CASSAZIONE

Accertamenti bancari anche sui conti del lavoratore dipendente

Tributi – IRPEF –  Indagini finanziarie – Accertamenti bancari a carico di lavoratori dipendenti – Art. 32, DPR n. 600 del 1973 – Presunzione legale – Maggior reddito – Movimentazioni dei conti correnti bancari non giustificate – Applicabilità

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10187 del 30 marzo 2022 è intervenuta sul tema, piuttosto dibattuto, della presunzione legale di cui all’art. 32 del DPR 600/1973, cioè sulla disponibilità di maggiore reddito desumibile dalle risultanze dei conti correnti bancari, per dichiarare che essa può svolgersi anche nei confronti dei lavoratori dipendenti e non solo dei titolari di redditi d’impresa o esercenti arti e professioni.

La decisione è motivata dal fatto che la presunzione di legge riguarda la generalità dei contribuenti, ribadendo il principio per cui la disciplina in esame non si applica ai soli soggetti esercitanti attività d’impresa commerciale, agricola, artistica o professionale, ma: “… si estende alla generalità dei contribuenti, come è reso palese dal richiamo, operato dal citato art.32, anche all’art. 38 del medesimo d.P.R., riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche (attinente ad ogni tipologia di reddito di cui esse siano titolari)”. In effetti il co. 1, n. 2 del citato art.32 prevede che i dati, notizie e informazioni acquisite nell’ambito delle indagini finanziarie “sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine”.

In buona sostanza gli Ermellini ricordano che l’attività di verifica non riguarda solo i rapporti bancari di imprese e professionisti, ma anche quelli dei lavoratori dipendenti e, pertanto, è da considerarsi pienamente legittima l’indagine finanziaria compiuta anche nei confronti del contribuente che non svolga alcuna attività d’impresa o professione e al quale, comunque, spetterà l’onere di fornire la prova di aver tenuto conto dell’importo contestato in fase di dichiarazione dei redditi.

In definitiva, si può affermare che il fisco può contestare come ricavi in nero i versamenti ingiustificati sul conto di qualsiasi contribuente. 

Il nocciolo dell’odierno contendere, sostanzialmente, ruota intorno agli accertamenti che possono essere effettuati sul conto corrente del contribuente, soprattutto quando l’accertamento bancario viene effettuato sulla ricostruzione delle movimentazioni finanziarie che non sono state giustificate dal titolare del rapporto bancario. Per l’accertamento delle imposte sui redditi si prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi chenon sono riferibili ai soli titolari di reddito d’impresa o di lavoro autonomo ma, ripetiamo, si estendono alla generalità dei contribuenti, come dimostra una vasta giurisprudenza.

Nella specifica produzione giurisprudenziale, infatti ricordiamo tra le molte Cass. n. 22514/2013, Cass. n. 1519/ 2017 e Cass. n. 2432//2017, soffermandoci in particolare sulla sentenza n. 2432/2017, nella quale la Suprema Corte anticipava le odierne conclusioni affermando esplicitamente che: “ … La presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari a norma dell’art. 32 comma 1 n. 2 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o di reddito di lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti come è reso palese dal richiamo, operato dal citato art. 32, anche all’art. 38 del medesimo d.P.R., riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche (attinente ad ogni tipologia di reddito di cui esse siano titolari)”.

In buona sostanza, con l’odierna pronuncia gli Ermellini hanno meramente ribadito che il fisco può contestare come ricavi in nero i versamenti ingiustificati anche sul conto dell’impiegato dipendente, fermo restando che viene sempre consentito al contribuente sottoposto a indagine di dimostrare in maniera analitica l’estraneità di tali operazioni: spetterà poi al giudice di merito verificare l’efficacia dimostrativa di tali prove ai fini del superamento della presunzione legale.

Il tema ha conosciuto nel tempo anche una intensa querelle sull’illegittimità costituzionale della presunzione legale dei prelievi dei professionisti, generando numerose perplessità in merito alla sua rispondenza ai principi costituzionali, con particolare riguardo a quello della ragionevolezza (v. Cass. 26111 del 2015 e n. 21800 del 2017; Cass. n. 5152, n. 5153, n. 19807 e n. 19806 del 2017, n. 18065, n. 18066, n. 18067, n. 16686, n. 16699, n. 16697, n. 11776, n. 6093 del 2016; Ord. n. 7453, n. 9078 e n. 19029 del 2016).

