CASSAZIONE

Non si può invocare il difetto di giurisdizione quando si è passivi alla sentenza di primo grado

Tributi – Contenzioso tributario – Difetto di giurisdizione – Sanzioni per incarico conferito a pubblico dipendente senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza – Esclusione – Prevalenza del principio costituzionale della durata ragionevole del processo – Art. 329 c.p.c., c. 2.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 33 del 4 gennaio 2022 è tornata a occuparsi di due importanti aspetti, quello del difetto di giurisdizione e quello della durata ragionevole del processo, includendo così il rispetto del principio costituzionale sottointeso per affermare che il giudice ha facoltà di rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a che sul punto non si sia formato il giudicato implicito o esplicito (sul tema V. Cass. civ. sez. un. 9/10/2008, n. 24883; Cass. civ. sez. un. 24/07/2009, n. 17349; Cass. civ. sez. un. 9/11/2010, n. 19256).

In definitiva, proseguendo con il ragionamento degli Ermellini, il principio costituzionale della durata ragionevole del processo consente di escludere la rilevabilità davanti alla Corte di Cassazione del difetto di giurisdizione qualora sul punto si sia formato un giudicato implicito, per effetto della implicita pronuncia sul merito in primo grado e della mancata impugnazione, al riguardo, dinanzi al giudice di appello.

E’ quindi inammissibile, nel caso oggi trattato, l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità dall’Agenzia delle entrate, che nel merito non aveva formulato alcuna eccezione sulla giurisdizione ponendo così in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione, e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2.

In altre parole, il difetto di giurisdizione deve essere interpretato in armonia con i principi costituzionali di economia processuale e ragionevole durata del processo e con l’assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza, non quale espressione della sovranità statale, bensì come un servizio reso alla collettività con tempestività ed effettività.

E’ d’altronde pratica frequente il ricorrere al difetto di giurisdizione del giudice per ottenere l’annullamento della sentenza di primo grado e far transitare la causa davanti ad altro giudice.

La problematica è imperniata soprattutto sul disposto dell’art. 9 del D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, secondo cui “Il difetto di giurisdizione è rilevato, in primo grado, anche d’ufficio. Nei giudizi d’impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, abbia statuito sulla giurisdizione”.

In merito alla questione in esame si sono registrati, nel corso degli ultimi anni, orientamenti discordanti della Suprema Corte e del Consiglio di Stato, a cui si è ricollegata la dottrina. Un orientamento tendenzialmente favorevole, uno avverso e uno intermedio, assai meno consolidato, che prospetta una valutazione concreta da svolgersi caso per caso.

Il Consiglio di Stato è giunto, in diverse occasioni, alla conclusione che la statuizione del giudice di primo grado sulla giurisdizione è riesaminabile in appello, quando la relativa questione sia stata sollevata in termini: ciò a prescindere dall’avere l’appellante prescelto con il ricorso di primo grado il giudice che poi contesta, posto che tale deduzione riflette, sì, un elemento di contraddittorietà logica, ma non tale da risultare incompatibile con la sussistenza dell’interesse ad appellare, essendo comunque idoneo il motivo così dedotto a ovviare alla soccombenza derivante dalla decisione appellata.

In linea con tale impostazione, la Suprema Corte (v. Cass., SS. UU. sent. n. 26129/2010; Cass. civ. SS. UU. sent. n. 7097/2011) si è talvolta disposta per l’ammissibilità dell’impugnazione per motivi di giurisdizione anche da parte di chi, avendo adito il giudice amministrativo, contesti poi la giurisdizione in secondo grado ritenendo che l’unico limite all’auto eccezione del difetto di giurisdizione in sede di gravame consista nella formazione del giudicato, implicito o esplicito.

Gli Ermellini hanno più volte rammentato (v. Cass. SS. UU. sent. n. 24883/2008) come sia consolidato il principio secondo cui, nel caso che l’organo giudicante decida espressamente sia sulla giurisdizione, sia sul merito, e la parte impugni solo il merito, è precluso, al giudice di appello e alla Cassazione, il rilievo d’ufficio della questione di giurisdizione e alla parte interessata non è consentito introdurla in sede di legittimità, se non l’abbia proposta anche in appello, essendosi formato il giudicato interno sulla questione. Tale giudicato interno, secondo numerose pronunce della stessa S.C., si forma per effetto di un fenomeno di acquiescenza ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c., mentre, altre decisioni, che giungono alla medesima conclusione, fanno leva sulla preclusione derivante dal giudicato.

