del denaro depositato sul proprio conto bancario o postale, come è stato recentemente osservato dagli stessi Ermellini, che nell’ordinanza n. 18245/2022 hanno confermato che la presunzione legale relativa alla disponibilità di maggior reddito desumibile dai movimenti bancari non è destinata solo  ai titolari di reddito d’impresa o di reddito di lavoro autonomo, ma si applica anche alla generalità dei contribuenti. Ne consegue che è obbligo del giudice di merito verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze (v. Cass. n. 13112/2020; Cass. n. 10480/ 2018).

I giudici supremi hanno così richiamato alla memoria anche la costatazione che gli articoli 32 e 38 del DPR 600/1973 prevedono una presunzione legale secondo la quale, in tema di accertamento delle imposte, sia i prelevamenti che i versamenti ingiustificati operati su conti correnti bancari, anche di dipendenti privati, pubblici e pensionati, devono essere imputati a ricavi. Il contribuente, per il principio di libertà dei mezzi di prova, “… può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative (v. Cass. n. 25502/2011; VI-5 n. 11102/2017)”.

Di conseguenza, concludono gli Ermellini, le presunzioni di cui all’art. 32 del DPR 600/1973 sono in vigore anche nei confronti delle imprese che abbiano adottato il regime della contabilità semplificata.

