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Accertamento annullato a una società a ristretta base azionaria: automaticamente decade anche quello per il maggior reddito di partecipazione emesso al socio

Tributi – Imposte – Accertamento – Notificazione degli atti – Avviso – Utili extracontabili – Attribuzione ai soci –  Presunzione – Conseguenze – Infondatezza  – Annullamento

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 28204 del 31 ottobre 2024, intervenendo sul tema che ha riguardato un vizio dell’accertamento tributario emesso nei confronti di una società a ristretta base azionaria, con le implicazioni sulla distribuzione degli utili extracontabili ai soci e con le

conseguenze legali di una sentenza di annullamento di tale attribuzione, ha richiamato il recente principio di diritto già formulato dalla stessa Corte, che recita: “… In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la validità dell’avviso in ordine a ricavi non contabilizzati, emesso a carico di società di capitali a ristretta base partecipativa, costituisce presupposto indefettibile per legittimare la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, con la conseguenza che l’annullamento dello stesso con sentenza passata in giudicato per vizi attinenti al merito della pretesa tributaria, avendo carattere pregiudicante, determina l’illegittimità dell’avviso di accertamento, notificato al singolo socio, che ipotizzi la percezione di maggiori utili societari; tale carattere pregiudicante non si rinviene, invece, nelle ipotesi di annullamento per vizi del procedimento (nella specie per inesistenza della notifica e per errata intestazione dell’avviso), le quali danno luogo ad un giudicato formale, e non sostanziale, difettando una pronuncia che revochi in dubbio l’accertamento sulla pretesa erariale. Nel caso di specie il rilevato vizio dell’accertamento tributario emesso nei confronti della società, che investe la fondatezza, nel merito, della pretesa erariale, e su cui è caduto il giudicato, fa sì che nessuna rilevanza possa essere attribuita allo stesso, con la conseguenza che pure l’accertamento del reddito di partecipazione emesso nei confronti del socio non può che essere annullato. (v. Sent. 7756/2024)”.

Gli accertamenti di carattere prevalentemente induttivo emessi dall’Agenzia delle entrate, destinati a società a ristretta base azionaria, hanno interessato da qualche anno numerosi comparti societari, alimentando spesso un contenzioso che non può tuttavia prescindere da una serie di punti fermi dettati dalla giurisprudenza di legittimità formatasi negli ultimi anni, che ha reso sempre più difficile e complessa l’articolazione della prova contraria incombente sulla società accertata ma anche sui soci, finalizzata a delegittimare le pretese dell’Amministrazione finanziaria.

Dal punto di vista tributario, generalmente esiste una netta distinzione tra la società di capitali e i soci che ne fanno parte, per cui l’imputazione degli utili si realizza attraverso una formale deliberazione dell’assemblea dei soci, che ne fissa anche i limiti.

Ricordiamo anche che, di regola, il provvedimento tributario si qualifica come atto autoritativo non discrezionale, e ciò dipende dal fatto che, nel rapporto con l’amministrazione fiscale il contribuente versa ordinariamente in una situazione giuridica di diritto soggettivo e non di interesse legittimo, a cagione della riserva relativa di legge di cui all’art. 23 Cost. e del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.

L’amministrazione, quindi, pur esercitando un potere pubblicistico, è vincolata all’applicazione della legge, che prestabilisce in forma rigida e puntuale il presupposto del tributo e le sue modalità di liquidazione e di riscossione. Tuttavia, la tutela giurisdizionale soggiace a rigorosi termini decadenziali, del tutto simili a quelli previsti per la tutela degli interessi legittimi, giustificati dall’esigenza di dare certezza a un particolare rapporto giuridico e, comunque, tali da non rappresentare un ostacolo irragionevole o sproporzionato all’esercizio dell’azione.

La combinazione di questi elementi (la posizione di diritto soggettivo vantata dal privato, la natura vincolata del provvedimento e il termine perentorio dell’azione) conforma il processo tributario secondo lo schema della “impugnazione-merito”, in base al quale il giudice è titolato a decidere sul rapporto sottostante l’atto viziato con una decisione sostitutiva di questo.

Al contrario, se il potere fosse discrezionale un tale sindacato devolutivo sarebbe precluso al giudice tributario, rappresentando un inammissibile sconfinamento sul merito della scelta, riservato in via esclusiva al potere esecutivo.

