CASSAZIONE

Abuso del diritto: il Fisco può valutare anche l’eventualità di scelte economiche alternative

Tributi – Abuso del diritto – Fusione per incorporazione – Generazione di disavanzo – Vantaggio fiscale – Elusione illegittima – Condizioni – Onere di prova a carico dell’Ufficio – Difetto di valide ragioni economiche

– Esistenza di un adeguato strumento giuridico alternativo funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico – Reale fungibilità tra le soluzioni

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 31772 del 5 dicembre 2019 torna a interessarsi delle valutazioni necessarie per poter correttamente determinare i confini dell’abuso del diritto, stabilendo che  la prova, sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate.

L’odierna sentenza porta sostanziali elementi di novità nel faticoso confronto di posizioni interpretative sulla materia, che in passato hanno generato alcuni  fraintendimenti giurisprudenziali sulle norme e sui principi ad essa legati.

Ricordiamo, con brevi cenni, il lungo ma interessante iter di chiarimenti sull’abuso del diritto che inizia all’alba del nuovo secolo, con le sentenze n. 3979/2000, 11351/2001 e 3345/2002, quando la Corte di Cassazione stabiliva che potevano essere qualificati come elusivi solo quei comportamenti definiti tali dalla legge; in altre parole, il fenomeno elusivo non era contrastabile se non con le norme antielusive specifiche esistenti nell’ordinamento tributario e che, al di fuori del campo di applicazione di queste ultime, le lacune dell’ordinamento tributario non potevano essere colmate dal giudice. In seguito e in sintonia con le pronunce comunitarie, è emerso per la prima volta nella giurisprudenza della Corte di Cassazione un concetto, quello di abuso del diritto, che da quel momento in poi ha assunto un’importanza fondamentale ai fini del contrasto del fenomeno elusivo.

Secondo la Corte di Giustizia, infatti, è proprio questo il mezzo patologico che consente di realizzare tutti i fenomeni elusivi in ambito fiscale, a livello comunitario: l’abuso delle libertà garantite dai Trattati e, più in generale, dal diritto dell’Unione europea.

Un passo avanti è stato compiuto con la sentenza n. 21221/2006. Con essa, soprattutto al fine di colpire operazioni elusive poste in essere prima dell’introduzione dell’art. 37-bis, DPR 600/1973, la Cassazione ha riconosciuto per la prima volta la diretta applicabilità nell’ordinamento interno del principio dell’abuso del diritto, come elaborato dalla Corte di Giustizia comunitaria nella sentenza Halifax, pronunciata nello stesso anno.

L’indirizzo giurisprudenziale espresso nella sentenza n. 21221/2006 è stato confermato, e anzi precisato, con le sentenze n. 8772 e 10257 del 2008, dove la Suprema Corte ha chiarito espressamente, per la prima volta, la relazione sussistente tra clausola antiabuso di matrice comunitaria e norme antielusive specifiche vigenti nell’ordinamento interno.

Mentre in passato queste ultime erano viste come delle eccezioni rispetto alle leggi d’imposta in quanto volte a impedirne l’elusione, con le sentenze da ultimo citate la Cassazione ha affermato che “l’ottica dei rapporti elusione/norma legislativa si è così ribaltata e le singole norme antielusive vengono invocate non più come eccezioni a una regola, ma come mero sintomo dell’esistenza di una regola”, la quale ultima è rappresentata dal divieto generale di abuso del diritto.

Il fulcro della fattispecie elusiva è divenuto, in questa prospettiva, la mancanza di valide ragioni economiche extrafiscali, unita allo scopo essenziale di conseguire un beneficio tributario indipendentemente dal carattere indebito o meno di quest’ultimo. E sulla base di questa constatazione la citata dottrina ha denunciato che la Corte di Cassazione, con queste e con successive pronunce, ha sconfessato anche la nozione di elusione fiscale ricavabile dal primo comma dell’art. 37-bis, DPR 600/1973 (che pur faceva riferimento al carattere necessariamente indebito dei benefici fiscali, ancorché non desse a questo concetto la giusta enfasi). Infatti, per come è stato interpretato dalla Suprema Corte, l’abuso del diritto di origine comunitaria aveva una portata applicativa e conteneva una nozione di elusione più ampie di quelle desumibili dall’art. 37-bis.

Un’ulteriore tappa dell’evoluzione giurisprudenziale in tema di abuso del diritto è stata segnata dalle “sentenze gemelle” n. 30055, 30056 e 30057, tutte emanate nel 2008, pronunciate dalle Sezioni Unite. Anche queste pronunce hanno affermato l’operatività nell’ordinamento interno di un generale principio antiabuso non scritto, confermando che la fonte iniziale è da recuperare nelle pronunce della Corte di Giustizia relative al settore dei tributi armonizzati.

Tuttavia, per quanto riguarda il settore dei tributi non armonizzati, la fonte di riferimento non è stata più ritrovata nel diritto comunitario, ma piuttosto nei principi legati alla capacità contributiva e alla progressività di cui all’art. 53, Cost. Il richiamo all’art. 53 della Costituzione è stato reso necessario per consentire il contrasto dei comportamenti abusivi non rientranti in nessuna norma antielusiva specifica, ma soprattutto per aprire la via al contrasto di quelle fattispecie che, pur rientranti nel campo di applicazione di specifiche norme antiabuso, erano state poste in essere prima della loro entrata in vigore.

Gli studiosi di economia finanziaria, però, negavano che il concetto di capacità contributiva fosse idoneo a chiarire realmente il significato della disposizione costituzionale, a causa della sua indeterminatezza anche in campo economico. Dal canto suo, la dottrina costituzionalistica e tributaristica negava che tale concetto fosse dotato di un proprio autonomo contenuto normativo, relegando conseguentemente l’art. 53 a semplice direttiva costituzionale rimessa all’apprezzamento del legislatore ordinario.