Tanto premesso e guardando al caso oggi in dibattimento, interessa un contribuente imprenditore attivo nell’intermediazione nel commercio che riceveva un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate verificava un maggiore reddito ai fini IRPEF e IRAP. Adito alla Giustizia tributaria il contribuente, dopo aver ricevuto un parziale consenso in primo grado, riceveva però un arresto dell’appello proposto dalla CTR, che evidenziava le discrasie presenti nelle movimentazioni dei conti riconducibili al contribuente e alle scritture contabili. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il contribuente, lamentando essenzialmente che il metodo induttivo con inversione dell’onere della prova è applicabile anche ai casi di contabilità semplificata e non solo ordinaria. La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato questo motivo di doglianza, affermando che ”… Il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità è nel senso che, “in tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze” (cfr., ad es., Sez. 5, n. 13112 del 30/06/2020, Rv. 658392-01). In ragione di quanto precede, “la presunzione ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 consente all’Amministrazione finanziaria di riferire ‘de plano’ ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente” (Sez. 5, n. 10249 del 26/04/2017, Rv. 644098-01).Ciò significa che, “qualora l’accertamento effettuato dall’Ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova, non generica, ma analitica, per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili” (in termini, da ultimo, Sez. 5, n. 15857 del 29/07/2016, Rv. 640618-01). Donde, “poiché il contribuente ha l’onere di superare la presunzione posta dagli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, il Giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione” (Sez. 6-5, n. 10480 del 03/05/2018, Rv. 648064-01). Ne consegue: – quanto segnatamente al secondo motivo, il cui “thema” permea in realtà anche il primo, che “l’utilizzazione dei dati acquisiti presso le aziende di credito quali prove presuntive di maggiori ricavi o operazioni imponibili, ai sensi degli artt. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, non è subordinata alla prova che il contribuente eserciti attività d’impresa o di lavoro autonomo, atteso che, ove non sia contestata la legittimità dell’acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari, i medesimi possono essere utilizzati sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito da essa ricavato, incombendo al contribuente l’onere di provare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti” (così, da ultimo, Sez. 5, n. 25812 del 23/09/2021, Rv. 662241-01). Perfettamente in linea con tale insegnamento, pertanto, si dimostra l’affermazione della CTR secondo cui, al cospetto dell’operatività del meccanismo presuntivo dell’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, è irrilevante (siccome “del tutto neutro e non definitivo nella valutazione della vicenda”) il pur ampiamente dibattuto, tra le parti, “thema” della qualificazione giuridica dell’attività svolta dal contribuente (che dunque la CTR non riconosce affatto – come invece sostenuto in ricorso – coincidere con quella di procacciatore d’affari); – quanto, “funditus”, al primo motivo, che la prova contraria cui il contribuente è chiamato per vincere la presunzione legale non può essere né generica né `massiva’, ragion per cui, in primo luogo, il medesimo è tenuto a dimostrare “in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili” e, ulteriormente, di riflesso, “il Giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso contribuente” in relazione “ad ogni singola movimentazione”, “dandone conto in motivazione” (Sez. 5, n. 11696 del 05/05/2021, Rv. 661519-01). A tale insegnamento, in effetti, la CTR si è pedissequamente attenuta, giacché – dato atto dell’esplicito riconoscimento del contribuente di non aver potuto offrire una documentazione completa per difficoltà di reperimento della stessa, ma pertinentemente al riguardo rilevato come le conseguenze negative del non aver “provveduto a ben organizzare la propria archivistica” non possono che andare a discapito di chi ne è responsabile – si è comunque fatta carico di dimostrare come – finanche a seguire la tesi del contribuente medesimo, in ragione della quale i movimenti bancari erano riferibili alla sua attività di procacciatore d’affari “nell’interesse di imprese terze che vendevano o compravano merci grazie alla sua intermediazione” – i documenti a più riprese versati in atti, e partitamente scandagliati in sentenza, non acquisissero alcuna “efficacia dimostrativa” idonea a superare la presunzione legale. Evidenzia invero la CTR, — da un lato, che tali documenti (ed in specie tutte le lettere di incarico per procacciamento di affari tranne una) si riferivano in larga parte a “segmenti temporali” diversi dagli anni d’imposta monitorati: ciò che, di per sé, osta a quell’analitica riconciliazione, anche temporale, di cui invece la giurisprudenza innanzi citata esige la dimostrazione da parte del contribuente per vincere la presunzione; — dall’altro lato, che i documenti riferibili ai suddetti anni – cioè, segnatamente, parte di quelli prodotti in corso di causa, per l’effetto tutt’altro che ignorati, come infondatamente allegato in ricorso – “nulla” di per sé erano in grado di attestare rispetto alla tesi del contribuente, “secondo cui la sua attività di procacciatore di affari comportava anche che i pagamenti tra acquirente e venditore di merce, in operazioni da lui intermediate, venivano effettuati sui suoi conti”: il loro intrinseco silenzio sul punto – soggiunge la CTR alla stregua di una logica precisazione del tutto ignorata in ricorso – ben avrebbe potuto essere supplito da documenti extracontabili, pur informali, in grado di render conto, non già solo di un’attività astrattamente riconducibile a quella di procacciatore d’affare, ma soprattutto delle concrete modalità operative seguite dal contribuente, comportanti, a dire del medesimo, il transito di somme di terzi sui suoi conti: documenti tuttavia – secondo la CTR – in nessun modo prodotti.  Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, con riguardo al capo della sentenza secondo cui il metodo induttivo con inversione dell’onere della prova è applicabile anche ai casi di contabilità semplificata e non solo ordinaria.4.1. Secondo la CTR, qualora il suddetto metodo con inversione dell’onere della prova forse applicabile esclusivamente ai soggetti che tengono la contabilità ordinaria, si verificherebbe un ingiustificato trattamento di favore nei confronti di quelli che tengono la contabilità in regime semplificato. Al contrario, rilevasi nel motivo in disamina, viene in conto l’inattendibilità dei parametri di redditività in relazione all’accertamento eseguito nei confronti di chi versa in regime semplificato, poiché questi non può offrire lo scudo della contabilità ordinaria. Sicché, nella specie, per effetto della decisione della CTR, al contribuente – che ha dimostrato, producendo anche le lettere di incarico, come le movimentazioni di conto non avessero natura reddituale – è stata sottratta la possibilità di essere destinatario di una tipologia di accertamento adeguata alla tenuta della contabilità semplificata. Il motivo, per quanto pregevole, è infondato. L’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione “ratione temporis” vigente (ossia quella introdotta dalla L. n. 311 del 2004, secondo cui “i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati […] sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”), di per sé non contemplava alcuna distinzione tra contribuenti in funzione del regime, ordinario o semplificato, di contabilità adottato. Proprio alla luce di ciò, questa Suprema Corte ha già avuto modo di esplicitamente statuire che la presunzione legale “si applica anche alle imprese che abbiano adottato il regime della contabilità semplificata” (Sez. 5, n. 40221 del 15/12/2021, Rv. 663216-01). Non v’è ragione per cui siffatto insegnamento – proiettato ad un generale ambito di applicabilità, attesane la “ratio”, che fa leva sul dettato letterale della disposizione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973, evocante “tout court” la figura del “contribuente”, senza il benché minimo cenno di limitazione al solo contribuente in contabilità ordinaria – non possa valere in tema di accertamento induttivo, esso pure fondato, come nella specie, su detta disposizione.  A ciò sembra di potersi aggiungere che nessun argomento di segno contrario sovviene da una prospettiva sistematica. Invero, a termini dell’incipit” del comma 1 dell’art. 18 d.P.R. n. 600 del 1973, il quale ha attraversato invariato il tempo, i soggetti in contabilità semplificata non sono affatto esonerati (come sembrerebbe pretendersi in ricorso) dall’obbligo di tenuta di una contabilità sufficientemente analitica da consentire “ex post” la ricostruzione del volume d’affari e di conseguenza del reddito. Nel regime di contabilità semplificata, i libri obbligatori sono gli stessi di quelli del regime di contabilità ordinaria (che per vero è finanche formalmente residuale rispetto all’altro), eccezion fatta per quel che riguarda il libro giornale ed il libro inventari, siccome previsti rispettivamente dagli artt. 2216 e 2217 cod. civ. Più particolarmente, resta fermo l’obbligo di tenuta dei registri Iva acquisti ed Iva vendite, da integrare con le annotazioni ai fini delle imposte sui redditi relativamente alle operazioni non soggette ad Iva (perché per esempio ‘fuori campo Iva’), giust’appunto al fine di consentire in sede di controllo l’effettiva determinazione dell’imponibile. Talché il testuale riferimento dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973 alla non rilevabilità (come visto) delle operazioni dalle “scritture contabili” (“[…] sempreché non risultino dalle scritture contabili”), non rivela alcuna incompatibilità né logica né strutturale né propriamente contabile- fiscale con la tenuta della contabilità in forma semplificata.  Alla luce di quanto precede, trova precipua giustificazione l’acuta precisazione della CTR nella sentenza impugnata, del tutto ignorata in ricorso, secondo cui, alla base delle riprese oggetto dell’avviso, “stanno accertamenti bancari” condotti “con metodo induttivo basato sulla somma di accrediti e addebiti[,] che hanno movimentato i conti oggetto di controllo[,] non riconciliabili con le sculture di impresa”. Proprio siffatta non riconciliabilità, infatti, rende conto – oltreché dell’istituzione, da parte del contribuente (come d’altronde non avrebbe potuto non essere) della contabilità, segnatamente quanto all’Iva – altresì della sostanziale inattendibilità della stessa, siccome – alla stregua di un accertamento in fatto della CTR in sé neppure censurato – non corrispondente alle risultanze bancarie, con conseguente integrazione esattamente del ridetto presupposto dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973 a proposito della non rilevabilità delle poste di conto dalle “scritture contabili”. In considerazione di quanto precede, il ricorso deve essere integralmente rigettato”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 7 ottobre 2022, n. 29245

