CASSAZIONE

Per definire i requisiti soggettivi di fallibilità serve un “calcolo ricavi” su misura

Fallimento – Requisiti soggettivi di fallibilità – Consistenza dimensionale dell’impresa – Esonero – Individuazione dei ricavi lordi – Voce di bilancio “altri ricavi e proventi”

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 23484 del 26 agosto 2021 ha stabilito che, ai fini della determinazione dei ricavi lordi di cui all’art. 1, comma 2, lett. b), della legge fallimentare – oggiaggiornata con le modifiche apportate dalla legge 159/2020 (che ha convertito con modificazioni il D.l. 125/2020) – entrata in vigore il 4 dicembre 2020, deve tenere in considerazione soltanto lo schema obbligatorio del conto economico. Del resto, il citato articolo recita: “ … aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila”,  significando che si deve tener conto solo dei ricavi risultanti dal conto economico del bilancio relativi alle attività commerciali abituali dell’impresa e a quelle accessorie derivanti dalla gestione non caratteristica. Pertanto, anche a parere degli Ermellini, solo tali ricavi sono idonei a misurare l’effettiva consistenza economica e finanziaria. 

I giudici di Piazza Cavour hanno di fatto ben chiarito che per l’individuazione dei ricavi lordi ai fini della fallibilità di una impresa, si deve quindi far riferimento allo schema obbligatorio del conto economico di cui all’articolo 2425 lettera a), del codice civile, riferendosi alla voce n. 1 e alla n. 5 escludendo, invece, gli “altri proventi” che, come nella specie, corrispondano invece a sopravvenienze attive derivanti una tantum dalla contestuale riduzione dell’accantonamento per rischi iscritto nell’esercizio precedente in ragione di un contenzioso pendente.

Come è noto, il Legislatore della riforma del diritto fallimentare, attuata mediante il D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, aveva rimodulato i presupposti per la dichiarazione di fallimento nel manifestato obiettivo di serbare una procedura indubbiamente lunga e costosa, qual è quella fallimentare, alle sole situazioni particolarmente rilevanti da un punto di vista economico e patrimoniale.

La novità più rimarchevole dell’intervento riformatore era costituita dal fatto che il criterio dal tenore qualitativo, non numerico, del “piccolo imprenditore” (rimasto essenzialmente in vigore, a seguito dell’abolizione dell’imposta di ricchezza mobile e della sentenza n. 570 del 1989 con cui la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’incostituzionalità del criterio del capitale investito, solo nella parte in cui escludeva dal concetto di piccolo imprenditore le società commerciali, rimandando peraltro all’art. 2083 del codice civile per l’individuazione del piccolo imprenditore) era stato definito e delimitato attraverso la previsione di due requisiti ancorati a parametri numerici, rappresentati dal superamento delle soglie degli “investimenti effettuati” e dei “ricavi lordi” conseguiti dall’imprenditore.

La giurisprudenza formatasi sotto l’art. 1 della legge fallimentare, nella sua formulazione scaturita dalla riforma del 2006 (rimasta in vigore fino al 31 dicembre 2007), aveva ritenuto che per “capitale investito” dovesse intendersi ogni investimento, anche se frutto del c.d. autofinanziamento, effettuato dall’imprenditore per l’acquisto di macchinari e di merci, per l’allestimento di negozi e impianti e, in definitiva, la quantità di ricchezza immessa nell’attività commerciale.

La Corte si è espressa in merito proprio con la sentenza n. 22150/2010, secondo la quale “la nozione di “capitale investito”, ai fini del riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore, all’esclusivo fine di integrare il parametro dimensionale ostativo all’assoggettabilità al fallimento, se non superiore a trecentomila euro, si ricava dai principi contabili, cui si richiama l’art. 1, secondo comma, lett. a), della legge fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, applicabile “ratione temporis” e poi modificato, con mera precisazione, con il d.lgs. n. 169 del 2007, e consiste in tutto l’attivo che fa parte dello stato patrimoniale da indicare nel bilancio, ai sensi dell’art. 2424 cod. civ. e cioè nella nozione, applicabile tanto all’imprenditore individuale che a quello collettivo, di patrimonio, trasformato o meno in strumenti per la produzione ovvero ancora in attesa di allocazione, a disposizione dell’imprenditore, e dunque ricomprendente anche i crediti”.

Con tale interpretazione venivano dunque ricompresi tutti i beni collegati all’impresa da uno stabile vincolo di destinazione, sia quelli già di proprietà dell’imprenditore, sia quelli acquistati con denaro proprio o di terzi, sia infine le attività immobilizzate e quelle circolanti, compresi i beni acquistati con patto di riservato dominio.