L’evoluzione immediatamente successiva della giurisprudenza di legittimità ha determinato un tentativo di ridimensionamento non tanto della nozione di abuso del diritto, quanto della sua applicazione pratica, come nella Sentenza n. 20030/2010, riguardante un caso in cui dei contratti agrari erano stati stipulati al fine di eludere il prelievo comunitario sulle quote latte.

Tale pronunzia riprendeva quanto precedentemente affermato dagli Ermellini con la sentenza 21 gennaio 2009 n. 1465, che evidenziava come gravasse sull’Amministrazione finanziaria l’onere di fornire la prova del disegno elusivo e delle modalità di manipolazione o alterazione degli schemi negoziali classici, considerati irragionevoli in una normale logica del mercato. Il contribuente, invece, ha l’onere di allegare e provare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti, di reale spessore, che giustifichino operazioni così strutturate.

Per quanto riguarda la definizione di abuso, è rilevante che con la pronuncia in esame la Cassazione abbia chiarito che lo scopo di conseguire un vantaggio fiscale deve configurarsi come l’elemento predominante e assorbente della condotta. In questo modo il concetto di abuso si pone maggiormente in linea con quello elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, la quale, quanto all’elemento soggettivo, fa riferimento allo scopo essenziale di ottenere un vantaggio fiscale.

Con la sentenza n. 406/2015, i giudici di legittimità hanno difatti affermato che “il principio generale del diritto comunitario secondo cui il soggetto destinatario di un atto della pubblica autorità suscettivo di produrre effetti pregiudizievoli nella sua sfera giuridica, deve essere messo in condizione di contraddire prima di subire tali effetti, non può tollerare discriminazioni in relazione alla natura armonizzata o meno del tributo”.

In base a tale pronuncia, dunque, il diritto al contraddittorio preventivo, ormai da tempo elaborato e sviluppato dalla Corte di Giustizia con riguardo ai tributi armonizzati, deve necessariamente trovare applicazione anche nei settori privi di armonizzazione. Oltre alle indicazioni della giurisprudenza comunitaria, la sentenza citata ha recepito il principio di diritto enunciato nella precedente decisione delle Sezioni Unite, n. 19667/2014, nella quale si legge che è “… principio fondamentale immanente nell’ordinamento tributario […]la tutela del diritto di difesa del contribuente mediante l’obbligo di attivazione da parte dell’amministrazione del “contraddittorio endoprocedimentale” ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente medesimo. Principio il cui rispetto è dovuto da parte dell’amministrazione indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva e la cui violazione determina la nullità dell’atto lesivo che sia stato adottato senza la preventiva comunicazione al destinatario”.

Detto ciò, con ordinanza n. 527/2015 la sezione V della Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione circa la concreta portata applicativa del principio del contraddittorio preventivo. L’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione ha infine incontrato l’avallo della Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 132/2015 la Consulta, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale sottopostale, ha innanzitutto denunciato una carenza di motivazione nell’ordinanza di rimessione: in quest’ultima, la Cassazione ha asserito che il principio generale non scritto di abuso del diritto non contempla garanzie procedimentali a favore del contribuente.

Da ricordare in senso opposto la sentenza n. 405/2015, dove i Supremi Giudici hanno osservato che nel settore delle imposte dirette, il legislatore ha preferito “tipizzare la figura dell’abuso del diritto convogliandola su specifici elementi caratterizzanti e determinate operazioni negoziali, in assenza dei quali non sono configurabili altre ipotesi di pratiche abusive: l’intento legislativo è stato, infatti, quello di ridurre quanto più possibile, in una materia – quella dei tributi diretti- di particolare rilevanza fiscale e nella quale non operano vincoli comunitari, il margine di errore valutativo nell’attività di accertamento degli Uffici finanziari, avuto riguardo alla notevole elasticità dei margini interpretativi del fenomeno negoziale altrimenti consentita dalla stessa indeterminatezza della nozione di “abuso del diritto” e degli elementi che lo caratterizzano, rispondendo pertanto l’intervento normativo alla esigenza: 1-di limitare il rischio di una indiscriminata applicazione della figura dell’abuso del diritto a qualsiasi fattispecie negoziale (con il conseguente rischio di frequenti ed inevitabili valutazioni contraddittorie di una medesima fattispecie negoziale compiute dai diversi Uffici), evitando la insorgenza di controversie tributarie su accertamenti fiscali che potrebbero presentare elevati rischi di aleatorietà per l’Ufficio finanziario, nonché 2-di evitare che i contribuenti vengano ad essere sottoposti ad inutili e complessi accertamenti fiscali, a discapito di altre e più utili -in termini di risultati conseguibili- attività di verifica e controllo”.

La sentenza n. 405, ricordiamo è stata emanata nel gennaio del 2015. Essa, pur avendo una potenziale portata dirompente, non ha avuto modo di sviluppare la sua efficacia pratica in quanto il 2 settembre dello stesso anno è entrata in vigore una nuova clausola generale antiabuso che ha, tra l’altro, comportato l’abrogazione dell’art. 37-bis, DPR 600/1973. Il D.lgs. 128 del 5 agosto 2015, recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 18 agosto 2015, dando attuazione al richiamato articolo 5 della legge delega e in ottemperanza alla raccomandazione 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva. L’articolo 1 del decreto reca la revisione delle disposizioni antielusive al fine di disciplinare il principio generale di divieto dell’abuso del diritto, dandone una nuova definizione, unificata a quella dell’elusione, estesa a tutti i tributi, non limitata a fattispecie particolari e corredata dalla previsione di adeguate garanzie procedimentali. La disciplina è prevista dal nuovo articolo 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212/2000). In base alle nuove disposizioni si è in presenza dell’abuso del diritto allorché una o più operazioni prive di sostanza economica, pur rispettando le norme tributarie, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.

La norma chiarisce che un’operazione è priva di sostanza economica se i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, sono inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. 