sul ricorso iscritto al n. 8970/2017 R.G. proposto da:

A. L., n. a Roma il 20 luglio 1945, residente a Kraniska Gora, Podkoren 39/B, Slovenia (EE), rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dall’Avv. Paolo Puri e dall’Avv. Paolo Paganuzzi ed elettivamente domiciliato presso il studio sito a Roma, Via XXIV Maggio, n. 43

– ricorrente –

contro Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è domiciliata a Roma, Via dei Portoghesi, n. 12

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Toscana n. 1709/25/2016, depositata il 30 settembre 2016;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 luglio 2022 dal Consigliere Andrea Antonio Salemme;

RILEVATO CHE

1. Con tre avvisi di accertamento nn. T8F010101032/2009 per l’anno 2002, T8F010101034/2009 per l’anno 2003 e T8F010101035/2009 per l’anno 2004, l’Agenzia delle entrate, in base ai rilievi formulati dalla Guardia di Finanza in un processo verbale di contestazione conseguente a verifica compiuta mediante indagini bancarie e finanziarie, accertava, nei confronti di A. L., esercente attività di intermediazione nel commercio, previo contraddittorio con il medesimo, all’esito del quale svariate movimentazioni erano rimaste prive di giustificazione, un maggior reddito d’impresa (per euro 642.834,24, in luogo di dichiarati euro 1.150,00, per il 2002; per euro 471.640,00, in luogo di dichiarati 7.626,00, per il 2003; per euro 319.862,00, in luogo di dichiarati 17.385,00, per il 2004), indi determinando maggiori Irpef, addizionali, Irap ed Iva ed irrogando le corrispondenti sanzioni.

2. La CTP di Grosseto, con tre contestuali sentenze, accoglieva parzialmente le impugnazioni, riducendo la pretesa impositiva alle percentuali per ciascuna annualità proposte dall’Ufficio in sede di fallito accertamento con adesione.

3. Proponeva altrettanti appelli il contribuente. L’Agenzia delle entrate resisteva e spiegava a sua volta appelli incidentali.

4. La CTR, previa riunione delle cause, respinti gli appelli di entrambe le parti, confermava le sentenze di primo grado, rilevando in particolare che, a fronte delle discrasie emerse tra le movimentazioni dei conti riconducibili al contribuente e le scritture contabili, la documentazione da questi prodotta era inidonea a vincere la presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, indipendentemente dall’allegazione dello stesso di aver svolto l’attività di procacciatore d’affari e non quella di commissionario per la vendita ritenuta dall’Ufficio.

5. Propone ricorso per cassazione il contribuente, affidandosi a tre motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

CONSIDERATO CHE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, nonché difetto di motivazione della sentenza in riferimento alla documentazione prodotta ed attestante la non imponibilità delle movimentazioni effettuate.

1.1 La CTR incorre nelle denunciate violazioni, laddove, senza considerare l’attività di procacciatore d’affari svolta dal contribuente, ritiene imponibili movimentazioni bancarie per le quali egli ha fornito adeguata prova documentale della natura patrimoniale e non reddituale. Nessun vaglio critico viene effettuato rispetto sia alla suddetta attività del contribuente sia alla copiosa documentazione prodotta. L’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973 non richiede la prova giustificativa di ciascuna singola movimentazione, ma più realisticamente la dimostrazione che le poste di conto costituiscano ricavi già sottoposti a tassazione ovvero non si riferiscano ad incrementi reddituali. I Giudici di merito respingono il ricorso del contribuente soltanto sulla base di affermazioni non confortate da riscontri documentali, in evidente violazione dei principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, la CTR “ritiene non giustificate le movimentazioni contestate in virtù del solo fatto che sono stati prodotti documenti successivi rispetto ai periodi di imposta oggetto di accertamento. Fattispecie questa smentita dall’enorme mole di documentazione prodotta sia in fase amministrativa sia in sede di giudizio[,] che il giudice dimostra di non conoscere”.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, con riguardo al capo della sentenza in cui viene indicata come irrilevante l’attività svolta dal contribuente.

