CASSAZIONE

Accertamenti “a tavolino” senza termine dilatorio

Accertamento – artt. 32, D.P.R. n. 600/1973 e 51, D.P.R. n. 633/1972 – Controllo delle dichiarazioni e della documentazione contabile del contribuente – Statuto del contribuente – art. 12, co. 7, L. n. 212/2000 – Applicabilità

La Corte di Cassazione con l’Ordinanza numero 34409 del 23 dicembre 2019 conferma che per gli accertamenti cosiddetti “a tavolino” non è previsto il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni dalla sottoscrizione e consegna del processo verbale. Nel caso che il contribuente voglia contestare il mancato rispetto di detto termine ha l’onere di indicare, nel concreto, le questioni che avrebbe potuto dedurre in sede di contraddittorio preventivo.

In buona sostanza, i Giudici di piazza Cavour hanno confermato il più recente orientamento secondo il quale nella legge italiana l’onere del contraddittorio preventivo nel procedimento tributario non è generalizzato, ma esiste solo per i tributi c.d. armonizzati (IVA, accise, imposte sui conferimenti) e a condizione che il contribuente enunci le sue ragioni, mentre per i tributi c.d. non armonizzati (IRPEF, IRES, IRAP) sussiste solo nei casi espressamente previsti dalla legge, ovvero prevalentemente per gli accertamenti conseguenti a verifiche effettuate presso la sede del contribuente, ex art. 12 legge 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente).

L’onere del contraddittorio, pertanto, secondo tale orientamento giurisprudenziale, non sussiste per i c.d. accertamenti a tavolino, ovvero per quelli effettuati negli uffici dell’Amministrazione finanziaria, aventi a oggetto tributi non armonizzati.

La sostanziosa giurisprudenza in merito, che portiamo in aggiunta a quella citata dall’odierna pronunzia (v. ordinanza n. 29153/2017; ordinanza n. 29034/2017; ordinanza n. 28858/2017; ordinanza n. 27373/2017; ordinanza n. 17426/2016), trova conforto nel principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite: “Differentemente dal diritto dell’Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi ‘non armonizzati’, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito” (Cass. 24823/2015).

Le Sezioni Unite hanno quindi precisato che le garanzie fissate nell’art. 12, c. 7, della legge 212/2000, trovano applicazione esclusivamente “in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente”, valutati il dato testuale della rubrica (‘Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali’) e, soprattutto, quello del primo comma dell’art. 12, legge 212/2000 (coniugato con la circostanza che l’intera disciplina contenuta nella disposizione risulta palesemente calibrata sulle esigenze di tutela del contribuente in relazione alle visite ispettive subite in loco) che, esplicitamente, si riferisce agli ‘accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali’, ad operazioni, cioè, che costituiscono categorie d’intervento accertativo dell’Amministrazione tipizzate e inequivocabilmente identificabili.

Parimenti si devono notare anche le non poche critiche che la dottrina e parte della giurisprudenza (v. la sentenza n. 1033/04/2017 della CTR Sicilia) hanno sollevato nei confronti della vigente interpretazione e, in proposito, citiamo la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 2506/2018, con la quale ebbe a dichiarare la nullità dell’avviso di accertamento per violazione degli artt. 24, L. 4/1929 e 12, comma 7, L. 212/2000, in quanto le indagini finanziarie svolte a tavolino sono terminate senza la redazioni del Pvc. In pratica i giudici milanesi ritengono che solo attraverso la formazione di un Pvc, è possibile assicurare il rispetto delle garanzie poste dall’articolo 12, comma 7, della legge 212/2000, che consente al contribuente di formulare all’ufficio le proprie osservazioni e richieste prima della notifica.

Indichiamo per ultimo il parere, piuttosto recente della Corte di Cassazione, che  con la sentenza n. 10652 del 17 aprile 2019 ha confermato che in caso di indagini a tavolino, ove l’accertamento attenga a tributi armonizzati, l’Agenzia è tenuta a rispettare il contraddittorio endoprocedimentale e che la violazione di tale obbligo comporta l’invalidità dell’atto, purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto far valere. Per gli accertamenti ai fini delle imposte dirette non sussiste invece, a oggi, alcun obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale.