Nel corso degli anni, quando l’Agenzia provvedeva a controllare una società a ristretta base azionaria, emettendo in concomitanza anche avvisi di accertamento nei confronti dei singoli soci, legittimava la pretesa impositiva sulla base di una sorta di equiparazione implicita tra la società di persone e la società a ristretta base azionaria partecipativa; questo, in quanto i giudici del Palazzaccio avevano precisato che il presupposto in base al quale è da ritenersi legittimo presumere che vengano distribuiti ai soci gli utili extracontabili, accertati alla società di capitali a ristretta base azionaria, era ravvisabile fisiologicamente nella stessa tipologia di società caratterizzata da un numero esiguo di soci compartecipi, nonché dall’imprescindibile vincolo di solidaristico esistente tra loro, che pertanto porta ciascuno dei soci a conoscere gli affari societari attraverso un reciproco controllo dell’attività societaria.

Conseguentemente, anche l’ufficio impositore riteneva automatico e pertanto legittimo accertare le maggiori imposte non versate, non solo nei confronti della società di capitali ma anche direttamente nei confronti dei singoli soci con partecipazione qualificata. Pertanto, la ridotta compagine sociale che da sempre caratterizza questa tipologia di società a ristretta base azionaria, rappresentava una peculiarità che legittimava la presunzione vantata dall’ufficio in ordine alla possibile o, meglio, più che probabile distribuzione tra i soci stessi di utili extra contabili riconducibili alla società.

Tuttavia, come già segnalato, la stessa Corte di Cassazione nelle sue ultime pronunce ha evidenziato alcune circostanze che, in fase di articolazione della prova ex art. 2697, comma 2, c.c. potrebbe permettere al socio di dimostrare la propria estraneità rispetto a una possibile distribuzione di utili extra contabili riconducibili alla società di capitali, poiché la stessa disciplina delle categorie di illegittimità dell’atto tributario è stata introdotta solo con la riforma dello Statuto dei diritti del contribuente (D.lgs. 219/2023), attesa anche l’inapplicabilità della normativa generale di cui alla legge 241/1990, a causa dello specifico divieto posto dall’art. 13, comma 2, oltre che della differente struttura dell’atto e del processo tributario.

La giurisprudenza, sino al recente passato, riconduceva la patologia del provvedimento alla sola annullabilità, mentre la nullità era ritenuta incompatibile con la materia tributaria, avendo il legislatore, nella sua lata discrezionalità, configurato “una categoria unitaria d’invalidità-annullabilità”, col correlato onere per il contribuente di impugnare l’atto viziato entro un breve termine decadenziale, pena il definitivo consolidarsi della pretesa. Di conseguenza, le ipotesi di nullità testuale, pur presenti nel diritto tributario, venivano equiparate in tutto e per tutto alle cause di illegittimità, dando luogo, quale unico rimedio conosciuto dal diritto tributario, all’annullamento del provvedimento e all’eventuale successivo esame del merito della pretesa erariale.

L’annullabilità  prevista dall’art. 7-bis del novellato Statuto del contribuente, deriva quindi  da una “…violazione di legge, ivi incluse le norme sulla competenza, sul procedimento, sulla partecipazione del contribuente e sulla validità degli atti”.

Deve trattarsi, però, di una violazione di un adempimento formale essenziale ai fini del rispetto della situazione giuridica del contribuente, che determina un vulnus di gravità tale da precludere al giudice l’esame del merito della pretesa tributaria, al fine di ricondurla alla misura ritenuta corretta, mediante una motivata valutazione sostitutiva.

A differenza della nullità, l’annullabilità dev’essere dedotta, a pena di decadenza, con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e non è rilevabile d’ufficio.

In sintesi, la riforma del 2023 ha regolato alcune cause di annullabilità dell’atto, tra cui, appunto, la violazione dell’obbligo di motivazione, di cui al nuovo art. 7 dello Statuto del contribuente.

Gli utili extracontabili, come rilevabili dall’accertamento, si riferiscono in definitiva a quei profitti distribuiti dai soci che non sono stati contabilizzati ufficialmente e possono derivare da attività non registrate o da gestione di risorse al di fuori delle normali pratiche contabili, e sono in grado di comportare diverse implicazioni legali, soprattutto se tale attribuzione avviene senza il rispetto delle normative e delle procedure previste dal diritto societario. Una distribuzione non autorizzata può violare il principio di correttezza e trasparenza nei confronti di tutti i soci.

Comunque, se un accertamento tributario risulta viziato e non può essere considerato valido a causa di un giudicato, questo avrà un impatto diretto anche sull’accertamento del reddito di partecipazione emesso nei confronti dei soci; inoltre, quando un accertamento tributario viene accolto in una sede giurisdizionale e viene dichiarato nullo o viziato, tutte le conseguenze che ne derivano, compreso l’accertamento del reddito di partecipazione ai soci, devono essere riconsiderate o annullate.