In parole semplici, l’abuso del diritto in materia tributaria è generalmente individuato in quelle operazioni prive di spessore economico che l’impresa mette in atto con l’obiettivo principale di ottenere risparmi d’imposta attraverso l’utilizzo distorto di schemi giuridici. Ognuno di questi schemi singolarmente appare perfettamente legittimo, mentre l’illegittimità deriva dal fatto che essi nel complesso sono messi in atto unicamente per ottenere vantaggi fiscali.

Tanto premesso e tornando al caso oggi prospettato, i fatti  nascono dalla presunta natura antielusiva di una serie di operazioni riorganizzative di un gruppo societario dove le Entrate contestavano che il medesimo risultato avrebbe potuto essere raggiunto attraverso un diverso procedimento alternativo che, tuttavia, non avrebbe generato, a titolo di differenza, analogo disavanzo gratuitamente affrancabile ai fini fiscali. Dopo i giudizi dei giudici tributari, che si esprimevano a favore della società contribuente, l’Agenzia delle entrate ricorreva in Cassazione.

Al riguardo la tesi prospettata dalla difesa erariale, affidata a due motivi, trova il consenso della Suprema Corte limitatamente al secondo punto e, pertanto“… Nella ricostruzione del giudice a quo, e nella tesi della controricorrente, la natura elusiva, ai fini dell’applicazione dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’operazione complessivamente realizzata dalla contribuente sarebbe stata individuata illegittimamente dall’Amministrazione nella scelta della contribuente, tra due procedimenti di riorganizzazione societaria funzionali in egual misura allo scopo di ristrutturazione dell’architettura societaria del Gruppo, di quello più vantaggioso sotto il profilo fiscale. Tuttavia, la concreta compresenza, non marginale, di valide ragioni extrafiscali economiche e di riorganizzazione societaria, escluderebbe, secondo tale impostazione, che al complesso dei diversi atti che hanno composto l’operazione complessiva de qua possano attribuirsi i pretesi connotati abusivi solo perché la contribuente ha scelto, quale strumento per perseguire le predette finalità, l’operazione fiscalmente più vantaggiosa, piuttosto che quella ipotetica ed alternativa prospettata dall’Amministrazione, che non le avrebbe arrecato il medesimo beneficio fiscale. Infatti, secondo la CTR e la controricorrente, diversamente opinando – ovvero spingendo il sindacato dell’Amministrazione sino ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili, solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale – si rischierebbe la compressione dei principi costituzionali di libertà d’impresa e di iniziativa economica, di cui all’art. 42 Cost., come ritenuto anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., 21/01/2011, n. 1372).

2.8. Nel secondo motivo di ricorso, nell’enucleazione dei fatti decisivi, oggetto di discussione tra le parti, dei quali lamenta l’omesso esame da parte del giudice a quo, la ricorrente Agenzia evidenzia in particolare la vicenda del finanziamento concesso dalla S. s.p.a. alla Filtrato Italia s.r.l. affinché quest’ultima acquistasse, dalla stessa capogruppo v. e finanziante S. s.p.a., l’intero capitale dell’incorporata “vecchia” S. F. s.p.a.

Sottolinea la ricorrente che tale segmento della più ampia operazione controversa, per come si è concretamente realizzato, non evidenzia una finalità coerente con una normale logica economica, in quanto la società capogruppo si è privata del controllo su di una partecipata a favore di altra partecipata, previamente finanziandola (ma senza effettivo spostamento di denaro) a tal fine, per poi rinunciare alla restituzione del finanziamento e tornare in breve tempo in possesso della partecipazione appena ceduta. Secondo la ricorrente, attese tali connotazioni dei fatti, non emergono, le ragioni, ulteriori rispetto alla finalità del risparmio fiscale derivante dall’esito finale della complessiva operazione, per le quali la controricorrente dovesse finanziare per quasi venti milioni di euro la propria controllata indiretta F. Italia s.r.l., rinunciando poi alla restituzione.

2.9. Al fine di assolvere all’onere di spiegare, anche nell’atto impositivo, perché il complesso dell’operazione economica intrapresa dalla ricorrente si manifesti – con particolare riguardo alla circostanza del finanziamento – anomalo o irragionevole in una normale logica economica e di mercato, l’Amministrazione (in coerenza con le già citate Cass. n. 21390/12; Cass. n. 4604/14; Cass., n.5155/2016) ha inoltre profilato l’esistenza, a suo dire, di un adeguato strumento giuridico, alternativo a quello scelto dai contraenti, ma comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito, che tuttavia non avrebbe assicurato il medesimo vantaggio fiscale.

E’ quindi in quest’ottica di necessaria prospettazione di una modalità, alternativa e praticabile, di realizzazione della medesima operazione economica che deve inquadrarsi il raffronto, proposto dall’Ufficio, tra la riorganizzazione del gruppo societario così come è avvenuta e come altrimenti si sarebbe potuta compiere. Non si tratta, quindi, di sindacare o comprimere i principi costituzionali di libertà d’impresa e di iniziativa economica, imponendo alla contribuente una specifica misura di ristrutturazione, tra quelle giuridicamente possibili, solo perché essa avrebbe comportato un maggior carico fiscale. Piuttosto, si tratta di evidenziare l’esistenza di possibili modalità alternative di realizzazione della medesima operazione economica, presupposto logico necessario della verifica della ragionevolezza, secondo logiche economiche e di mercato, delle forme con le quali l’operazione stessa è stata concretamente eseguita. Infatti, laddove, diversamente da quanto accade in questo giudizio, l’Amministrazione avesse affermato che le incontestate esigenze di ristrutturazione del gruppo non avrebbero potuto soddisfarsi se non con le modalità con le quali la contribuente le ha effettivamente perseguite, la controversia non avrebbe ragion d’essere.