Tornando al caso in esame, il ricorso nasce da un avviso di accertamento notificato al contribuente in qualità di socio di una Srl a seguito di indagini svolte sui conti della società, da cui emergeva un finanziamento infruttifero ricevuto dal socio accertato che risultava assolutamente incompatibile con la situazione reddituale dichiarata dallo stesso.

Il ricorso veniva respinto dalla CTP e dalla CTR e il contribuente proponeva appello in Cassazione, lamentando l’omessa redazione e consegna del processo verbale di costatazione a conclusione delle attività ispettive e l’omessa indicazione delle ragioni di motivata urgenza che avrebbero legittimato l’emissione dell’avviso di accertamento senza rispetto del termine di 60 gg. sancito dall’art. 12 della citata legge 212 del 2000.

Secondo la Corte di Cassazione le censure sono infondate perché il verbale delle operazioni compiute è redatto obbligatoriamente solo in caso di accesso presso il contribuente e non sono assoggettate al termine dilatorio previsto dall’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente.

Inoltre, il Collegio di legittimità ha affermato che “… Merita di essere ribadito che, a seguito degli esiti delle indagini svolte nei confronti della società L.C. Srl, le verifiche erano estese anche al socio L.F.A., odierno ricorrente, e deve aggiungersi che l’Agenzia intratteneva con il contribuente, dato non contestato, una ripetuta interlocuzione, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento. L’Ente impositore, peraltro, non effettuava alcun accesso, ispezione o verifica fiscale, nei locali ove il contribuente esercitava l’attività professionale, ed anche questo dato risulta incontestato. Tanto premesso, il ricorrente lamenta la violazione del suo diritto di difesa conseguente alla mancata redazione di un processo verbale di costatazione al termine delle attività di accertamento svolte dall’Amministrazione finanziaria, ed il mancato riconoscimento in suo favore del termine dilatorio di sessanta giorni tra la conclusione delle indagini e l’emissione dell’avviso di accertamento. Le censure appaiono infondate, già in considerazione delle stesse previsioni delle norme richiamate dal contribuente. Il verbale delle operazioni compiute è redatto obbligatoriamente, infatti, solo in caso di accesso presso il contribuente (cfr., ad es. in materia di Iva, da ultimo, Cass. sez. V, 4.4.2018, n. 8246). La Corte di legittimità ha, del resto, anche recentemente confermato che “le garanzie previste dall’art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000, operano esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente, sia pure accompagnati da contestuali indagini finanziarie avviate per via telematica e con consegna di ulteriore documentazione da parte dell’accertato”, Cass. sez. VI-V, ord. 19.10.2017, n. 24636.

Inoltre, questa Corte ha già da tempo chiarito che “gli avvisi di accertamento emessi ai sensi degli artt. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 51 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per effetto del controllo delle dichiarazioni e della documentazione contabile del contribuente, non sono assoggettati al termine dilatorio previsto dall’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, la cui applicazione postula lo svolgimento di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali del contribuente, e non si estende all’ipotesi in cui la pretesa impositiva sia scaturita dall’esame di atti sottoposti all’Amministrazione finanziaria dallo stesso contribuente e da essa esaminati in ufficio”, Cass. sez. VI-V, 9.10.2014, n. 21391. Non trascura, questo Collegio, che la Suprema Corte ha pure deciso che “in tema di accertamento, il termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000 non opera nell’ipotesi di accertamenti c.d. a tavolino, salvo che riguardino tributi “armonizzati” come l’IVA, ipotesi nella quale, tuttavia, il contribuente che faccia valere il mancato rispetto di detto termine è in ogni caso onerato di indicare, in concreto, le questioni che avrebbe potuto dedurre in sede di contraddittorio preventivo”, Cass. sez. VI-V, 29.10.2018, n. 27240, ed occorre in proposito evidenziare che l’odierno ricorrente non ha indicato alcuna specifica questione che avrebbe potuto proporre ove il termine dilatorio gli fosse stato interamente riconosciuto ma, ancor prima, merita di essere ribadito che tra le parti è stato intrattenuto un ripetuto contraddittorio prima dell’emissione dell’avviso di accertamento.I primi due motivi di ricorso devono pertanto essere rigettati.