La giurisprudenza prevalente della Cassazione non ha condiviso la tesi dell’inammissibilità dell’appello per ragioni di abuso da contraddittorietà tra due atti processuali, visto che, secondo questa linea interpretativa, l’incoerenza del comportamento della parte dovrebbe, semmai, essere stigmatizzata con il governo della spese, per trasgressione ai doveri di lealtà e probità, ex art. 88 c.p.c., secondo la disciplina dettata dall’art. 92, comma 1, ultima parte, c.p.c.

In un pronunzia della Suprema Corte (v. Cass. sent. n. 3207/2012) si è sottolineato che, se una facoltà di azione è riconosciuta dall’ordinamento, l’esercizio della stessa non integra, di per sé, gli estremi di una situazione di abuso del processo o di esercizio del diritto in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, in violazione del principio di lealtà processuale previsto dall’art. 88, c.p.c. e del giusto e sollecito processo stabilito dall’art. 111, Cost.

La Suprema Corte, pur avendo seguito un orientamento tendenzialmente favorevole, ha assunto successivamente una posizione più risolutiva (v. Cass. SS.UU. sent. n. 21260/2016), dove l’accertamento della giurisdizione non rappresenta un mero passaggio interno della statuizione di merito, ma costituisce un capo autonomo, che è pienamente capace di passare in giudicato anche se il giudice si sia pronunciato solo implicitamente sullo stesso. L’appello del ricorrente che invoca il difetto di giurisdizione sarebbe precluso perché non potrebbe consentirsi allo stesso soggetto di andare contro la sua scelta originaria in ordine alla giurisdizione, anche per una esigenza di razionalità nell’impiego della risorsa giustizia, che è a disposizione dell’intera collettività.

Di conseguenza, l’appello può essere proposto solo dalla parte soccombente, in quanto la soccombenza del potere di impugnativa rappresenta l’antecedente necessario.

Il principio di diritto che ne deriva è che l’attore che abbia incardinato la causa dinanzi a un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto (Cass. SS. UU. sent. n. 1309/2017).

Il diritto alla ragionevole durata del processo ha avuto, con la legge 89/2001, uno strumento per velocizzare il diritto all’equa riparazione per l’eccessiva durata delle procedure giudiziarie. Tale norma, denominata “legge Pinto” dal suo estensore, successivamente modificata dalla L. n. 208/2015, è stata emanata richiamandosi al principio del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione e ispirandosi agli artt. 6 e 13 CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). Alla luce di questi principi, la legge Pinto dispone, all’art. 1-bis, comma 2, che “Chi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all’articolo 1- ter, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione”, determinata dal giudice ai sensi dell’art. 2056 del codice civile. In pratica si può ricorrere a tale strumento straordinario in qualsiasi giudizio civile, penale, amministrativo, contabile o fallimentare, nei casi in cui si ecceda il termine di durata ragionevole di un processo che va da due a sei anni (art. 2, c. 2-bis e ter, L. n.89/2001), mentre in caso di processo tributario tale strumento si applica solo in alcune controversie.

Per quanto oggi importa il nodo che occorre sciogliere è proprio sulla sua applicabilità nell’ambito del processo tributario.

Oggetto del contendere sarà un atto che è simbolo della potestà impositiva dello Stato: sarà proprio questo il discrimine che ha contrassegnato la giurisprudenza europea, prima, e quella nazionale dopo, nel negare la tutela ex legge Pinto alle parti di un processo tributario. Ricordiamo che già la Corte di Strasburgo, con due importanti sentenze, ha dubitato del riconoscimento a coloro che abbiano subito la lungaggine processuale in un giudizio tributario di poter chiedere l’equo indennizzo, nonostante il vigore dell’art. 6 della CEDU.  Si ricorda, dunque, la conosciuta sentenza Ferrazzini del 2001 in cui, in ossequio al suddetto articolo, la Corte Europea ha sostenuto che l’equo indennizzo spetta a tutti coloro che subiscono un pregiudizio in quei processi che vertono su un’accusa penale o in cui si discute di un diritto o dovere di carattere civile, escludendo così da questo ambito le obbligazioni tributarie, oggetto di giustizia tributaria, che hanno sì contenuto patrimoniale, ma si caratterizzano per essere dei “doveri civici imposti in una società democratica”.