Nella sostanza, quindi, nel caso di specie, il giudice del merito non era chiamato ad accertare se l’operazione controversa fosse elusiva perché realizzata in un modo piuttosto che in un altro; ma a valutare se l’operazione concretamente realizzata fosse elusiva, premesso che avrebbe potuto conseguirsi il medesimo risultato in forme diverse.

3. La motivazione della sentenza impugnata ha premesso in diritto, in coerenza con la giurisprudenza citata, che, dopo che l’Ufficio ha fatto risaltare le singolarità e/o anormalità che fanno ritenere un’operazione priva di un reale contenuto economico diverso dall’ottenere un mero risparmio d’imposta, il contribuente ha l’onere di fornire la controprova dell’esistenza valide ragioni economiche, alternative o concorrenti, a connotato non marginale e non puramente teorico, che possano legittimare quella stessa operazione. Tuttavia, nel contesto della motivazione esposta dalla CTR, è omesso uno specifico e concreto esame del “fatto” costituito dal finanziamento , nelle sue connotazioni oggettive allegate dall’Ufficio e non controverse, e comunque menzionato nella parte narrativa della stessa sentenza d’appello, ma non oggetto di valutazione apposita nella parte motiva vera e propria (che inizia da pag. 12 del provvedimento), ed anzi neppure elencato nella sintetica riepilogazione degli elementi della fattispecie presi in considerazione in tale sede (cfr. pag. 16 della sentenza). Il mancato apprezzamento di tale dato, motore finanziario dell’intera architettura dell’operazione di ristrutturazione, appare potenzialmente decisivo rispetto al giudizio, di fatto, relativo sia all’esistenza di ragioni economiche – alternative o concorrenti, ma non teoriche né marginali- della condotta della contribuente, ulteriori rispetto alla finalità di perseguire il beneficio fiscale in questione; sia alla verifica del bilanciamento tra tali scopi eterogenei, ove effettivamente compresenti. La sentenza impugnata va quindi cassata e la causa va rimessa al giudice a quo perché proceda a nuovo giudizio sul punto, in coerenza con i principi esposti”.

Corte di Cassazione – Sentenza 5 dicembre 2019, n. 31772

Sul ricorso iscritto al n. 16448/2014 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;

– ricorrente-

contro S. R. S.P.A. (già S. F. S.P.A.), rappresentata e difesa, come da procura speciale in atti, dalla Prof. Avv. Laura Salvaneschi e dall’Avv. Andrea Silvestri, con domicilio eletto presso lo studio Bonelli Erede Pappalardo in Roma, via Salaria, n. 259;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 1454/2014, depositata il 21 marzo 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17 settembre 2019 dal Consigliere dott. MICHELE CATALDI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Tommaso Basile, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

udito l’ Avv. dello Stato Paolo Gentili per la ricorrente e gli Avv.ti Prof. Avv. Laura Salvaneschi ed Andrea Silvestri per la controricorrente

Fatti di causa

1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 1454/2014, depositata il 21 marzo 2014, che ha rigettato il suo appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva accolto, dopo averli riuniti, i ricorsi della S. R. s.p.a. (già S. F. s.p.a.), operante nel settore della produzione di filtri per auto, contro gli avvisi di accertamento con i quali l’Ufficio aveva rettificato le dichiarazioni Ires ed Irap, per l’anno d’imposta 2004, della contribuente, sulla base di un processo verbale di constatazione nel quale era stata rilevata, ai sensi dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, la natura elusiva, e quindi l’inopponibilità all’Amministrazione di una serie concatenata di operazioni societarie, realizzate nell’ambito della riorganizzazione globale, sia in Italia che all’estero, del Gruppo S., resa necessaria per razionalizzare l’originario Gruppo S. F., a seguito dell’acquisizione del gruppo F., al fine di evitare che i due Gruppi entrassero in concorrenza tra loro, di unificare i centri amministrativi, di semplificare il perimetro di consolidamento e di accorciare la catena di controllo del Gruppo.

1.1. In particolare, l’Ufficio aveva rilevato che il fine della riorganizzazione era stato perseguito attraverso una serie di operazioni societarie che erano sfociate in ultimo nella fusione per incorporazione della S. F. s.p.a. (società italiana il cui capitale era interamente detenuto dalla capogruppo S. s.p.a.) nella F. Italia s.r.l. (società italiana il cui capitale era interamente detenuto dalla società francese F. s.a., a sua volta partecipata per il 99,9% dalla stessa capogruppo S. s.p.a.).

La società incorporante aveva quindi assunto il nome e la forma di S. F. s.p.a. (negli atti definita “nuova” S. F., per distinguerla dalla “vecchia” S. F., incorporata) e, successivamente, la partecipazione al suo capitale sociale veniva ceduta nuovamente alla capogruppo S. s.p.a., che veniva così ad assumere il ruolo di holding del Gruppo riorganizzato, che controllava attraverso la partecipata italiana “nuova” S. F. e quella francese F. s.a.

Poiché all’atto della fusione l’incorporante F. Italia s.r.l. possedeva (per averlo acquistata dalla capogruppo S. s.p.a., utilizzando un finanziamento concessole da quest’ultima, che ha successivamente rinunciato alla sua restituzione) l’intero capitale dell’incorporata “vecchia” S. F. s.p.a., l’operazione straordinaria produceva l’annullamento della partecipazione dell’incorporante nell’incorporata.

La conseguente differenza tra il valore contabile della partecipazione nell’incorporata, iscritto nel bilancio dell’incorporante ed annullato con la fusione, e la quota corrispondente del patrimonio netto contabile della società incorporata, dava quindi luogo ad un disavanzo da fusione di euro 14.412.000,00.

