CASSAZIONE SENTENZE

Quando il commercialista può concorrere nel reato di dichiarazione fraudolenta

Tributi – Reati Tributari – Dichiarazione fraudolenta – Commercialista – Fatture o altri documenti per operazioni inesistenti – Elementi passivi fittizi – Dolo eventuale – Omessa segnalazione di anomalie in contabilità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 156 del 10 gennaio 2022, intervenendo sulle responsabilità del professionista incaricato come consulente fiscale ha affermato, in continuità con la costante giurisprudenza, che il commercialista di una società concorre nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, agendo a titolo di dolo eventuale.

Tale pronuncia ricalca in parte, seguendone la scia, le precisazioni offerte dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 28158 del 27 giugno 2019, che nello specifico indica che “… Si conclude, sulla base di questi elementi, che M.D. nell’esercizio delle funzioni di responsabile amministrativo e contabile della “S.D. s.r.l.”, ha contribuito alla realizzazione del disegno criminoso, operando in stretta collaborazione con N.T., autore materiale delle dichiarazioni fiscali mendaci, in diretta interlocuzione con i componenti del collegio sindacale per la “sistemazione” della documentazione societaria, ed impartendo «istruzioni […] al personale per i necessari aggiustamenti contabili [...] In particolare, le stesse si fondano su di una motivazione che evidenzia elementi specifici, e sostanzialmente non contestati nella loro ontologica verificazione, dai quali inferisce, in forza di criteri di inferenza accettabili, la piena consapevolezza del ricorrente in ordine alla inesistenza delle operazioni documentate nelle fatture utilizzate per predisporre le dichiarazioni fiscali da lui medesimo materialmente sottoscritte. Né può dirsi che risulta trascurato l’elemento segnalato dalla difesa come indicativo della buona fede del ricorrente: di tale elemento, la sentenza fornisce motivata spiegazione per escluderne ogni valenza favorevole all’imputato”.

Dunque la Cassazione torna con convinzione sull’ipotesi del concorso del professionista nel reato di dichiarazione fraudolenta, mediante altri artifizi, affermando che è del tutto plausibile il concorso del professionista con il contribuente nei reati previsti dal D.lgs. 74/2000, che nell’art. 2 tratta precipuamente della dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

Anche alcune sentenze precedenti, infatti, hanno riconosciuto con una certa continuità la responsabilità del commercialista per diversi reati tributari, tra i quali quello di emissione di fatture per operazioni inesistenti, indebita compensazione e anche quello della dichiarazione fraudolenta (ex multis, Cass. n. 50436/2015; Cass. n. 10916/2020).

La gestione del rischio connesso allo svolgimento della professione di consulente fiscale continua a essere sempre con maggiore frequenza una materia liquida, di volta in volta oggetto di esame da parte della giurisprudenza di legittimità, che attua interventi chiarificatori e spesse volte anche incisivi. Inoltre, è la stessa professionalità a essere costretta a confrontarsi con l’aspettativa della collettività, che vorrebbe che il consulente fosse un professionista che sa di doversi sottrarre da qualsiasi forma d’istigazione, concorso o favoreggiamento dell’illecito penal-tributario del contribuente da lui assistito.

Un breve sguardo ai precedenti giurisprudenziali, fra i quali citiamo la sentenza n. 1999/2018, nella quale si legge che “la responsabilità penale del commercialista a titolo di concorso di persone nel reato sussiste solo in caso di dolo”. Il Supremo Consesso ha riaffermato poi l’incontestato e condivisibile indirizzo secondo cui “il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA” (Cass. n. 52411/2018).

In buona sostanza la S.C. affermava, con l’arresto n. 28158/2019, un principio di diritto nel quale sosteneva che in tema di illeciti tributari il commercialista risponde in concorso con il cliente del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 2 del D.lgs. 74/2000. E’ il del commercialista che agendo con dolo eventuale era di fatto a conoscenza della falsità dei documenti in considerazione di precedenti accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza. Pertanto, il professionista deve rispondere in concorso con il cliente di tale reato ogniqualvolta abbia predisposto e inoltrato la dichiarazione fiscale, pur avendo a conoscenza o quantomeno il sospetto della falsità dei documenti.