Le obbligazioni patrimoniali nei confronti dello Stato devono, dunque, essere considerate di diritto pubblico poiché provengono da una imposizione, quella tributaria, frutto di una potestà pubblica: “la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere di imperio, poiché rimane predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività”.

L’orientamento giurisprudenziale della Corte EDU, alla fine, ha trovato pieno riconoscimento e conferma anche nel nostro ordinamento: la Suprema Corte di Cassazione ha più volte ribadito, sulla scia giurisprudenziale comunitaria, la non estensibilità dell’art. 6 CEDU alle controversie tra il cittadino privato contribuente e il Fisco, poiché il processo tributario ha ad oggetto provvedimenti impositivi, l’applicazione di tributi o, in ogni caso, atti che hanno origine da doveri pubblici.

Anche a tal proposito sono diverse le sentenze della Corte di Cassazione che mettono un punto preciso alla questione dirimente: si richiama, tra le altre, la sentenza n. 16212/2012, con cui la Cassazione sottolinea come ad essere “meritevoli di tutela sono i diritti e i doveri di carattere civile di ogni persona, ma non le obbligazioni di natura pubblicistica, pur potendo applicare la Legge n. 89/2001 alle richieste di rimborso di somme, rifluenti nell’area delle obbligazioni privatistiche, o anche le pretese tributarie dell’amministrazione qualora siano connesse a sanzioni, che in questo caso sono suscettibili di rientrare nell’art. 6 Cedu”; così come la sentenza n. 4282/2015, in cui si ribadisce che “la Legge Pinto, che prevede l’indennizzo per l’irragionevole durata del processo, non si applica nel caso di giudizio tributario, salvo che la controversia non verta sulle sanzioni fiscali”.

Ad esempio, la sentenza della Cassazione n. 13322/2012 afferma che “l’equa riparazione può essere richiesta anche con riguardo a controversie del giudice tributario che siano riferibili, in realtà, alla materia penale, da intendere come comprensiva delle controversie relative all’applicazione di sanzioni tributarie, se esse, per la gravità e secondo un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, risultino connotate da un carattere di afflittività a tal punto significativo, da farle apparire alternative a una sanzione penale ovvero a una sanzione che, in caso di mancato adempimento, sia commutabile in una misura detentiva”.

Il problema che si pone, in tal caso, è il contrasto giuridico che sorge tra il mancato riconoscimento al cittadino dell’equo indennizzo, in caso di violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ex art. 6 CEDU, nell’ambito di un giudizio tributario, e il principio del giusto processo ex art. 111 Costituzione che include, per gioco di forza, anche il processo tributario. 

Contrasto che la Cassazione dirime affermando che il principio del giusto processo, di cui è figlio il diritto alla ragionevole durata del processo, coinvolge non solo le parti del giudizio di cui si discute la perdurante e illegittima durata, ma il sistema normativo nel suo complesso e, dunque, il giudice nella interpretazione delle norme e nella funzione acceleratoria del processo svolto dinanzi a lui, così come il legislatore ordinario, che dovrà adottare adeguati strumenti normativi, atti a tutelare le parti in causa dai pregiudizi subiti da un processo lungo e a garantire la celerità della giustizia.

Tra tutte, si richiama la sentenza n. 1540/2007, che affermava: “il principio costituzionale di ragionevole durata del processo trova applicazione anche nel contenzioso tributario, senza che assuma alcun rilievo, in contrario, l’inapplicabilità al processo tributario della disciplina in materia di equa riparazione: esso, infatti, si rivolge non soltanto al giudice quale soggetto processuale, in funzione acceleratoria, ma anche e soprattutto al legislatore ordinario ed al giudice quale interprete della norma processuale, rappresentando un canone ermeneutico imprescindibili per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che regolano il processo, nonché a tutti i protagonisti del giudizio, ivi comprese le parti, le quali, soprattutto nei processi caratterizzati dalla difesa tecnica, debbono responsabilmente collaborare a circoscrivere tempestivamente i fatti effettivamente controversi”.