2.3. – 2.4. – Mediante il terzo ed quarto mezzo di impugnazione il contribuente contesta la decisione adottata dalla CTR per aver ritenuto l’efficacia retroattiva della normativa la quale ha esteso per intero l’applicabilità delle presunzioni in materia di accertamenti bancari, originariamente previste per gli esercenti attività imprenditoriale, anche ai liberi professionisti, e comunque il ricorrente dubita della legittimità costituzionale della disposizione.Invero questa Corte aveva osservato, anche prima della riformulazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi ai sensi degli artt. 32 e 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, i dati raccolti dall’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari di un professionista consentono, in virtù della presunzione contenuta nella detta normativa, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività di lavoro autonomo svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività”, Cass. sez. V, 29.3.2002, n. 4601. Tuttavia, proprio decidendo sulla questione di costituzionalità sollevata dalla Commissione Tributaria del Lazio con l’ordinanza 10.6.2013, n. 27, richiamata dal contribuente, la Consulta ha deciso, con sentenza n. 228 del 2014, che “è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 53 Cost., l’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del Dpr n. 600 del 1973, come modificato dall’art. 1, comma 402, lett. a), n. 1, della legge n. 311 del 2004, limitatamente alle parole ‘o compensi’, apparendo arbitrario ipotizzare che “i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale” (massima ufficiale, n. 38120). Le richieste proposte dal ricorrente nella forma, invero non propria, di cui al quarto motivo di ricorso, risultano pertanto superate dall’intervenuta pronuncia del Giudice delle leggi sul punto.Tanto premesso, preso atto della decisione adottata dalla Corte costituzionale, questo giudice di legittimità ha allora condivisibilmente osservato che “in tema d’imposte sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta l’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2; tuttavia, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti”, Cass. sez. V, 16.11.2018, n. 29752. Il terzo motivo di ricorso deve essere pertanto accolto nei limiti di ragione, con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, sezione staccata di Taranto, perché rinnovi il suo giudizio, nel rispetto dei principi esposti, provvedendo anche a regolare le spese del giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione Ordinanza 23 dicembre 2019, n. 34409

Sul ricorso proposto da:

L.F.A., rappresentato e difeso, giusta procura speciale stesa a margine del ricorso, dall’Avv.to Gianfranco Vecchio, il quale ha indicato recapito PEC, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv.to Alessandro Riccioni, al viale Bruno Buozzi n. 49 in Roma;

– ricorrente –

contro Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 172, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, sezione staccata di Taranto, il 1.10.2013 e pubblicata il 7.10.2013; ascoltata, in camera di consiglio, la relazione svolta dal Consiglier Paolo Di Marzio. 

Fatti di causa

L.F.A. riceveva, il 30.6.2009, l’avviso di accertamento n. RFK010600358, attinente ad Iva, Irap ed Irpef, oltre accessori, notificato dall’Agenzia delle Entrate in relazione all’anno 2004.

L’Agenzia delle Entrate ha chiarito, nel suo controricorso, che l’avviso di accertamento nei confronti dell’odierno ricorrente era stato emesso a seguito di indagini svolte sui conti della società L.C. Srl, da cui si evidenziava un debito della stessa nei confronti dei soci di € 118.525,00 a titolo di finanziamento infruttifero ricevuto, avendo L.F.A., titolare del 50% delle quote sociali, dichiarato nel 2003 e nel 2004 i complessivi esigui redditi di circa € 9.000,00 annui.

Il contribuente impugnava l’atto impositivo innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Taranto, che respingeva il ricorso.