Appare opportuno, a questo punto, dare contezza del fatto che la Suprema Corte, prima di giungere all’enunciazione del principio di diritto, aveva ripercorso l’excursus giurisprudenziale delle sentenze dei giudici di legittimità, nelle quali sono stati forniti alcuni chiarimenti in ordine alle caratteristiche e alle modalità di realizzazione della fattispecie concorsuale in argomento. La Suprema Corte ha sempre evidenziato che il professionista deve essere sorretto dalla coscienza e volontà di commettere l’illecito e, quindi, dalla consapevolezza di aver intenzionalmente dato un contributo causale, materiale o morale, alla realizzazione del reato del cliente, rimanendo così esclusi gli atti di natura colposa, come gli errori materiali o concettuali dovuti cioè a negligenza o imperizia.

A tal proposito, la giurisprudenza di legittimità muove innanzitutto dall’affermazione del principio secondo cui il commercialista possa concorrere nel reato di emissione di fatture false (Cass. Pen. n. 28341/2001), nell’indebita compensazione (Cass. Pen. n. 1999/2017; Cass. Pen. n. 24166/2011), così come nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (Cass. Pen. n. 39873/2013 e Cass. Pen. n. 7384/2018), anche se della frode abbia beneficiato il solo cliente. Peraltro, secondo l’orientamento dominante della giurisprudenza di legittimità, anche l’attività di mera consulenza è suscettibile d’integrare un fatto di partecipazione punibile laddove si offra all’esecutore il mezzo, lo strumento attraverso il quale perpetrare l’illecito e non versare, dunque, l’imposta dovuta.

Ciò posto, quando l’apporto è destinato a “soggetti palesemente incapaci di elaborare una frode senza il contributo di un fiscalista esperto” (Cass. Sent. n. 45249/2014), invece, al commercialista potrà essere contestata anche quella circostanza aggravante a effetto speciale che, introdotta dal D.lgs. 158/2015 all’art. 13-bis del citato D.lgs. 74/2000, prevede che le pene stabilite per i reati in materia di imposte sui redditi  e sul valore aggiunto sono aumentate della metà “… se il reato è commesso dal concorrente  nell’esercizio del’attività di consulenza fiscale  svolta da parte di un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale”.

Relativamente al profilo della colpevolezza, premesso che come pacificamente riconosciuto dalla sentenza n. 1999/2018, “… la responsabilità penale del commercialista a titolo di concorso di persone nel reato sussiste solo in caso di dolo”,  il Supremo Consesso ha riaffermato l’incontestato e condivisibile indirizzo secondo cui “il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 del D.lgs. n. 74/2000, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA” (Cass. n. 52411/2018).

Ricordiamo in proposito che il reato di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti è configurato, quanto all’elemento soggettivo, sulla base del dolo specifico, che secondo la norma, difatti, è compiuto da “… chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi”. In sostanza, la previsione di tale tipo di dolo rende punibile solo quell’imputato che abbia agito con un atteggiamento mentale volto a evadere le imposte e non invece per altri fini. Questo ragionamento probatorio si complica quando i giudici, segnatamente con riferimento al concorso del commercialista e in mancanza della dimostrazione del dolo diretto, tentano di ripiegare sulla figura del dolo eventuale, che si manifesta quando gli elementi di indagine non consentono di ritenere provate, in modo chiaro e diretto, la consapevolezza e la volontà di commettere il fatto.

La giurisprudenza, in questi casi, con riferimento specifico ad alcune tipologie di reato, si contenta della prova di una serie di indizi da cui poter desumere, su base logico deduttiva, che l’imputato aveva percepito che la propria condotta rischiava di condurre alla commissione del reato e, nonostante tale percezione, non si era fermato: detto in altri termini, in tali evenienze si afferma che l’imputato ha accettato un serio rischio di verificazione dell’evento e, dunque, è come se tale evento egli lo avesse voluto. Nel caso dei reati di frode fiscale e, ancor più specificamente, del concorso in tali reati, occorre dire che questo ragionamento probatorio viene utilizzato da una consolidata giurisprudenza anche con riferimento all’accertamento del dolo specifico di evasione.