Ai fini fiscali, l’incorporante “nuova” S. F. s.p.a. si avvaleva allora dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. dell’8 ottobre 1997, n. 358, che l’art. 4, comma 2, lett. a) del d.lgs. del 12 dicembre 2003, n. 344, consentiva di continuare ad applicare alle operazioni di fusione e scissione deliberate dalle assemblee delle società partecipanti fino al 30 aprile 2004, essendo invece quelle deliberate successivamente disciplinate dall’art. 172, comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, per il quale i beni ricevuti dall’incorporante sono valutati fiscalmente in base all’ultimo valore riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi che avevano nel bilancio dell’incorporata prima della fusione, quindi senza imputazione ad essi, ai fini fiscali, dell’eventuale disavanzo da annullamento.

La “nuova” S. F. s.p.a. conseguiva pertanto il riconoscimento fiscale, senza l’applicazione dell’imposta sostitutiva, dei maggiori valori iscritti per effetto dell’imputazione del disavanzo da annullamento della sua partecipazione nell’incorporata. Il disavanzo veniva imputato in parte alla rivalutazione dello stabilimento della “vecchia” S. F. s.p.a., così neutralizzando fiscalmente la plusvalenza realizzata successivamente dall’incorporante con la vendita dello stesso bene; mentre altra parte del disavanzo era imputata ad avviamento, portato dall’incorporante in ammortamento.

1.2. L’Ufficio – pur riconoscendo sia la liceità dei singoli atti con i quali l’operazione complessiva era stata realizzata, sia la finalità di necessaria riorganizzazione globale del Gruppo che in parte l’aveva giustificata- contestava tuttavia che il medesimo risultato avrebbe potuto essere raggiunto attraverso un diverso procedimento alternativo (acquisto, da parte della capogruppo S. s.p.a., del capitale sociale della F. Italia s.r.l., interamente detenuto dalla F. s.a.; fusione “orizzontale”, per concambio, tra F. Italia s.r.l. e “vecchia” S. F. s.p.a., soggetti tra loro indipendenti e non legati da rapporti di partecipazione) che, tuttavia, non avrebbe generato, a titolo di differenza, analogo disavanzo gratuitamente affrancabile ai fini fiscali.

Pertanto, l’Agenzia riteneva che la sola ragione della scelta delle concrete modalità di realizzazione dell’operazione complessiva in questione era il risparmio d’imposta che esse garantivano e ne assumeva quindi l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria, disconoscendo i vantaggi tributari che ne erano conseguiti, ai sensi dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973.

Gli avvisi di accertamento impugnati recuperavano quindi a tassazione la predetta plusvalenza e le deduzioni delle quote di ammortamento dell’avviamento e della quota di interessi passivi sul finanziamento concesso dalla capogruppo all’incorporante F. Italia s.r.l. per acquistare il capitale dell’incorporata “vecchia” S. F. s.p.a.

2. I ricorsi della società contribuente, dopo la loro riunione, sono stati accolti dall’adita Commissione tributaria provinciale, secondo la quale (per quanto riportato da ambedue le parti nel ricorso e nel controricorso) la contribuente ha certamente agito ottenendo un risparmio fiscale, che tuttavia non è di per sé illegittimo e non integra la fattispecie elusiva contestata, non avendo l’Ufficio «saputo motivare quale fosse il carattere indebito dei risultati ottenuti dalla contribuente». L’appello dell’Ufficio è stato respinto dalla CTR adita.

3. L’Ufficio ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza di secondo grado.

4. La contribuente si è costituita con controricorso ed ha successivamente depositato memoria.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo, l’Ufficio ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, num. 3 e num. 4, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115, comma 1, ult. parte, cod. proc. civ.; 2697 e 2729 cod. civ.; 172, comma 2, ult. parte, del d.P.R. del 22 dicembre 1986, n. 917; 6, comma 2, del d.lgs. dell’8 ottobre 1997, n. 358; e 4, comma 1, lett. a) del d.lgs. del 12 dicembre 2003, n. 344.

1.1. Come eccepito dalla controricorrente, il motivo, letto alla stregua degli indicati parametri di cui all’art. 360, comma 1, num. 3 e num. 4, cod. proc. civ., è inammissibile, per genericità e difetto di autosufficienza della sua formulazione, in contrasto con l’art. 366, comma 1, num. 4, cod. proc. civ.

Infatti, la lettura dell’intera esposizione del complesso motivo evidenzia che i pretesi errori di diritto nell’applicazione delle menzionate norme sostanziali e processuali sono illustrati con la mera indicazione delle norme che la ricorrente assume violate, ma senza la necessaria critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni, nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni in diritto, che peraltro la stessa ricorrente, pure all’interno di un’articolata disamina, neppure si fa carico di prospettare. Invero, la predetta carenza nell’esposizione dei motivi appare imputabile all’effettivo contenuto dello stesso, che, nonostante la formale rubricazione attribuitagli dalla ricorrente, si sostanzia nell’imputazione, al giudice a quo, dell’omesso esame di fatti (il finanziamento, per acquistare il capitale dell’incorporata “vecchia” S. F. s.p.a., concesso all’incorporante F. Italia s.r.l. dalla capogruppo, che ha successivamente rinunciato al conseguente credito verso l’incorporante; la cessione a terzi dello stabilimento già di proprietà dell’incorporata; l’imputazione del disavanzo da annullamento, conseguente alla fusione, a maggior valore dello stesso immobile, che ha impedito l’emersione della plusvalenza conseguente alla sua successiva alienazione), benché essi non fossero contestati ed avrebbero potuto costituire, secondo la ricorrente, la base di ragionamenti presuntivi idonei a sorreggere la pretesa impositiva.

In tali termini, il primo motivo di ricorso coincide allora con la censura motivazionale di cui al secondo, sul quale infra.

2. Con il secondo motivo, l’Ufficio ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, num. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, che sono stati oggetto di discussione tra le parti.

I fatti in questione coincidono con quelli individuati nel primo motivo ed ante richiamati.