L.F.A. proponeva appello avverso la decisione della CTP innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, Sezione staccata di Taranto, contestando l’omessa redazione e consegna del processo verbale di costatazione a conclusione delle attività ispettive, e comunque l’omessa indicazione delle ragioni di motivata urgenza che avrebbero legittimato l’emissione “di avviso di accertamento senza rispetto del termine di 60 gg. sancito dalla norma” (sent. CTR., p. 2) di cui all’art. 12 della legge n. 212 del 2000. Criticava, inoltre, “la già eccepita illegittimità dell’applicazione retroattiva della disposizione ex art. 32 co. 1°, n. 2, D.P.R. 600/73 nella forma novellata ex finanziaria del 2005 circa i poteri in materia di indagini finanziarie e segnatamente degli accertamenti bancari” (ibidem), nei confronti dei liberi professionisti.

La CTR riteneva “del tutto infondate” le censure proposte dal contribuente e rigettava il suo ricorso.

Avverso la decisione assunta dalla Commissione Tributaria Regionale ha proposto ricorso per cassazione L.F.A., affidandosi a quattro motivi di ricorso. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Ragioni della decisione

1.1. – Con il suo primo motivo di impugnazione, proposto ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., il ricorrente contesta la violazione o falsa applicazione dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, con riferimento all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, per avere la CTR ritenuto legittimo il mancato rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emissione dell’avviso di accertamento.

1.2. – Mediante il suo proprio motivo di ricorso, introdotto anch’esso ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., il contribuente censura la violazione o falsa applicazione, ancora dell’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente (legge n. 212 del 2000), nonché dell’art. 24 della legge n. 4 del 1929, per avere la CTR ritenuto legittima la omessa redazione del Processo Verbale di Costatazione (PVC).

1.3. – Con il suo terzo mezzo d’impugnazione, proposto ancora ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., il ricorrente contesta la violazione o falsa applicazione dell’art. 3, comma 1, della legge n. 212 del 2000, in relazione all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 ed all’art. 1, comma 402, della legge n. 311 del 2004, per avere la CTR ritenuto legittima la integrale utilizzabilità retroattiva delle indagini bancarie svolte nei confronti non di un’impresa, bensì di un libero professionista.

1.4 – Il contribuente lamenta ancora, nella forma del suo quarto motivo di gravame, la illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, come interpretato dalla CTR, in materia di esistenza di una presunzione legale secondo cui i prelevamenti bancari operati dal professionista siano da computarsi quali compensi non dichiarati e domanda, nel caso in cui la Suprema Corte non ritenga di proporre essa la questione di costituzionalità, di voler sospendere il giudizio in attesa della decisione della Consulta sull’incidente di costituzionalità sollevato in materia dalla CTR del Lazio con ordinanza 10.6.2013, n. 27.

2.1. – 2.2. – I primi due motivi di ricorso appare opportuno che siano trattati congiuntamente, attenendo entrambi ad affermate violazioni del diritto di difesa che sarebbero intervenute ancor prima della notifica dell’avviso di accertamento.

Merita di essere ribadito che, a seguito degli esiti delle indagini svolte nei confronti della società L.C. Srl, le verifiche erano estese anche al socio L.F.A., odierno ricorrente, e deve aggiungersi che l’Agenzia intratteneva con il contribuente, dato non contestato, una ripetuta interlocuzione, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento. L’Ente impositore, peraltro, non effettuava alcun accesso, ispezione o verifica fiscale, nei locali ove il contribuente esercitava l’attività professionale, ed anche questo dato risulta incontestato.

Tanto premesso, il ricorrente lamenta la violazione del suo diritto di difesa conseguente alla mancata redazione di un processo verbale di costatazione al termine delle attività di accertamento svolte dall’Amministrazione finanziaria, ed il mancato riconoscimento in suo favore del termine dilatorio di sessanta giorni tra la conclusione delle indagini e l’emissione dell’avviso di accertamento.

Le censure appaiono infondate, già in considerazione delle stesse previsioni delle norme richiamate dal contribuente.

Il verbale delle operazioni compiute è redatto obbligatoriamente, infatti, solo in caso di accesso presso il contribuente (cfr., ad es. in materia di Iva, da ultimo, Cass. sez. V, 4.4.2018, n. 8246). La Corte di legittimità ha, del resto, anche recentemente confermato che “le garanzie previste dall’art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000, operano esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente, sia pure accompagnati da contestuali indagini finanziarie avviate per via telematica e con consegna di ulteriore documentazione da parte dell’accertato”, Cass. sez. VI-V, ord. 19.10.2017, n. 24636.