Chiudiamo questa breve panoramica citando, infine, anche la pronunzia della Suprema Corte n. 1998/2020 nella quale, dopo una completa e articolata descrizione della fattispecie, si legge che: “… Orbene, la fattispecie della dichiarazione fraudolenta, di cui all’art. 2 D.lgs. n.74/2000, si connota come quella più grave ontologicamente in quanto non solo l’agente dichiara il falso, ma supporta la propria condotta mediante un “impianto contabile”, o più genericamente documentale, diretto a sviare o ostacolare la successiva attività di accertamento dell’Amministrazione, avvalorando in modo artificioso l’inveritiera prospettazione di dati inseriti nella dichiarazione. Tale fattispecie criminosa si configura come un reato di pericolo e di mera condotta, il quale si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescinde dal verificarsi dell’evento di danno. Ne consegue che, ai fini dell’individuazione della data di consumazione dell’illecito, non rileva l’effettività dell’evasione. Il reato è integrato con la presentazione della dichiarazione (Cass., S.U., n.27/2000, n. 32348/2015), in quanto il legislatore mira a reprimere penalmente lesole condotte direttamente correlate alla lesione degli interessi fiscali, rinunciando invece a perseguire quelle di carattere meramente preparatorio o formale (fatti prodromici alla effettiva lesione del bene giuridico protetto). Elemento costitutivo essenziale è dunque l’indicazione in una delle dichiarazioni di elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Dal momento che alla dichiarazione non vengono allegati documenti probatori, si chiarisce che si avvale della documentazione in questione chi li registra nelle scritture contabili obbligatorie o comunque li detiene al fine di prova nei confronti della Amministrazione”.

Tanto premesso e ritornando al caso oggetto della pronuncia in commento, un professionista era stato condannato dalla Corte d’appello perché riconosciuto responsabile dei reati  di cui all’art. 2, D.lgs. 74/2000 perché, quale professionista e depositario delle scritture contabili di due società era stato ritenuto al corrente dell’attività illecita posta in essere dalle stesse società e dagli amministratori, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in concorso con altri, e consentiva di indicare nelle dichiarazioni annuali relative a dette imposte  elementi passivi fittizi attraverso operazioni oggettivamente inesistenti.