2.1 Ulteriore vizio affliggente la sentenza impugnata consiste nell’applicazione della disciplina delle presunzioni di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, nonostante lo svolgimento, da parte del contribuente, dell’attività di procacciatore d’affari e non quella di intermediario alla vendita. Invero, “la sentenza di merito[,] pur riconoscendo che effettivamente per gli anni oggetto di contestazione il contribuente svolge[va] l’attività di procacciatore di affari, e non di intermediario alla vendita, ne fa discendere in logica conseguenza che esso ben poteva porre in essere operazioni di acquisto e vendita delle merci”; al contrario, “come da prassi”, il contribuente “anticipava il pagamento[,] alla ditta preponente[,] del corrispettivo dei beni acquistati dai clienti procacciati, i quali poi provvedevano a restituirgli le somme anticipate”, ragion per cui è censurabile l’affermazione della CTR a termini della quale la tesi del contribuente sarebbe “poco credibile in quanto difforme dalla logica commerciale e dagli usi”; la sentenza impugnata ha fatto della norma di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973 “un’applicazione assolutamente irragionevole”, perdendo di vista il fine di “addivenire ad una corretta individuazione della capacità contributiva”; “anche nella denegata ipotesi in cui si volesse sposare la tesi dell’Ufficio[,] considerato che nella fase processuale è stata reperita ulteriore documentazione[,] il Giudice di merito avrebbe dovuto vagliarla e riconoscere quindi che ulteriori movimentazioni risultavano debitamente giustificate”.

3. Entrambi i motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente per l’evidente comunanza di censure, sono inammissibili e comunque manifestamente infondati.

3.1 Essi sono inammissibili in quanto, per un verso, incorrono in aspecificità, laddove fanno solo generico riferimento ad atti e documenti acquisiti al processo, senza identificarli e men che meno richiamarli con le dovute precisione e puntualità, riproducendone all’occorrenza il contenuto, in guisa da dimostrarne la decisività; per altro verso, deducono, a dispetto della paventata violazione di legge, vizi motivazionali al di fuori dei parametri di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.; per altro verso ancora, sollecitano a questa Suprema Corte una nuova e più favorevole valutazione sul merito della controversia, già adeguatamente scandagliato dalla CTR nella sentenza impugnata, in patente violazione dei canoni in cui è astretto il giudizio di legittimità (cfr. da ultimo Sez. 3, n. 7187 del 04/03/2022, Rv. 664394-02).

3.2 Detti motivi, come anticipato, sono, comunque, altresì manifestamente infondati.

Il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità è nel senso che, “in tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze” (cfr., ad es., Sez. 5, n. 13112 del 30/06/2020, Rv. 658392-01). In ragione di quanto precede, “la presunzione ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 consente all’Amministrazione finanziaria di riferire ‘de plano’ ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente” (Sez. 5, n. 10249 del 26/04/2017, Rv. 644098-01).

Ciò significa che, “qualora l’accertamento effettuato dall’Ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova, non generica, ma analitica, per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili” (in termini, da ultimo, Sez. 5, n. 15857 del 29/07/2016, Rv. 640618-01). Donde, “poiché il contribuente ha l’onere di superare la presunzione posta dagli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, il Giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione” (Sez. 6-5, n. 10480 del 03/05/2018, Rv. 648064-01).

Ne consegue: – quanto segnatamente al secondo motivo, il cui “thema” permea in realtà anche il primo, che “l’utilizzazione dei dati acquisiti presso le aziende di credito quali prove presuntive di maggiori ricavi o operazioni imponibili, ai sensi degli artt. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, non è subordinata alla prova che il contribuente eserciti attività d’impresa o di lavoro autonomo, atteso che, ove non sia contestata la legittimità dell’acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari, i medesimi possono essere utilizzati sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito da essa ricavato, incombendo al contribuente l’onere di provare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti” (così, da ultimo, Sez. 5, n. 25812 del 23/09/2021, Rv. 662241-01).