Inoltre, questa Corte ha già da tempo chiarito che “gli avvisi di accertamento emessi ai sensi degli artt. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 51 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per effetto del controllo delle dichiarazioni e della documentazione contabile del contribuente, non sono assoggettati al termine dilatorio previsto dall’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, la cui applicazione postula lo svolgimento di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali del contribuente, e non si estende all’ipotesi in cui la pretesa impositiva sia scaturita dall’esame di atti sottoposti all’Amministrazione finanziaria dallo stesso contribuente e da essa esaminati in ufficio”, Cass. sez. VI-V, 9.10.2014, n. 21391. Non trascura, questo Collegio, che la Suprema Corte ha pure deciso che “in tema di accertamento, il termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000 non opera nell’ipotesi di accertamenti c.d. a tavolino, salvo che riguardino tributi “armonizzati” come l’IVA, ipotesi nella quale, tuttavia, il contribuente che faccia valere il mancato rispetto di detto termine è in ogni caso onerato di indicare, in concreto, le questioni che avrebbe potuto dedurre in sede di contraddittorio preventivo”, Cass. sez. VI-V, 29.10.2018, n. 27240, ed occorre in proposito evidenziare che l’odierno ricorrente non ha indicato alcuna specifica questione che avrebbe potuto proporre ove il termine dilatorio gli fosse stato interamente riconosciuto ma, ancor prima, merita di essere ribadito che tra le parti è stato intrattenuto un ripetuto contraddittorio prima dell’emissione dell’avviso di accertamento.

I primi due motivi di ricorso devono pertanto essere rigettati.

2.3. – 2.4. – Mediante il terzo ed quarto mezzo di impugnazione il contribuente contesta la decisione adottata dalla CTR per aver ritenuto l’efficacia retroattiva della normativa la quale ha esteso per intero l’applicabilità delle presunzioni in materia di accertamenti bancari, originariamente previste per gli esercenti attività imprenditoriale, anche ai liberi professionisti, e comunque il ricorrente dubita della legittimità costituzionale della disposizione.

Invero questa Corte aveva osservato, anche prima della riformulazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi ai sensi degli artt. 32 e 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, i dati raccolti dall’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari di un professionista consentono, in virtù della presunzione contenuta nella detta normativa, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività di lavoro autonomo svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività”, Cass. sez. V, 29.3.2002, n. 4601.

Tuttavia, proprio decidendo sulla questione di costituzionalità sollevata dalla Commissione Tributaria del Lazio con l’ordinanza 10.6.2013, n. 27, richiamata dal contribuente, la Consulta ha deciso, con sentenza n. 228 del 2014, che “è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 53 Cost., l’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del Dpr n. 600 del 1973, come modificato dall’art. 1, comma 402, lett. a), n. 1, della legge n. 311 del 2004, limitatamente alle parole ‘o compensi’, apparendo arbitrario ipotizzare che “i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale” (massima ufficiale, n. 38120).

Le richieste proposte dal ricorrente nella forma, invero non propria, di cui al quarto motivo di ricorso, risultano pertanto superate dall’intervenuta pronuncia del Giudice delle leggi sul punto.

Tanto premesso, preso atto della decisione adottata dalla Corte costituzionale, questo giudice di legittimità ha allora condivisibilmente osservato che “in tema d’imposte sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta l’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2; tuttavia, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti”, Cass. sez. V, 16.11.2018, n. 29752.

Il terzo motivo di ricorso deve essere pertanto accolto nei limiti di ragione, con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, sezione staccata di Taranto, perché rinnovi il suo giudizio, nel rispetto dei principi esposti, provvedendo anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il terzo motivo di ricorso proposto da L.F.A., assorbito il quarto e rigettati i primi due, cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, sezione staccata di Taranto perché, in diversa composizione, proceda a nuovo giudizio, nel rispetto dei principi innanzi esposti, e provveda anche a regolare le spese di lite del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2019.

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