Avverso tale sentenza il professionista ha proposto ricorso per Cassazione ricordando, fra i motivi di contestazione della sentenza, che nel giudizio della Corte d’appello era stata ignorata la giurisprudenza della Suprema Corte che ritiene il professionista rispondere a titolo di dolo eventuale dell’illecito tributario commesso dal cliente solo se conosce le gravi anomalie contabili dello stesso. La Suprema Corte ha respinto la tesi difensiva prospettata e, invece, ha affermato che: “… Va osservato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il commercialista di una società può concorrere nel reatodi dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, agendo a titolo di dolo eventuale. Risulta pacifica la configurabilità del concorso del commercialista con il contribuente, in generale, nei reati previsti dal D.lgs. n. 74 del 2000, e, più in particolare, nei reati connessi a dichiarazioni: si è affermato che il commercialista può concorrere, ex art. 110 cod. pen., nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, con l’emittente di queste ultime (Sez. 3, n. 28341 del 01/06/2001, Rv. 219679-01); lo stesso principio, inoltre, è stato affermato in relazione al reato di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 3, n.1999 del 14/11/2017, dep. 2018, Rv. 272713-01) ed in relazione al reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ove il commercialista è stato ritenuto concorre con il legale rappresentante dell’ente (cfr Sez 3 n. 28158 del 29.03.2019, Caldarelli e altri, non massimata; Sez. 3, n. 7384 del 27/02/2018, dep. 2019, Di Carlo ed altri; Sez.3 n. 19335 del 11/02/ 2015, Magistroni, non massimata; Sez. 3, n. 39873 del 16/04/2013, Proserpi, non massimata). Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il contributo causale del concorrente può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non solo in caso di concorso morale ma anche in caso di concorso materiale; il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti, e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato poiché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti (Sez.6,n.36818 del 22/05/2012,Rv.253347; Sez.4,n.4383 del 10/12/2013,dep. 30/01/2014, Rv.258185; Sez.4, n.24895 del 22/05/2007, Rv.236853; Sez.1, n.5631 del 17/01/2008, Rv.238648). La concezione unitaria del concorso di più persone nel reato, recepita nell’art.110 cod. pen., consente di ritenere che l’attività costitutiva della partecipazione può essere rappresentata da qualsiasi contributo, di carattere materiale o psichico, del quale deve essere, nondimeno, fornita idonea prova, anche in via logica o indiziaria, mediante elementi dotati di sicura attitudine rappresentativa che involgano sia il rapporto di causalità materiale tra condotta e evento che il sostrato psicologico dell’azione (cfr. in tema di concorso materiale, Sez. 4, n. 1236 del 16/11/2017, dep. 2018, Raduano, Rv. 271755-01, nonché, per in tema di concorso morale, Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226101-01, e Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, Villacaro, Rv. 262310-01).Con riguardo al profilo della colpevolezza, va rimarcato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA ( Sez. 3, n. 52411 del 19/06/2018, Rv. 274104-01, e Sez. 3, n. 30492 del 23/06/2015, Rv. 264395-01). Ciò posto, la Corte di appello, nel ritenere la responsabilità concorsuale del L. nel reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74/2000, ha fatto buon governo dei suesposti prìncipi diritti, con motivazione congrua e non manifestamente illogica o contraddittoria, contrastata genericamente dal ricorrente, con la sostanziale riproposizione delle medesime questioni di merito relativamente alla valutazione degli apporti dichiarativi valorizzati in sentenza. I Giudici di appello hanno evidenziato che il ricorrente, nella sua qualità di commercialista, aveva tenuto la contabilità delle società di cui all’imputazione, curandone la registrazione delle fatture ed effettuando le dichiarazioni dei redditi; in particolare, le risultanze documentali, confermate dall’imputato in sede di esame, comprovavano che, nel periodo temporale considerato in imputazione, tutte le dichiarazioni fiscali dellesocietà M. T. e G.A. I. Bussines, erano state predisposte dal L. e firmate con il suo codice fiscale e che lo stesso aveva depositato i bilanci delle predette società con la sua smart card.Hanno, poi, rimarcato che: il ricorrente era a conoscenza di varie anomalie concernenti la contabilità delle società, quali la presenza di numerose autofatture (con identità di nome tra cedente ed acquirente) per importi rilevanti e prelievi di somme in contanti dell’importo oscillante tra 10.000,00 e 30.000,00 euro al giorno; tali anomalie gli erano state più volte segnalate dalla sua dipendente De S., che, sotto le direttive del medesimo, curava la registrazione delle fatture; il L., pur rilevando tali anomalie ed essendo consapevole della necessità della presentazione delle autofatture all’Agenzia delle Entrate e della segnalazione alla Guardia di Finanza per i prelievi in contanti, non si attivava in tal senso, ma proseguiva nell’assistenza fiscale delle società per il timore di perdere clienti (come dallo stesso dichiarato in sede di esame), così contribuendo all’attuazione del meccanismo fraudolento che aveva consentito all’amministratore delle società di avvalersi di documentazione fittizia. La Corte territoriale, poi, osservava, quanto al profilo soggettivo della condotta partecipativa, che plurimi elementi fattuali comprovavano la sussistenza del dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione potesse comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva; in particolare, risultava rilevante sia il numero complessivo delle fatture, sia l’importo delle stesse, sia la non occasionalità dei fatti;inoltre, la circostanza delle eccessive movimentazioni di contanti effettuate costituiva un forte segnale di allarme per comprendere la natura di cartiere delle due società di cui curava la contabilità da più anni. In definitiva, i Giudici di merito hanno correttamente rilevato, sotto il profilo materiale, che il contributo causale del ricorrente alla commissione dei reati di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 andava individuato nelle azioni costituite dalla predisposizione e dall’inoltro delle dichiarazioni fiscali contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da fatture per operazioni inesistenti, trattandosi di condotte di sicura agevolazione materiale. Inoltre, un’ulteriore forma di contributo partecipativo, rilevante se non altro come rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, è stata correttamente individuata nella omessa segnalazione di una serie di anomalie rilevate nella contabilità delle società e nella prosecuzione dell’attività di assistenza fiscale. Con riferimento al profilo soggettivo, poi, la Corte di appello ha valorizzato una pluralità di elementi indiziari pienamente convergenti, desumibili da differenti fonti di prova che, complessivamente valutati, hanno evidenziato la sussistenza del dolo, quanto meno eventuale. Ne consegue, pertanto, l’infondatezza delle doglianze. 3. Il ricorso va, dunque, rigettato e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del procedimento”.

Corte di Cassazione – Sentenza 10 gennaio 2022, n. 156

sul ricorso proposto da:

L. C., nato a Como il 01/11/1965 avverso la sentenza del 11/01/2021 della Corte di appello di Milano

 visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Antonella Di Stasi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pasquale Fimiani, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso;

udito per l’imputato l’avv. Massimo Di Marco, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e riportandosi ai motivi.