La Corte di Cassazione, pur ritenendo inapplicabili le disposizioni in materia di equa riparazione di cui alla citata legge 89, ha affermato in definitiva che il principio costituzionale di ragionevole durata si applica anche nel processo tributario, rivolgendosi al legislatore ordinario nell’adozione di adeguati strumenti normativi, al giudice, nell’interpretazione delle norme processuali e in funzione acceleratoria e alle parti le quali nel loro agire con responsabilità e collaborazione ammettendo anche  la legge Pinto  nel novero dei giudizi di ottemperanza davanti alle Commissioni tributarie, in quanto riguardanti pretese civili del contribuente che non investono la determinazione del tributo ovvero per quelli riguardanti crediti di imposta non contestati nella loro esistenza  o rimborsi di imposte indebitamente pagate.

Infine, vogliamo rammentare che anche la Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 58/2009, pur ritenendo non fondate le eccezioni di costituzionalità sollevate con riguardo alle disposizioni in materia di proroga dei termini di impugnazione a favore dell’Amministrazione finanziaria, ha ammesso che il principio della ragionevole durata possa comunque operare in materia tributaria, pur se contemperato con il complesso delle garanzie costituzionali rilevanti nel processo stesso.

Tanto premesso e tornando al caso oggi in esame, una società contribuente proponeva ricorso avverso gli atti di contestazione per l’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 53, comma 9, del D.lgs. n. 165/2001, per avere conferito un incarico retribuito a un professionista nel lontano 2006, senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza. Respinta l’istanza del contribuente in prime cure, i giudici tributari regionali nel 2013, invece, ne accoglievano il gravame ritenendo che la società F. era all’oscuro della qualifica di pubblico dipendente dell’incaricato e quindi non nelle condizioni di poter ottemperare alle disposizioni previste. Avverso detta pronuncia l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso per Cassazione suddiviso in tre motivi, nei quali essenzialmente si segnalava il difetto di giurisdizione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c. in quanto le controversie in materia di sanzioni irrogate a pubblici dipendenti non rientrano nella giurisdizione delle Commissioni tributarie. I Giudici della Suprema Corte hanno respinto tutte le osservazioni formulate dall’Avvocatura erariale, ritenendo invece che: “ … l’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo nonché della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24883 del 09/10/2008; cfr anche Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2067 del 28/01/2011; Cass. Sez. U, Sentenza n. 26019 del 30/10/2008; Cass. Sez. U, Sentenza n. 26019 del 30/10/2008). Il principio costituzionale della durata ragionevole del processo consente, quindi, come nella fattispecie, di escludere la rilevabilità davanti alla Corte di Cassazione, del difetto di giurisdizione qualora sul punto si sia formato un giudicato implicito, per effetto della implicita pronuncia sul merito in primo grado e della mancata impugnazione, al riguardo, dinanzi al giudice di appello. È, quindi, inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità dalla Agenzia delle Entrate che nel merito non aveva formulato alcuna eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2.  Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto attinge una valutazione di merito, non censurabile in sede di legittimità.  Il terzo motivo è infondato. Ed invero, la sentenza impugnata si è pronunciata in ordine all’assenza di colpa nella violazione contestata in quanto la qualifica di pubblico dipendente in capo all’Ing. R. poteva essere conosciuta solo a seguito di dichiarazione del medesimo o per un una serie di circostanze incompatibili con l’esercizio di attività professionale libera, nella specie non riscontrate. In conclusione il ricorso deve essere rigettato”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 4 gennaio 2022, n. 33

sul ricorso 24371/2013 proposto da:

Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che lo rappresenta e difende

-ricorrente –

contro F. A., F. A. Costruzioni Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in Roma Via Gian Giacomo Porro 8 presso lo studio dell’avvocato Carlevaro Anselmo che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Barla Giorgio