Perfettamente in linea con tale insegnamento, pertanto, si dimostra l’affermazione della CTR secondo cui, al cospetto dell’operatività del meccanismo presuntivo dell’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, è irrilevante (siccome “del tutto neutro e non definitivo nella valutazione della vicenda”) il pur ampiamente dibattuto, tra le parti, “thema” della qualificazione giuridica dell’attività svolta dal contribuente (che dunque la CTR non riconosce affatto – come invece sostenuto in ricorso – coincidere con quella di procacciatore d’affari); – quanto, “funditus”, al primo motivo, che la prova contraria cui il contribuente è chiamato per vincere la presunzione legale non può essere né generica né `massiva’, ragion per cui, in primo luogo, il medesimo è tenuto a dimostrare “in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili” e, ulteriormente, di riflesso, “il Giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso contribuente” in relazione “ad ogni singola movimentazione”, “dandone conto in motivazione” (Sez. 5, n. 11696 del 05/05/2021, Rv. 661519-01).

A tale insegnamento, in effetti, la CTR si è pedissequamente attenuta, giacché – dato atto dell’esplicito riconoscimento del contribuente di non aver potuto offrire una documentazione completa per difficoltà di reperimento della stessa, ma pertinentemente al riguardo rilevato come le conseguenze negative del non aver “provveduto a ben organizzare la propria archivistica” non possono che andare a discapito di chi ne è responsabile – si è comunque fatta carico di dimostrare come – finanche a seguire la tesi del contribuente medesimo, in ragione della quale i movimenti bancari erano riferibili alla sua attività di procacciatore d’affari “nell’interesse di imprese terze che vendevano o compravano merci grazie alla sua intermediazione” – i documenti a più riprese versati in atti, e partitamente scandagliati in sentenza, non acquisissero alcuna “efficacia dimostrativa” idonea a superare la presunzione legale.

Evidenzia invero la CTR, — da un lato, che tali documenti (ed in specie tutte le lettere di incarico per procacciamento di affari tranne una) si riferivano in larga parte a “segmenti temporali” diversi dagli anni d’imposta monitorati: ciò che, di per sé, osta a quell’analitica riconciliazione, anche temporale, di cui invece la giurisprudenza innanzi citata esige la dimostrazione da parte del contribuente per vincere la presunzione; — dall’altro lato, che i documenti riferibili ai suddetti anni – cioè, segnatamente, parte di quelli prodotti in corso di causa, per l’effetto tutt’altro che ignorati, come infondatamente allegato in ricorso – “nulla” di per sé erano in grado di attestare rispetto alla tesi del contribuente, “secondo cui la sua attività di procacciatore di affari comportava anche che i pagamenti tra acquirente e venditore di merce, in operazioni da lui intermediate, venivano effettuati sui suoi conti”: il loro intrinseco silenzio sul punto – soggiunge la CTR alla stregua di una logica precisazione del tutto ignorata in ricorso – ben avrebbe potuto essere supplito da documenti extracontabili, pur informali, in grado di render conto, non già solo di un’attività astrattamente riconducibile a quella di procacciatore d’affare, ma soprattutto delle concrete modalità operative seguite dal contribuente, comportanti, a dire del medesimo, il transito di somme di terzi sui suoi conti: documenti tuttavia – secondo la CTR – in nessun modo prodotti.

4. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, con riguardo al capo della sentenza secondo cui il metodo induttivo con inversione dell’onere della prova è applicabile anche ai casi di contabilità semplificata e non solo ordinaria.

4.1 Secondo la CTR, qualora il suddetto metodo con inversione dell’onere della prova forse applicabile esclusivamente ai soggetti che tengono la contabilità ordinaria, si verificherebbe un ingiustificato trattamento di favore nei confronti di quelli che tengono la contabilità in regime semplificato. Al contrario, rilevasi nel motivo in disamina, viene in conto l’inattendibilità dei parametri di redditività in relazione all’accertamento eseguito nei confronti di chi versa in regime semplificato, poiché questi non può offrire lo scudo della contabilità ordinaria. Sicché, nella specie, per effetto della decisione della CTR, al contribuente – che ha dimostrato, producendo anche le lettere di incarico, come le movimentazioni di conto non avessero natura reddituale – è stata sottratta la possibilità di essere destinatario di una tipologia di accertamento adeguata alla tenuta della contabilità semplificata. 4.2. Il motivo, per quanto pregevole, è infondato.