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza del 11/01/2021, la Corte di appello di Milano confermava la sentenza emessa in data 21/03/2019 dal Tribunale di Como, che aveva dichiarato L. C. responsabile dei reati di cui all’art. 2 d.lgs 74/2000 a lui ascritti ai capi D) e G) dell’imputazione – perché quale professionista e depositario delle scritture contabili delle società “M. T. s.r.l.” e G.A. I. B. s.r.I., consapevole dell’attività illecita posta in essere dalle stesse società e dagli amministratori, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in concorso con P. M. e A. G., consentiva di indicare nelle dichiarazioni annuali relative a dette imposte (anni 2010, 2011 e 2012 con riferimento alla prima società e anni 2013 e 2014 con riferimento alla seconda società) numerosi elementi passivi fittizi avvalendosi di documenti relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti per l’importo complessivo di euro 4.360.536,27 per la prima società e di euro 5.915.251,12 per la seconda società – e lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione. 2.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione L. C., a mezzo del difensore di fiducia, articolando tre motivi di seguito enunciati.

Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali.

Argomenta che la Corte di appello aveva confermato l’affermazione di penale responsabilità del L. limitandosi ad eseguire un rinvio per relationem alla sentenza di primo grado ed a fornire indicazioni assertive ed apodittiche, prive di concrete risposte ai plurimi motivi di appello;

le argomentazioni dei Giudici di appello erano, pertanto, apparenti ed integravano il vizio di omessa motivazione;

apparente era anche la valutazione di rilevanza delle dichiarazioni dei testi G. e De S.;

la Corte territoriale, poi, non aveva fatto alcun riferimento all’importante deposizione del consulente dr. T. M. e data una lettura distorta alle dichiarazioni rese dall’imputato.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 2 d.lgs 74/2000 e vizio di motivazione con riferimento all’elemento oggettivo del reato.

Argomenta che il ricorrente non aveva partecipato alla creazione del meccanismo fraudolento posto in essere dai coimputati P. e A. ma di esserne vittima;

la sentenza impugnata aveva confermato la sussistenza dei reati contestati valutando in maniera contraddittoria le risultanze istruttorie e basandosi essenzialmente sulla qualifica di commercialista dell’imputato; numerose erano le circostanze emerse che comprovavano che il ricorrente non era consapevole della frode né dei propositi illeciti dell’organizzazione;

il ricorrente, inoltre, controllava la regolarità delle fatture e non poteva avvedersi che esse erano relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto non aveva mai visionato i documenti accompagnatori né aveva un obbligo in merito; ribadisce che il solo fatto di essere stato il commercialista di due società che avevano commesso illeciti non poteva comportare l’automatica condanna in concorso per i reati contestati; le sentenze di primo e di secondo grado, infine riportavano gravi errori e gravi contraddizioni che erano state fuorvianti nella ricostruzione dei fatti.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 2 d.lgs 74/2000 e vizio di motivazione con riferimento all’elemento soggettivo del reato.

Argomenta che secondo la giurisprudenza della Suprema Corte il professionista risponde a titolo di dolo eventuale dell’illecito tributario commesso dal cliente solo se conosce le gravi anomalie contabili del cliente;

 il ricorrente non aveva mai dubitato della genuinità della documentazione prodotta dai clienti e poteva essere tacciato di negligenza e superficialità nel controllo ma tanto non poteva integrare il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva;

le dichiarazioni rese dai testi De S. e G. dimostravano che il ricorrente era all’oscuro di un siffatto rischio;

anche le dichiarazioni rese dall’imputato in sede di esame, lungi dall’avere contenuto confessorio, evidenziavano l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata. 3. La difesa del ricorrente ha chiesto, a norma dell’art. 23, comma 8, d.I n. 137 del 2020, conv. in I. n. 176/2020, la trattazione orale del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.11 primo motivo di ricorso è inammissibile, secondo le argomentazioni che seguono.

Va ricordato che, in caso di “doppia conforme” affermazione di responsabilità, come nella specie, è pienamente ammissibile la motivazione della sentenza di appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi.

E’, infatti, giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico – giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez.3, n.44418 del 16/07/2013, Rv.257595; Sez. 2 n. 34891 del 16.05.2013, Vecchia, Rv. 256096, non massimata sul punto; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1.12.2011, dep. 12.4.2012, Valerio, Rv. 252615: sez. 2, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2. 1994, Albergamo ed altri, Rv. 197250).