Peraltro i Supremi giudici del Palazzaccio si sono uniformati al dettato della sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 6 ottobre 2014, che ha rappresentato un caso aperto del diritto tributario, sul tema della legittimità costituzionale della presunzione di imponibilità per i prelevamenti sul conto corrente bancario con riguardo ai lavoratori autonomi. In tale pronuncia la Consulta ha sostenuto che “in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione non contabilizzata o non fatturata di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati”. L’attività svolta dai lavoratori autonomi, affermano i giudici costituzionali, si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo. Tale marginalità assume poi differenti gradazioni a seconda della tipologia di lavoratori autonomi, sino a divenire quasi assenza nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali. A conforto di ciò, il Giudice delle leggi ha aggiunto due valutazioni correlate al sistema degli obblighi formali imposti ai professionisti che connotano la non ragionevolezza della presunzione legale:

a) “gli eventuali prelevamenti (che peraltro dovrebbero essere anomali rispetto al tenore di vita secondo gli indirizzi dell’Agenzia delle entrate) vengono ad inserirsi in un sistema di contabilità semplificata; assetto contabile da cui deriva la fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali”;

b) “la tracciabilità del denaro, oltre ad essere uno strumento di lotta al riciclaggio di capitali di provenienza illecita, persegue il dichiarato fine di contrastare l’evasione o l’elusione fiscale attraverso la limitazione dei pagamenti effettuati in contanti che si possono prestare ad operazioni in nero”.

Alla luce di tali argomentazioni, viene così enucleato il principio di diritto secondo cui “la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché di capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”.

Da ciò ne consegue che i prelevamenti finanziari compiuti dai titolari di un reddito di lavoro autonomo non possono essere più considerati automaticamente come elementi fondanti di una ricostruzione congetturale circa la produzione di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale, essendo stata riconosciuta l’illegittimità della presunzione legale. Ovviamente, predetti movimenti finanziari possono essere utilizzati come elementi di fatto da assumere nello schema logico di una presunzione semplice, cui ricorrere nell’ambito dei metodi di accertamento tributario per la ricostruzione induttiva della posizione reddituale del contribuente; in tale ipotesi, la presunzione dovrà avere i requisiti richiesti dalla disciplina dell’accertamento tributario e, pertanto, presentare i caratteri di precisione, gravità e concordanza richiesti per le presunzioni semplici nell’accertamento contabile.

In particolare, i Giudici di legittimità nell’ordinanza in esame (Ord. n. 24152/2021) hanno precisato che la Corte di Cassazione ha già fatto molte volte applicazione della sentenza Corte Costituzionale n. 228 del 2014, affermando che “In tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 32 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti” (Cass. Sent. n. 16697/2016; Cass. Ord. n. 22931/2018).

Tanto premesso, il Supremo Consesso ha rammentato che in materia di accertamento delle imposte sui redditi, per superare la presunzione posta in capo al contribuente ex art. 32, DPR 600/1973, in virtù della quale i prelevamenti e i versamenti operati su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa, non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul proprio conto corrente, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività (Cass. Sez. 5, n. 4829 del 11/03/2015).

Anche più recentemente la S.C. è intervenuta, con l’ordinanza n. 24152/2021, per ribadire il proprio orientamento sulle presunzioni bancarie, in questo caso solo relative a quelle dei professionisti, sottolineando che esse si applicano ai soli versamenti operati sul proprio conto corrente. Il fondamento economico-contabile di tale meccanismo è stato ritenuto congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi.

Infine, facendo riferimento alla distribuzione dell’onere probatorio tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria, il Supremo Consesso ha ribadito che quest’ultima deve individuare movimenti finanziari in maniera analitica e puntuale e chiarire il nesso inferenziale con la produzione di reddito. Tocca invece al contribuente fornire una prova contraria analitica circa la produzione di reddito imponibile con riguardo agli specifici movimenti finanziari. Per tale onere probatorio un ruolo fondamentale è assunto dalla motivazione dell’atto di accertamento, attraverso cui l’ufficio deve considerare adeguatamente gli elementi di prova (anche indiziaria) forniti dal contribuente in sede procedimentale e illustrare le ragioni giuridiche che hanno portato all’applicazione della presunzione bancaria.  

Tornando alla vicenda in questione, che ricordiamo si riferisce all’esame del cd “accertamento bancario” fondato sulla ricostruzione delle movimentazioni finanziarie non giustificate dal contribuente, essa ha inizio quando l’Agenzia delle entrate emetteva un avviso di accertamento IRPEF contenente il maggior reddito imponibile determinato sulla base delle risultanze delle indagini finanziarie condotte sui conti correnti del contribuente. Il ricorso proposto dal contribuente giungeva fin in CTR e in questa sede i giudici, accogliendo l’appello del contribuente, annullavano l’avviso di accertamento ritenendo che la presunzione legale di disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari, non operasse nei confronti dei lavori subordinati, quale è il contribuente.