2.1. Deve escludersi che, rispetto al secondo motivo, sussista l’inammissibilità eccepita dalla controricorrente ai sensi dell’art. 348- ter, comma 5, cod. proc. civ., che preclude l’impugnazione per il vizio di cui all’art. 360, comma 1, num. 5, cod. proc. civ. nei casi della c.d. “doppia conforme”, ed è applicabile anche al giudizio tributario (Cass., Sez. U., 7/4/2014, n. 8053) e, ratione temporis, anche a questa controversia.

2.2. Infatti, la lettura della motivazione della sentenza di primo grado, nei limiti nei quali è stata, concordemente, riprodotta dalle parti nel ricorso e nel controricorso, non evidenzia in modo inequivocabile che il giudice di prime cure abbia fondato la sua decisione sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della sentenza di secondo grado.

La motivazione adottata dalla CTP, nell’estratto riprodotto, si sostanzia invece nella censura, sul piano logico ed astratto, del sillogismo sul quale sarebbe fondato l’accertamento emesso dall’Ufficio, la cui «premessa maggiore (le fusioni per incorporazione possono legittimamente generare un disavanzo) non sarebbe coerente con quella «minore» (chi compie una fusione per incorporazione per ottenere un disavanzo riconosciuto gratuitamente ai fini fiscali integra un’elusione illegittima). Pertanto, la motivazione dell’atto impositivo, basata su tale fallace ragionamento, sarebbe viziata da «illogicità manifesta» ed insufficiente in ordine ad «un requisito fondamentale della fattispecie elusiva», poiché «l’Ufficio non ha saputo motivare quale fosse il carattere indebito dei risultati ottenuti dalla contribuente».

L’annullamento dell’accertamento, da parte della CTP, non risulta quindi motivato e fondato «sulle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a fondamento della decisione impugnata» in questa sede, come prevede dell’art. 348-ter , comma 5, cod. proc. civ., ma basato sulla ritenuta criticità logica del ragionamento posto a fondamento della pretesa erariale (e quindi della motivazione dell’accertamento), apprezzata in astratto ed a prescindere dagli elementi fattuali concreti che compongono la fattispecie controversa, valutati invece dalla CTR.

2.3. Neppure sussiste l’inammissibilità del secondo motivo eccepita dalla controricorrente per preteso difetto di autosufficienza, o per genericità, della sua formulazione, che attinge invece i predetti tre fatti (o meglio i tre predetti complessi di fatti), sufficientemente individuati – e comunque, per quanto risulta dalla sentenza impugnata e dalle difese delle parti, oggetto del precedente contraddittorio tra le parti – ed argomenta in ordine alla loro potenzialità decisiva ai fini della decisione della lite nel merito.

2.4. Il secondo motivo, oltre che ammissibile, è fondato.

Invero, questa Corte (Cass., n. 5155/2016, in motivazione) ha già avuto modo di precisare che integra gli estremi del comportamento abusivo quell’operazione economica che – tenuto conto sia della volontà delle parti implicate, sia del contesto fattuale e giuridico – ponga quale elemento predominante e assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale se quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi d’imposta (Cass. n. 25972/2014, in motivazione, p.9.1).

La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato (Cass. n. 1465/2009) e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate.

Inoltre non è configurabile l’abuso del diritto se non sia stato provato dall’ufficio il vantaggio fiscale che sarebbe derivato al contribuente accertato dalla manipolazione degli schemi contrattuali classici (Cass. 20029/2010).

Pertanto, «il carattere abusivo, sotto il profilo fiscale, di una determinata operazione, nei fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (Cass., sez. un., 30055/08 e 30057/08; v. C. giust. UE nei casi 3M Italia, Halifax, Part Service), presuppone quanto meno l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito (Cass. 21390/12, p.3.2) e si deve indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (Cass. 4604/14).» (Cass.,n. 5155/2016, cit., in motivazione).

2.5. La stessa Commissione Europea, nell’ottica di perseguire la pianificazione fiscale aggressiva, ha diramato agli Stati membri la raccomandazione 2012/772/UE di intervenire quando sia realizzata «una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale», chiarendo che «una costruzione o una serie di costruzioni è artificiosa se manca di sostanza commerciale», ovvero di «sostanza economica», e «consiste nell’eludere l’imposizione quando, a prescindere da eventuali intenzioni personali, contrasta con l’obiettivo, lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali», mentre «una data finalità deve essere considerata fondamentale se qualsiasi altra finalità che è o potrebbe essere attribuita alla costruzione o alla serie di costruzioni sembri per lo più irrilevante alla luce di tutte le circostanze del caso» (cfr. Cass.,n. 5155/2016, cit.; Cass., n. 438/15 e Cass. n. 439/15, tutte in motivazione).

Il legislatore nazionale, con l’art. 5 della legge 11 marzo 2014, n.23, art.5) ha raccolto la citata raccomandazione dell’UE, delegando al Governo l’attuazione «della revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, in applicazione dei seguenti principi e criteri direttivi, coordinandoli con quelli contenuti nella raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012:

a) definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione;

b) garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale e, a tal fine:

1) considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva;

2) escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali; stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente;

c) prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici di cui alla lettera a) all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il relativo risparmio di imposta;

d) disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti;

e) prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso;

f) prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario.».

I principi appena esposti sono stati quindi attuati con l’art. 10-bis della legge 27 dicembre 2000, n. 212 (c.d. Statuto del contribuente), introdotto dall’art. 1 del d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, modificato dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, che, nei primi quattro commi, così dispone:

« 1. Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni.

2. Ai fini del comma 1 si considerano:

a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato;

b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.

3. Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.

4. Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge etra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.».

2.6. Le predette disposizioni dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, sebbene non applicabili, ratione temporis, al caso di specie, in ragione della pregressa notifica detratto impositivo de quo (art. 1, comma 5, d.lgs. n. 128 del 2015), sono tuttavia significative dell’affinamento dei principi comunitari e nazionali in materia e «rilevano in chiave interpretativa nel definire una linea evolutiva già indiscutibilmente tracciata nell’ordinamento tributario dalla giurisprudenza e dalle fonti nazionali e comunitarie (per un recente disamina v. Cass. pen. 40272/15).» ( Cass., n. 5155/2016, cit., in motivazione).