Ne consegue che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure, dovendo soltanto rispondere in modo congruo alle singole doglianze prospettate dall’appellante. In questo caso il controllo del giudice di legittimità si estenderà alla verifica della congruità e logicità delle risposte fornite alle predette censure. Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nella motivazione della sentenza, il giudice del gravame di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo.

Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. sez. 6, n. 49970 del 19.10.2012, Muià ed altri rv.254107, Sez 3, n.7406 del 15/01/2015, dep. 19/02/2015, Rv.262423).

La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d’appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono “l’ossatura” dello schema difensivo dell’imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell’iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26.9.2002, dep. 14.1.2003, Delvai, Rv. 223061).

Nella specie, la Corte di Appello non si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado, ma ha fornito compiuta risposta ai motivi di appello, come specificamente enunciati nella parte espositiva della sentenza di appello (cfr pag. 5,6,7,8,9,10,11,12 della sentenza impugnata).

La doglianza proposta si appalesa, di contro, del tutto generica, in quanto meramente contestativa e priva di specifica esposizione delle questioni che sarebbero state sollevate con il gravame ed alle quali i Giudici di appello non avrebbero fornito riscontro argomentativo.

Il ricorrente, infatti, si limita a lamentare il mancato esame delle censure contenute nel proprio gravame senza esporre in concreto il contenuto delle questioni che non sarebbero state esaminate dalla Corte territoriale, se non con il richiamo numerico ad alcune delle pagine dell’atto di appello. Va ricordato che in tema di ricorso per cassazione, i relativi motivi non possono limitarsi al semplice richiamo “per relationem” ai motivi di appello, allo scopo di dedurre, con riferimento ad essi, la mancanza di motivazione della sentenza che si intende impugnare.

Requisito, infatti, dei motivi di impugnazione è la loro specificità, consistente nella precisa e determinata indicazione dei punti di fatto e delle questioni di diritto da sottoporre al giudice del gravame. Conseguentemente, la mancanza di tali requisiti rende l’atto di impugnazione inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio ed a produrre effetti diversi dalla dichiarazione di inammissibilità (Sez.5, n.2896 del 09/12/1998, dep.03/03/1999, Rv.212610; Sez.2, n.27044 del 29/05/2003, Rv.225168; Sez.6, n.21858 del 19/12/2006, dep.05/06/2007, Rv.236689; Sez. 2, n. 9029 del 05/11/2013, dep.25/02/2014, Rv.258962).

Del pari inammissibili sono le restanti doglianze; in particolare, la contestazione relativa alla valutazione del materiale probatorio non solo risulta genericamente formulata ma si connota quale inammissibile censura di merito volta a richiedere sostanzialmente una rivisitazione, non consentita in questa sede, delle risultanze istruttorie.

2. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, entrambi relativi alla sussistenza del reato contestato, sono infondati.

Va osservato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il commercialista di una società può concorrere nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, agendo a titolo di dolo eventuale.

Risulta pacifica la configurabilità del concorso del commercialista con il contribuente, in generale, nei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e, più in particolare, nei reati connessi a dichiarazioni: si è affermato che il commercialista può concorrere, ex art. 110 cod. pen., nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, con l’emittente di queste ultime (Sez. 3, n. 28341 del 01/06/2001, Rv. 219679-01);

lo stesso principio, inoltre, è stato affermato in relazione al reato di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 3, n.1999 del 14/11/2017, dep. 2018, Rv. 272713-01) ed in relazione al reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ove il commercialista è stato ritenuto concorre con il legale rappresentante dell’ente (cfr Sez 3 n. 28158 del 29.03.2019, Caldarelli e altri, non massimata; Sez. 3, n. 7384 del 27/02/2018, dep. 2019, Di Carlo ed altri; Sez.3 n. 19335 del 11/02/ 2015, Magistroni, non massimata; Sez. 3, n. 39873 del 16/04/2013, Proserpi, non massimata).

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il contributo causale del concorrente può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non solo in caso di concorso morale ma anche in caso di concorso materiale; il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà.

Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti, e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato poiché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti (Sez.6,n.36818 del 22/05/2012,Rv.253347; Sez.4,n.4383 del 10/12/2013,dep. 30/01/2014, Rv.258185; Sez.4, n.24895 del 22/05/2007, Rv.236853; Sez.1, n.5631 del 17/01/2008, Rv.238648).