-controricorrenti-

avverso la sentenza n. 38/2013 della COMM.TRIB.REG., PIEMONTE, depositata il 25/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2021 dal Consigliere Dott. CIRESE MARINARI

Ritenuto che

con ricorso in data 4.11.2009 la F. A. Costruzioni s.p.a. proponeva ricorso avverso gli atti di contestazione con cui a F. A., in qualità di responsabile, ed alla società F. s.p.a. veniva contestata l’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001 per avere conferito un incarico retribuito all’Ing. R. T. nell’anno 2006 senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza nonché delle disposizioni di cui all’art. 53, comma 11, del d.lgs. n. 165 del 2001 per avere omesso la comunicazione dei compensi allo stesso corrisposti entro il 30 aprile dell’anno successivo.

La CTP di Cuneo con sentenza in data 13 maggio 2009 n. 51 rigettava il ricorso.

Proposto appello da parte dei contribuenti, la CTR del Piemonte in data 25.3.2013 accoglieva il gravame ritenendo che la società F. non avrebbe potuto essere a conoscenza della qualifica di pubblico dipendente dell’Ing. R. e quindi ottemperare alle disposizioni contenute nella L. n. 165 del 2001.

Avverso detta pronuncia l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione articolato in tre motivi cui resisteva con controricorso la F. Costruzioni s.p.a.

Considerato che

Con il primo motivo di ricorso rubricato “Difetto di giurisdizione ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 1 c.p.c. in quanto le controversie in materia di sanzioni irrogate a pubblici dipendenti non rientrano nella giurisdizione delle Commissioni tributarie” parte ricorrente deduceva che la questione oggetto del procedimento non rientra nella giurisdizione delle Commissioni tributarie bensì in quella dell’autorità giudiziaria ordinaria.

Con il secondo motivo di ricorso rubricato “Art. 360 n. 3 c.p.c.- Violazione art. 3, comma 2 I. n. 689 del 1981” parte ricorrente deduceva che erroneamente la CTR ha ritenuto che il contribuente non dovesse indagare sulla qualifica dell’Ing. R.

Con il terzo motivo di ricorso rubricato “360 n. 5 c.p.c.- omesso esame di fatto decisivo” parte ricorrente deduceva che la CTR ha motivato in modo illogico sul fatto che l’errore del contribuente non è stato determinato da colpa.

1. Il primo motivo è inammissibile.

Ed invero, l’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo nonché della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24883 del 09/10/2008; cfr anche Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2067 del 28/01/2011; Cass. Sez. U, Sentenza n. 26019 del 30/10/2008; Cass. Sez. U, Sentenza n. 26019 del 30/10/2008).

Il principio costituzionale della durata ragionevole del processo consente, quindi, come nella fattispecie, di escludere la rilevabilità davanti alla Corte di cassazione, del difetto di giurisdizione qualora sul punto si sia formato un giudicato implicito, per effetto della implicita pronuncia sul merito in primo grado e della mancata impugnazione, al riguardo, dinanzi al giudice di appello.

È, quindi, inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità dalla Agenzia delle Entrate che nel merito non aveva formulato alcuna eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2.

2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto attinge una valutazione di merito, non censurabile in sede di legittimità.

3. Il terzo motivo è infondato.

Ed invero, la sentenza impugnata si è pronunciata in ordine all’assenza di colpa nella violazione contestata in quanto la qualifica di pubblico dipendente in capo all’Ing. R. poteva essere conosciuta solo a seguito di dichiarazione del medesimo o per un una serie di circostanze incompatibili con l’esercizio di attività professionale libera, nella specie non riscontrate.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

La regolamentazione delle spese di lite, liquidata come da dispositivo, segue la soccombenza.

Non ricorrono le condizioni per l’applicazione al ricorrente dell’art. 13 comma 1 quater d.p.r. 30 maggio 2002 n. 115.

P.Q.M.

rigetta il ricorso;

condanna il contribuente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.000,00 oltre ad Euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettarie ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 2 dicembre 2021

Desidero ricevere in abbonamento gratuito il vostro periodico FiscotoDay