In tale contesto evolutivo, si colloca la giurisprudenza, in materia, di questa Corte, che ha già avuto occasione di chiarire che, in materia tributaria, la scelta di un’operazione fiscalmente più vantaggiosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà, a condizione che non si traduca in uso distorto dello strumento negoziale o in un comportamento anomalo rispetto alle ordinarie logiche d’impresa, posto in essere per realizzare non la causa concreta del negozio, ma esclusivamente o essenzialmente il beneficio fiscale (Cass., 26/08/2015, n. 17175).

Nello stesso senso, si è altresì ritenuto (Cass., 14/01/2015, n. 405 ) che in materia tributaria, l’opzione del soggetto passivo per l’operazione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, essendo necessario che il conseguimento di un “indebito” vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie, costituisca la causa concreta della fattispecie negoziale.

E’ stato quindi escluso che la mera astratta configurabilità di un vantaggio fiscale sia sufficiente ad integrare la fattispecie abusiva, poiché è richiesta la concomitante condizione di inesistenza di ragioni economiche diverse dal semplice risparmio di imposta e l’accertamento della effettiva volontà dei contraenti di conseguire un indebito vantaggio fiscale (Cass., 05/12/2014, n. 25758).

Inoltre, è stato ritenuto che costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicché il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale (Cass., 26/02/2014,n. 4603. Nello stesso senso Cass., 16/01/2019, nn. 868 ed 869).

Con riferimento alla contemporanea sussistenza di finalità di riorganizzazione societaria, è stato altresì chiarito che il carattere abusivo di un’operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione medesima, ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda (Cass., 21/01/2011, n. 1372).

Inoltre, recentemente, il quadro dell’abuso di diritto e dell’elusione fiscale è stato sinteticamente composto con l’affermazione che: «In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente.» (Cass. 23/11/2018, n. 30404; conforme Cass.n. 6836/2019).

2.7. Tanto premesso, incombeva quindi sull’ amministrazione finanziaria l’onere di spiegare, anche nell’atto impositivo, perché il complesso delle forme giuridiche impiegate abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa, mentre era onere del contribuente provare la compresenza di un concomitante contenuto economico dell’operazione, non marginale, diverso dal mero risparmio fiscale.

Nel caso di specie, l’Amministrazione ( come si deduce dall’avviso d’accertamento controverso, nella parte trascritta nel controricorso, oltre che dal complesso del ricorso) non allega specificamente che il complesso dell’operazione societaria controversa sia, ex se, funzionalmente incoerente con la dedotta esigenza di riorganizzazione globale del Gruppo S., sia in Italia che all’estero, resa necessaria per razionalizzare l’originario Gruppo S. F., a seguito dell’acquisizione del gruppo F., al fine di evitare che i due Gruppi entrassero in concorrenza tra loro, di unificarne i centri amministrativi, di semplificare il perimetro di consolidamento e di accorciare la catena di controllo del Gruppo.

Piuttosto, l’Ufficio concentra la propria censura sulle concrete modalità con le quali tale intento è stato perseguito, ovvero sulla realizzazione della fusione per incorporazione della “vecchia” S. F. s.p.a. nella F. Italia s.r.l., e su tutto il complesso di atti che l’hanno predisposta e realizzata, al fine di fare in modo che al momento dell’operazione straordinaria l’incorporante fosse in possesso dell’integrale partecipazione nel capitale dell’incorporata, affinché venisse a crearsi quella differenza da annullamento idonea a generare un disavanzo da fusione, che la protratta vigenza dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. dell’8 ottobre 1997, n. 358, consentiva di imputare per ottenere che i maggiori valori iscritti si intendessero fiscalmente riconosciuti senza l’applicazione dell’imposta sostitutiva.

In particolare, l’Agenzia sottolinea che « […] la S. s.p.a. vende alla ex F. la sua partecipazione nella società incorporata finanziandola con finanziamento che resterà solo sulla carta non essendovi nessuno spostamento di denaro.» (cfr. avviso di accertamento, trascritto a pag. 5 del controricorso).

Inoltre, l’Amministrazione contrappone a tale modalità operativa, che garantiva il predetto risparmio fiscale, un possibile procedimento alternativo – ovvero la fusione “orizzontale”, per concambio, tra F. Italia s.r.l. e “vecchia” S. F. s.p.a., soggetti tra loro indipendenti e non legati da rapporti di partecipazione, preceduta dall’acquisto, da parte della capogruppo S. s.p.a., del capitale sociale della F. Italia s.r.l., interamente detenuto dalla F. s.a. – che non avrebbe richiesto il ricorso al finanziamento in questione, evidenziandone la maggiore congruità economica.

Questa diversa ed ipotetica operazione straordinaria, pur raggiungendo la medesima finalità amministrativa, non avrebbe tuttavia generato, a titolo di differenza, analogo disavanzo gratuitamente affrancabile ai fini fiscali.

Nella ricostruzione del giudice a quo, e nella tesi della controricorrente, la natura elusiva, ai fini dell’applicazione dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’operazione complessivamente realizzata dalla contribuente sarebbe stata individuata illegittimamente dall’Amministrazione nella scelta della contribuente, tra due procedimenti di riorganizzazione societaria funzionali in egual misura allo scopo di ristrutturazione dell’architettura societaria del Gruppo, di quello più vantaggioso sotto il profilo fiscale.

Tuttavia, la concreta compresenza, non marginale, di valide ragioni extrafiscali economiche e di riorganizzazione societaria, escluderebbe, secondo tale impostazione, che al complesso dei diversi atti che hanno composto l’operazione complessiva de qua possano attribuirsi i pretesi connotati abusivi solo perché la contribuente ha scelto, quale strumento per perseguire le predette finalità, l’operazione fiscalmente più vantaggiosa, piuttosto che quella ipotetica ed alternativa prospettata dall’Amministrazione, che non le avrebbe arrecato il medesimo beneficio fiscale.