La concezione unitaria del concorso di più persone nel reato, recepita nell’art.110 cod. pen., consente di ritenere che l’attività costitutiva della partecipazione può essere rappresentata da qualsiasi contributo, di carattere materiale o psichico, del quale deve essere, nondimeno, fornita idonea prova, anche in via logica o indiziaria, mediante elementi dotati di sicura attitudine rappresentativa che involgano sia il rapporto di causalità materiale tra condotta e evento che il sostrato psicologico dell’azione (cfr. in tema di concorso materiale, Sez. 4, n. 1236 del 16/11/2017, dep. 2018, Raduano, Rv. 271755-01, nonché, per in tema di concorso morale, Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226101-01, e Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, Villacaro, Rv. 262310-01).

Con riguardo al profilo della colpevolezza, va rimarcato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA ( Sez. 3, n. 52411 del 19/06/2018, Rv. 274104-01, e Sez. 3, n. 30492 del 23/06/2015, Rv. 264395-01).

Ciò posto, la Corte di appello, nel ritenere la responsabilità concorsuale del L. nel reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74/2000, ha fatto buon governo dei suesposti prìncipi diritti, con motivazione congrua e non manifestamente illogica o contraddittoria, contrastata genericamente dal ricorrente, con la sostanziale riproposizione delle medesime questioni di merito relativamente alla valutazione degli apporti dichiarativi valorizzati in sentenza.

I Giudici di appello hanno evidenziato che il ricorrente, nella sua qualità di commercialista, aveva tenuto la contabilità delle società di cui all’imputazione, curandone la registrazione delle fatture ed effettuando le dichiarazioni dei redditi; in particolare, le risultanze documentali, confermate dall’imputato in sede di esame, comprovavano che, nel periodo temporale considerato in imputazione, tutte le dichiarazioni fiscali delle società M. T. e G.A. I. Bussines, erano state predisposte dal L. e firmate con il suo codice fiscale e che lo stesso aveva depositato i bilanci delle predette società con la sua smart card.

Hanno, poi, rimarcato che:

il ricorrente era a conoscenza di varie anomalie concernenti la contabilità delle società, quali la presenza di numerose autofatture (con identità di nome tra cedente ed acquirente) per importi rilevanti e prelievi di somme in contanti dell’importo oscillante tra 10.000,00 e 30.000,00 euro al giorno; tali anomalie gli erano state più volte segnalate dalla sua dipendente De S., che, sotto le direttive del medesimo, curava la registrazione delle fatture; il L., pur rilevando tali anomalie ed essendo consapevole della necessità della presentazione delle autofatture all’Agenzia delle Entrate e della segnalazione alla Guardia di Finanza per i prelievi in contanti, non si attivava in tal senso, ma proseguiva nell’assistenza fiscale delle società per il timore di perdere clienti (come dallo stesso dichiarato in sede di esame), così contribuendo all’attuazione del meccanismo fraudolento che aveva consentito all’amministratore delle società di avvalersi di documentazione fittizia.

La Corte territoriale, poi, osservava, quanto al profilo soggettivo della condotta partecipativa, che plurimi elementi fattuali comprovavano la sussistenza del dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione potesse comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva; in particolare, risultava rilevante sia il numero complessivo delle fatture, sia l’importo delle stesse, sia la non occasionalità dei fatti; inoltre, la circostanza delle eccessive movimentazioni di contanti effettuate costituiva un forte segnale di allarme per comprendere la natura di cartiere delle due società di cui curava la contabilità da più anni. In definitiva, i Giudici di merito hanno correttamente rilevato, sotto il profilo materiale, che il contributo causale del ricorrente alla commissione dei reati di cui all’art. 2 D.lgs. n. 74 del 2000 andava individuato nelle azioni costituite dalla predisposizione e dall’inoltro delle dichiarazioni fiscali contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da fatture per operazioni inesistenti, trattandosi di condotte di sicura agevolazione materiale.

Inoltre, un’ulteriore forma di contributo partecipativo, rilevante se non altro come rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, è stata correttamente individuata nella omessa segnalazione di una serie di anomalie rilevate nella contabilità delle società e nella prosecuzione dell’attività di assistenza fiscale. Con riferimento al profilo soggettivo, poi, la Corte di appello ha valorizzato una pluralità di elementi indiziari pienamente convergenti, desumibili da differenti fonti di prova che, complessivamente valutati, hanno evidenziato la sussistenza del dolo, quanto meno eventuale. Ne consegue, pertanto, l’infondatezza delle doglianze. 3. Il ricorso va, dunque, rigettato e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 18/11/2021

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