L’ufficio finanziario ha proposto ricorso per cassazione, deducendo come motivo principale violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del DPR 600/1973, lamentando violazione e falsa applicazione del menzionato art. 32 e dell’art. 2697 c.c.

Doglianza giudicata fondata dalla Corte di Cassazione, la quale, sul punto, ha richiamato il consolidato orientamento secondo cui “… E’ orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui «la limitazione […] dell’ambito applicativo della disciplina in esame», ovvero di quella relativa agli accertamenti bancari, «ai soli soggetti “esercitanti attività d’impresa commerciale, agricola, artistica o professionale” è priva di qualsivoglia riscontro normativo» (Cass. n. 22514 del 2013). Principio ribadito anche da Cass. n. 1519 del 2017 e Cass. n. 2432 del 31/01/2017 secondo cui «La presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari a norma dell’art.32 comma 1 n.2 del d.P.R. 29 settembre 1973 n.600, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o di reddito di lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come è reso palese dal richiamo, operato dal citato art.32, anche all’art. 38 del medesimo d.P.R., riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche (attinente ad ogni tipologia di reddito di cui esse siano titolari)» (in termini già Cass. n. 19692 del 2011, in motivazione; conf. anche Cass. n. 2432 del 2017 e Cass. n. 29572 del 2018).  Ne consegue che la statuizione impugnata, che a tali principi non si è attenuta, va cassata con rinvio alla CTR che rivaluterà la vicenda processuale tenendo conto, in tema di onere della prova e di verifica giudiziale in materia di accertamenti bancari a carico di lavoratori dipendenti, il consolidato insegnamento di questa Corte secondo cui la presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973 dettata in materia di imposte sui redditi (secondo la quale gli importi riscossi nell’ambito di rapporti bancari, in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi degli artt. 38-41 dello stesso decreto, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell’imponibile), omologa a quella stabilita dall’art. 51, comma 2, n. 2, d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di IVA, consentendo di riferire a redditi imponibili, conseguiti nell’attività economica svolta dal contribuente, tutti i movimenti bancari rilevati dal conto, qualificando gli “accrediti” come ricavi; trattasi di presunzione legale “juris tantum” che consente di considerare come ricavo riconducibile all’attività professionale del contribuente qualsiasi accredito riscontrato sul conto corrente del medesimo, e comportante l’inversione dell’onere della prova, spettando a quest’ultimo di superare detta presunzione offrendo la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all’uopo che venga indicato e dimostrato dal contribuente la provenienza dei singoli versamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti (arg. da Cass. 26111 del 2015 e n. 21800 del 2017; conf. Cass. n. 5152, n. 5153, n. 19807 e n. 19806 del 2017, n. 18065, n. 18066, n. 18067, n. 16686, n. 16699, n. 16697, n. 11776, n. 6093 del 2016; Sez. 6-5, ord. n. 7453, n. 9078 e n. 19029 del 2016); con specifico riferimento al contenuto dell’onere probatorio gravante sul contribuente si è affermato che lo stesso ha l’onere di dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, e, a tal fine, deve fornire non una prova generica, ma una prova analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014) ed il giudice di merito è tenuto alla rigorosa verifica dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, rifuggendo da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie, in quanto il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza dal fatto certo a quello incerto è già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale (Cass. 21800 del 2017). Conclusivamente, quindi, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR territorialmente competente per nuovo esame, da condursi alla stregua dei superiori principi giurisprudenziali, e per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 30 marzo 2022, n. 10187

sul ricorso iscritto al n. 143/2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. 06363391001, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro G. Enrico, rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Francesco NOTO ed elettivamente domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte di cassazione;

– controricorrente —

avverso la sentenza n.3831-2018-01 della Commissione tributaria regionale della CALABRIA, depositata il 22/11/2018),

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/12/2021 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

Rilevato che

1. In controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento di maggiori redditi ai fini IRPEF per l’anno di imposta 2009, emersi a seguito di verifica delle movimentazioni dei conti correnti bancari intestati al contribuente Enrico G., con la sentenza in epigrafe indicata la CTR accoglieva l’appello proposto da quest’ultimo ed annullava l’avviso di accertamento ritenendo che la presunzione legale di disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari, non operasse nei confronti dei lavori subordinati, quale è il contribuente.

2. Avverso tale statuizione l’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione sulla base di un unico motivo, cui replica l’intimato con controricorso.

3. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale il controricorrente ha depositato memoria.

Considerato che

1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione del controricorrente di inammissibilità del ricorso perché tardivamente proposto, in data 19/12/2019 e quindi ben oltre il termine semestrale di cui all’art. 327 cod. proc. civ. decorrente dal 22/11/2018, di pubblicazione della sentenza d’appello.

2. L’eccezione è palesemente infondata.

Precisato, preliminarmente, che il ricorso per cassazione è stato notificato in data 12/12/2019, come emergente dalla ricevuta di accettazione del messaggio di posta elettronica certificata allegata al ricorso, il controricorrente non considera che al giudizio in esame va applicato il termine di sospensione di nove mesi di cui all’art. 6, comma 11, del d.l. 119 del 2018, convertito con modificazioni dalla legge n. 136 del 2018, trattandosi di impugnazione il cui termine andava a scadere il 22/06/2019 (e quindi entro la forbice prevista dalla disposizione in esame) e di controversia attribuita alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’Agenzia delle entrate, avente ad oggetto un atto impositivo (comma 1 del citato art. 6).

3. Passando, quindi, al merito del ricorso, con il mezzo di cassazione la difesa erariale deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 2697 cod. civ., sostenendo che aveva errato la CTR nel ritenere che nei confronti dei lavoratori dipendenti non operasse la presunzione legale posta dal citato art. 32. 4.

Il motivo è manifestamente fondato e va accolto.

5. E’ orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui «la limitazione […] dell’ambito applicativo della disciplina in esame», ovvero di quella relativa agli accertamenti bancari, «ai soli soggetti “esercitanti attività d’impresa commerciale, agricola, artistica o professionale” è priva di qualsivoglia riscontro normativo» (Cass. n. 22514 del 2013).

Principio ribadito anche da Cass. n. 1519 del 2017 e Cass. n. 2432 del 31/01/2017 secondo cui «La presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari a norma dell’art.32 comma 1 n.2 del d.P.R. 29 settembre 1973 n.600, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o di reddito di lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come è reso palese dal richiamo, operato dal citato art.32, anche all’art. 38 del medesimo d.P.R., riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche (attinente ad ogni tipologia di reddito di cui esse siano titolari)» (in termini già Cass. n. 19692 del 2011, in motivazione; conf. anche Cass. n. 2432 del 2017 e Cass. n. 29572 del 2018).

5.1. Ne consegue che la statuizione impugnata, che a tali principi non si è attenuta, va cassata con rinvio alla CTR che rivaluterà la vicenda processuale tenendo conto, in tema di onere della prova e di verifica giudiziale in materia di accertamenti bancari a carico di lavoratori dipendenti, il consolidato insegnamento di questa Corte secondo cui la presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973 dettata in materia di imposte sui redditi (secondo la quale gli importi riscossi nell’ambito di rapporti bancari, in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi degli artt. 38-41 dello stesso decreto, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell’imponibile), omologa a quella stabilita dall’art. 51, comma 2, n. 2, d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di IVA, consentendo di riferire a redditi imponibili, conseguiti nell’attività economica svolta dal contribuente, tutti i movimenti bancari rilevati dal conto, qualificando gli “accrediti” come ricavi; trattasi di presunzione legale “juris tantum” che consente di considerare come ricavo riconducibile all’attività professionale del contribuente qualsiasi accredito riscontrato sul conto corrente del medesimo, e comportante l’inversione dell’onere della prova, spettando a quest’ultimo di superare detta presunzione offrendo la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all’uopo che venga indicato e dimostrato dal contribuente la provenienza dei singoli versamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti (arg. da Cass. 26111 del 2015 e n. 21800 del 2017; conf. Cass. n. 5152, n. 5153, n. 19807 e n. 19806 del 2017, n. 18065, n. 18066, n. 18067, n. 16686, n. 16699, n. 16697, n. 11776, n. 6093 del 2016; Sez. 6-5, ord. n. 7453, n. 9078 e n. 19029 del 2016);

con specifico riferimento al contenuto dell’onere probatorio gravante sul contribuente si è affermato che lo stesso ha l’onere di dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, e, a tal fine, deve fornire non una prova generica, ma una prova analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014) ed il giudice di merito è tenuto alla rigorosa verifica dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, rifuggendo da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie, in quanto il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza dal fatto certo a quello incerto è già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale (Cass. 21800 del 2017).

6. Conclusivamente, quindi, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR territorialmente competente per nuovo esame, da condursi alla stregua dei superiori principi giurisprudenziali, e per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale della Calabria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il 16 dicembre 2021

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