4.2.1 L’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione “ratione temporis” vigente (ossia quella introdotta dalla L. n. 311 del 2004, secondo cui “i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati […] sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”), di per sé non contemplava alcuna distinzione tra contribuenti in funzione del regime, ordinario o semplificato, di contabilità adottato. Proprio alla luce di ciò, questa Suprema Corte ha già avuto modo di esplicitamente statuire che la presunzione legale “si applica anche alle imprese che abbiano adottato il regime della contabilità semplificata” (Sez. 5, n. 40221 del 15/12/2021, Rv. 663216-01). Non v’è ragione per cui siffatto insegnamento – proiettato ad un generale ambito di applicabilità, attesane la “ratio”, che fa leva sul dettato letterale della disposizione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973, evocante “tout court” la figura del “contribuente”, senza il benché minimo cenno di limitazione al solo contribuente in contabilità ordinaria – non possa valere in tema di accertamento induttivo, esso pure fondato, come nella specie, su detta disposizione.

4.2.2 A ciò sembra di potersi aggiungere che nessun argomento di segno contrario sovviene da una prospettiva sistematica. Invero, a termini dell’incipit” del comma 1 dell’art. 18 d.P.R. n. 600 del 1973, il quale ha attraversato invariato il tempo, i soggetti in contabilità semplificata non sono affatto esonerati (come sembrerebbe pretendersi in ricorso) dall’obbligo di tenuta di una contabilità sufficientemente analitica da consentire “ex post” la ricostruzione del volume d’affari e di conseguenza del reddito.

Nel regime di contabilità semplificata, i libri obbligatori sono gli stessi di quelli del regime di contabilità ordinaria (che per vero è finanche formalmente residuale rispetto all’altro), eccezion fatta per quel che riguarda il libro giornale ed il libro inventari, siccome previsti rispettivamente dagli artt. 2216 e 2217 cod. civ. Più particolarmente, resta fermo l’obbligo di tenuta dei registri Iva acquisti ed Iva vendite, da integrare con le annotazioni ai fini delle imposte sui redditi relativamente alle operazioni non soggette ad Iva (perché per esempio ‘fuori campo Iva’), giust’appunto al fine di consentire in sede di controllo l’effettiva determinazione dell’imponibile. Talché il testuale riferimento dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973 alla non rilevabilità (come visto) delle operazioni dalle “scritture contabili” (“[…] sempreché non risultino dalle scritture contabili”), non rivela alcuna incompatibilità né logica né strutturale né propriamente contabile- fiscale con la tenuta della contabilità in forma semplificata.

4.2.3 Alla luce di quanto precede, trova precipua giustificazione l’acuta precisazione della CTR nella sentenza impugnata, del tutto ignorata in ricorso, secondo cui, alla base delle riprese oggetto dell’avviso, “stanno accertamenti bancari” condotti “con metodo induttivo basato sulla somma di accrediti e addebiti[,] che hanno movimentato i conti oggetto di controllo[,] non riconciliabili con le sculture di impresa”. Proprio siffatta non riconciliabilità, infatti, rende conto – oltreché dell’istituzione, da parte del contribuente (come d’altronde non avrebbe potuto non essere) della contabilità, segnatamente quanto all’Iva – altresì della sostanziale inattendibilità della stessa, siccome – alla stregua di un accertamento in fatto della CTR in sé neppure censurato – non corrispondente alle risultanze bancarie, con conseguente integrazione esattamente del ridetto presupposto dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973 a proposito della non rilevabilità delle poste di conto dalle “scritture contabili”.

5. In considerazione di quanto precede, il ricorso deve essere integralmente rigettato.

Le spese, che seguono la soccombenza, sono liquidate secondo Tariffa come in dispositivo. Deve dichiararsi il ricorrente tenuto al pagamento del doppio contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in euro 10.000,00, oltre spese prenotate a debito. Dichiara il ricorrente tenuto al pagamento del doppio contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. Così deciso a Roma, lì 12 luglio 2022

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