Ciò è dovuto al principio di “relatività degli effetti del giudicato”, secondo il quale un atto giuridico (in questo caso, l’accertamento tributario) non può avere effetti su situazioni che si basano sulla sua validità. Difatti, la relatività degli effetti del giudicato è un principio giuridico che implica che la cosa giudicata (cioè, una decisione definitiva di un tribunale) produce effetti vincolanti soltanto per le parti coinvolte nel processo e nei limiti del contenuto del provvedimento: in altre parole, solo le parti che hanno partecipato alla causa possono essere vincolate dalla sentenza.

Se una sentenza passata in giudicato annulla l’accertamento di tali utili, per motivi legati al merito della pretesa tributaria, si può considerare che tale annullamento, avendo carattere pregiudicante per le posizioni fiscali dei soci coinvolti, possa comportare l’illegittimità dell’atto di accertamento.

Questo significa che, venendo meno la base giuridica dell’attribuzione degli utili, i soci non possono essere considerati responsabili per l’imposizione fiscale derivante da tali utili non contabilizzati. In pratica, gli effetti di una simile sentenza possono risultare significativi, poiché i soci potrebbero non dover subire conseguenze fiscali negative in relazione a utili che non sono stati realmente riconosciuti e attribuiti correttamente.

Nei fatti odierni gli Ermellini hanno così ribadito che nel caso di una distribuzione di utili non dichiarati a società a ristretta base azionaria, è pacifica la pregiudizialità della controversia riguardante l’avviso di accertamento a carico della società. Se, infatti, cade questo perché si esclude la legittimità dell’accertamento tributario nei confronti della società, giocoforza cade l’accertamento a carico dei soci, che è a cascata,  dipendendo gli utili dei soci dai redditi non dichiarati dalla società.

Nell’ordinamento generale, la questione è regolata dall’articolo 2909 del Codice civile, che stabilisce il principio della cosa giudicata, enfatizzado come una sentenza abbia efficacia erga omnes soltanto in determinate circostanze, come nel caso di sentenze di accertamento di diritti reali o in alcune situazioni di litispendenza.

La Corte aveva infatti già avuto occasione di chiarire che “… nel giudizio di cassazione, il giudicato esterno è, al pari del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla sentenza impugnata; in tal caso, infatti, la produzione del documento che lo attesta non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 c.p.c., che è limitato ai documenti formatisi nel corso del giudizio di merito, ed è, invece, operante ove la parte invochi l’efficacia di giudicato di una pronuncia anteriore a quella impugnata, che non sia stata prodotta nei precedenti gradi del processo” (v. Cass. Sent. n. 1534/2018).

In conclusione, se l’accertamento tributario nei confronti della società è stato annullato per vizio, i soci non possono essere ritenuti responsabili delle conseguenze fiscali associate a un reddito di partecipazione fondato su un atto nullo, e pertanto l’accertamento del reddito di partecipazione deve essere anch’esso annullato, come peraltro era indicato nella citata sentenza n. 7756/2024, che recitava: “…in caso di distribuzione di utili non dichiarati a società a ristretta base azionaria è pacifica la ‘pregiudizialità’ della controversia riguardante l’avviso di accertamento a carico della società. Se, infatti, cade questo perché si esclude la legittimità dell’accertamento tributario nei confronti della società, giocoforza cade l’accertamento a carico dei soci, che è a ‘cascata’ dipendendo gli utili dei soci dai redditi non dichiarati dalla società”.

Tanto premesso, e tornando ai fatti oggi in discussione, un contribuente, ricevuto l’avviso di accertamento con il quale l’ufficio gli contestava un maggior reddito di capitale, derivante dalla partecipazione a società di capitali a ristretta base societaria, nei cui confronti erano stati accertati maggiori utili, si rivolgeva alla giustizia tributaria sino a giungere alla sentenza della Commissione Tributaria Regionale che, in riforma della pronuncia di primo grado, annullava l’avviso di accertamento societario presupposto in quanto infondato nel merito.