Infatti, secondo la CTR e la controricorrente, diversamente opinando – ovvero spingendo il sindacato dell’Amministrazione sino ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili, solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale – si rischierebbe la compressione dei principi costituzionali di libertà d’impresa e di iniziativa economica, di cui all’art. 42 Cost., come ritenuto anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., 21/01/2011, n. 1372).

2.8. Nel secondo motivo di ricorso, nell’enucleazione dei fatti decisivi, oggetto di discussione tra le parti, dei quali lamenta l’omesso esame da parte del giudice a quo, la ricorrente Agenzia evidenzia in particolare la vicenda del finanziamento concesso dalla S. s.p.a. alla Filtrato Italia s.r.l. affinché quest’ultima acquistasse, dalla stessa capogruppo v. e finanziante S. s.p.a., l’intero capitale dell’incorporata “vecchia” S. F. s.p.a.

Sottolinea la ricorrente che tale segmento della più ampia operazione controversa, per come si è concretamente realizzato, non evidenzia una finalità coerente con una normale logica economica, in quanto la società capogruppo si è privata del controllo su di una partecipata a favore di altra partecipata, previamente finanziandola (ma senza effettivo spostamento di denaro) a tal fine, per poi rinunciare alla restituzione del finanziamento e tornare in breve tempo in possesso della partecipazione appena ceduta. Secondo la ricorrente, attese tali connotazioni dei fatti, non emergono, le ragioni, ulteriori rispetto alla finalità del risparmio fiscale derivante dall’esito finale della complessiva operazione, per le quali la controricorrente dovesse finanziare per quasi venti milioni di euro la propria controllata indiretta F. Italia s.r.l., rinunciando poi alla restituzione.

2.9. Al fine di assolvere all’onere di spiegare, anche nell’atto impositivo, perché il complesso dell’operazione economica intrapresa dalla ricorrente si manifesti – con particolare riguardo alla circostanza del finanziamento – anomalo o irragionevole in una normale logica economica e di mercato, l’Amministrazione (in coerenza con le già citate Cass. n. 21390/12; Cass. n. 4604/14; Cass., n.5155/2016) ha inoltre profilato l’esistenza, a suo dire, di un adeguato strumento giuridico, alternativo a quello scelto dai contraenti, ma comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito, che tuttavia non avrebbe assicurato il medesimo vantaggio fiscale.

E’ quindi in quest’ottica di necessaria prospettazione di una modalità, alternativa e praticabile, di realizzazione della medesima operazione economica che deve inquadrarsi il raffronto, proposto dall’Ufficio, tra la riorganizzazione del gruppo societario così come è avvenuta e come altrimenti si sarebbe potuta compiere. Non si tratta, quindi, di sindacare o comprimere i principi costituzionali di libertà d’impresa e di iniziativa economica, imponendo alla contribuente una specifica misura di ristrutturazione, tra quelle giuridicamente possibili, solo perché essa avrebbe comportato un maggior carico fiscale. Piuttosto, si tratta di evidenziare l’esistenza di possibili modalità alternative di realizzazione della medesima operazione economica, presupposto logico necessario della verifica della ragionevolezza, secondo logiche economiche e di mercato, delle forme con le quali l’operazione stessa è stata concretamente eseguita. Infatti, laddove, diversamente da quanto accade in questo giudizio, l’Amministrazione avesse affermato che le incontestate esigenze di ristrutturazione del gruppo non avrebbero potuto soddisfarsi se non con le modalità con le quali la contribuente le ha effettivamente perseguite, la controversia non avrebbe ragion d’essere.

Nella sostanza, quindi, nel caso di specie, il giudice del merito non era chiamato ad accertare se l’operazione controversa fosse elusiva perché realizzata in un modo piuttosto che in un altro; ma a valutare se l’operazione concretamente realizzata fosse elusiva, premesso che avrebbe potuto conseguirsi il medesimo risultato in forme diverse.

3. La motivazione della sentenza impugnata ha premesso in diritto, in coerenza con la giurisprudenza citata, che, dopo che l’Ufficio ha fatto risaltare le singolarità e/o anormalità che fanno ritenere un’operazione priva di un reale contenuto economico diverso dall’ottenere un mero risparmio d’imposta, il contribuente ha l’onere di fornire la controprova dell’esistenza valide ragioni economiche, alternative o concorrenti, a connotato non marginale e non puramente teorico, che possano legittimare quella stessa operazione.

Tuttavia, nel contesto della motivazione esposta dalla CTR, è omesso uno specifico e concreto esame del “fatto” costituito dal finanziamento , nelle sue connotazioni oggettive allegate dall’Ufficio e non controverse, e comunque menzionato nella parte narrativa della stessa sentenza d’appello, ma non oggetto di valutazione apposita nella parte motiva vera e propria (che inizia da pag. 12 del provvedimento), ed anzi neppure elencato nella sintetica riepilogazione degli elementi della fattispecie presi in considerazione in tale sede (cfr. pag. 16 della sentenza).

Il mancato apprezzamento di tale dato, motore finanziario dell’intera architettura dell’operazione di ristrutturazione, appare potenzialmente decisivo rispetto al giudizio, di fatto, relativo sia all’esistenza di ragioni economiche – alternative o concorrenti, ma non teoriche né marginali- della condotta della contribuente, ulteriori rispetto alla finalità di perseguire il beneficio fiscale in questione; sia alla verifica del bilanciamento tra tali scopi eterogenei, ove effettivamente compresenti.

La sentenza impugnata va quindi cassata e la causa va rimessa al giudice a quo perché proceda a nuovo giudizio sul punto, in coerenza con i principi esposti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il primo motivo, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 17 settembre 2019.

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