L’Agenzia delle entrate, con un nuovo impulso, ricorreva alla Cassazione presentando il ricorso composto da due motivi, in cui essenzialmente sottolineava che i giudici tributari avevano applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, attribuendo cioè l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata. Gli Ermellini non hanno condiviso l’interpretazione fornita dall’Avvocatura erariale, anzi hanno affermato che: “… Preliminarmente, si rileva che, con la memoria ex art. 380.1 bis cod. proc. civ., depositata in prossimità della presente adunanza, A.A. ha prodotto l’ordinanza n. 8020 del 25/03/2024, con cui questa Corte di cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sez. staccata di Salerno, n. 10903/2016 del 5 dicembre 2016, che, in riforma della pronuncia di primo grado, ha annullato l’avviso di accertamento societario presupposto in quanto infondato nel merito. 4. Tanto premesso, va richiamato il principio di diritto formulato da questa Corte secondo cui “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la validità dell’avviso in ordine a ricavi non contabilizzati, emesso a carico di società di capitali a ristretta base partecipativa, costituisce presupposto indefettibile per legittimare la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, con la conseguenza che l’annullamento dello stesso con sentenza passata in giudicato per vizi attinenti al merito della pretesa tributaria, avendo carattere pregiudicante, determina l’illegittimità dell’avviso di accertamento, notificato al singolo socio, che ipotizzi la percezione di maggiori utili societari; tale carattere pregiudicante non si rinviene, invece, nelle ipotesi di annullamento per vizi del procedimento (nella specie per inesistenza della notifica e per errata intestazione dell’avviso), le quali danno luogo ad un giudicato formale, e non sostanziale, difettando una pronuncia che revochi in dubbio l’accertamento sulla pretesa erariale” (Cass. sez. V, n. 752 del 19/01/2021, richiamata di recente da Cass., Sez. T, n. 7756 del 22/03/2024).  4.1. Nel caso di specie il rilevato vizio dell’accertamento tributario emesso nei confronti della società, che investe la fondatezza, nel merito, della pretesa erariale, e su cui è caduto il giudicato, fa sì che nessuna rilevanza possa essere attribuita allo stesso, con la conseguenza che pure l’accertamento del reddito di partecipazione emesso nei confronti del socio non può che essere annullato”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 31 ottobre 2024, n. 28204

sul ricorso iscritto al n. 11868/2017 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata ex lege in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende

– ricorrente –

Contro A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA F. SIACCI 4, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO VOGLINO rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO BENINCASA

– controricorrente –

 avverso SENTENZA di COMM.T RIB. REG. CAMPANIA SEZ. DIST. SALERNO n. 10906/2016 depositata il 05/12/2016.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/10/2024 dal Consigliere Gian Paolo Macagno.

1. In controversia afferente alla impugnazione, da parte di A.A. dell’avviso di accertamento per l’anno 2009, con il quale l’Ufficio contestava un maggior reddito di capitale, derivante dalla partecipazione a società di capitali a ristretta base societaria, nei cui confronti erano stati accertati maggiori utili, per aver acquistato (per rivenderle) merci da operatori unionali omettendo di dichiarare i redditi corrispondenti, l’Agenzia delle entrate ricorre con due motivi e resiste il contribuente, che, in prossimità dell’adunanza, ha depositato memoria difensiva.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1. nn. 3 e 4 cod. proc. civ., la “violazione del combinato disposto del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1 e dell’art. 295 c.p.c.”.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. la “Violazione dell’art. 2279 c.c., dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115, comma 1, c.p.c.”

3. Preliminarmente, si rileva che, con la memoria ex art. 380.1 bis cod. proc. civ., depositata in prossimità della presente adunanza, A.A. ha prodotto l’ordinanza n. 8020 del 25/03/2024, con cui questa Corte di cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sez. staccata di Salerno, n. 10903/2016 del 5 dicembre 2016, che, in riforma della pronuncia di primo grado, ha annullato l’avviso di accertamento societario presupposto in quanto infondato nel merito.

4. Tanto premesso, va richiamato il principio di diritto formulato da questa Corte secondo cui “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la validità dell’avviso in ordine a ricavi non contabilizzati, emesso a carico di società di capitali a ristretta base partecipativa, costituisce presupposto indefettibile per legittimare la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, con la conseguenza che l’annullamento dello stesso con sentenza passata in giudicato per vizi attinenti al merito della pretesa tributaria, avendo carattere pregiudicante, determina l’illegittimità dell’avviso di accertamento, notificato al singolo socio, che ipotizzi la percezione di maggiori utili societari; tale carattere pregiudicante non si rinviene, invece, nelle ipotesi di annullamento per vizi del procedimento (nella specie per inesistenza della notifica e per errata intestazione dell’avviso), le quali danno luogo ad un giudicato formale, e non sostanziale, difettando una pronuncia che revochi in dubbio l’accertamento sulla pretesa erariale” (Cass. sez. V, n. 752 del 19/01/2021, richiamata di recente da Cass., Sez. T, n. 7756 del 22/03/2024).

4.1. Nel caso di specie il rilevato vizio dell’accertamento tributario emesso nei confronti della società, che investe la fondatezza, nel merito, della pretesa erariale, e su cui è caduto il giudicato, fa sì che nessuna rilevanza possa essere attribuita allo stesso, con la conseguenza che pure l’accertamento del reddito di partecipazione emesso nei confronti del socio non può che essere annullato.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.

Rilevato che risulta soccombente l’Agenzia delle Entrate, ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. n. 30 maggio n. 115, art. 13 comma 1-quater, (Cass. 29/01/2016, n. 1778).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2024

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