Al riguardo ricordiamo anche la pronunzia della Cassazione, la n. 28667 del 27 dicembre 2013, nella quale veniva affermato il seguente principio: “… Deve ritenersi che il legislatore della riforma fallimentare, nella previsione del requisito di cui alla lett. b) dell’art.1 L.F., abbia fatto riferimento allo schema obbligatorio del conto economico, di cui all’art.2425, e, in particolare, al suo primo raggruppamento, sub lett. A). Detto raggruppamento, oltre alle voci che rappresentano veri e propri ricavi (voci sub nn. 1 e 5), prevede altre voci. Partendo dal rilievo di base, che il legislatore, nel riferirsi ai ‘ricavi’, non può che avere considerato gli stessi in senso tecnico, non potendosi ragionevolmente presumersi il contrario, deve ritenersi di piana evidenza il riferimento ai ‘ricavi delle vendite e delle prestazioni’ sub n. 1, ed altresì la ricomprensione della voce sub n.5, ‘altri ricavi e proventi’, per l’assimilazione della seconda voce alla prima, trattandosi di componenti positive, quali ricavi accessori, dividendi, royalties, canoni attivi, sempre generati dall’attività d’impresa. Non possono invece sommarsi le voci sub n. 2, ‘variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti’, e sub n. 3, ‘variazioni dei lavori in corso su ordinazione’, che non possono essere considerate ricavi, nemmeno concettualmente assimilabili alla più ampia nozione di ‘proventi’, ma, come rilevato da attenta dottrina, rappresentano invece costi comuni a più esercizi, che vengono sospesi in conformità al principio di competenza economica, ex art. 2423 bis cod.civ., per essere rinviati ai successivi esercizi, in cui si conseguiranno i correlativi ricavi; e la variazione delle rimanenze determina la differenza dei costi sospesi alla fine dei due esercizi consecutivi. Neppure la voce sub n.4), ‘incrementi di immobilizzazioni per lavori interni’ può essere ricompresa nei ‘ricavi’, valutabili ex art. 1, lett. b) L.F., non partecipando della natura propria di questi”.

Oggi il Legislatore, secondo il parere dei Supremi Giudici, nel riferirsi ai ricavi ha considerato gli stessi in senso tecnico, con la conseguenza che deve farsi riferimento sia ai ricavi delle vendite e delle prestazioni (sub n. l, dell’articolo 2425 del c.c.), sia alla voce sub n. 5, altri ricavi e proventi, perché voce assimilabile alla prima, trattandosi di componenti positive quali ricavi accessori, dividendi, royalties, canoni attivi.

Non possono invece sommarsi le voci sub n. 2, cioè le variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semi lavorati e finiti, e sub n. 3, dello stesso articolo 2425, che comprende le variazioni dei lavori in corso su ordinazione, che non possono essere considerate ricavi, nemmeno concettualmente assimilabili alla più ampia nozione di proventi.  Ciò significa che contano ricavi delle vendite e delle prestazioni e vanno invece escluse le variazioni delle rimanenze e i lavori in corso, che non possono essere considerati ricavi. La Corte intende che queste ultime voci rappresentano costi comuni a più esercizi che vengono sospesi in conformità del principio di competenza economica per essere rinviati ai successivi esercizi.

Tanto premesso e tornando al caso oggi in esame, la vicenda prende origine dalla sentenza della Corte d’appello di Venezia che, accogliendo il reclamo ex articolo 18 della legge fallimentare proposto da una società in liquidazione, revocava la sentenza dichiarativa del fallimento della società esposto dal Tribunale di Verona.

La Corte giudicava la società non soggetta a fallimento perché controllando gli ultimi tre bilanci depositati, l’attivo patrimoniale era inferiore a 300.000 euro, l’ammontare dei debiti scaduti era inferiore a 500.000 euro e, dalle informazioni in calce allo stato patrimoniale del bilancio 2017, la voce “altri ricavi e proventi” era stata incrementata di oltre 330.000 euro, superando così la soglia dei 200.000 euro prevista come soglia di fallibilità. Per la Corte d’appello l’incremento non costituiva “ricavo lordo” in senso tecnico, da non considerare ai fini della fallibilità dell’azienda.

La Cassazione ha rigettato il ricorso e attestato la revoca del fallimento, ritenendo che “… In ordine al requisito dimensionale di esonero dalla fallibilità di cui all’art. alla lettera b cit., questa Corte ha più volte affermato che « per l’individuazione dei “ricavi lordi”, che vanno considerati ricavi in senso tecnico, occorre fare riferimento alle voci n. 1 («ricavi delle vendite e delle prestazioni») e n. 5 («altri ricavi e proventi») dello schema obbligatorio di conto economico previsto dall’art. 2425, lett. A, cod. civ.» (Cass., 27 dicembre 2013, n. 28667; conf. Cass., 5 marzo 2015, n. 4526; Cass., 19 aprile 2016, n. 7742, non massimata; Cass., 10 dicembre 2018, n. 31825).  E’ stato, in particolare, precisato, che:

-il legislatore della riforma fallimentare, nella previsione del requisito in esame, ha fatto riferimento allo schema obbligatorio del conto economico, di cui all’art. 2425 cod. civ., e, in particolare, al suo primo raggruppamento, sub lett. A;

-il legislatore, nel riferirsi ai «ricavi», ha considerato gli stessi in senso tecnico, con la conseguenza che deve farsi riferimento sia ai «ricavi delle vendite e delle prestazioni» sub n. 1, sia alla voce sub n.5, «altri ricavi e proventi», perché voce assimilabile alla prima, trattandosi di componenti positive, quali “ricavi accessori, dividendi, royalties, canoni attivi”;

-non possono, invece, sommarsi le voci sub n. 2, «variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti», e sub n. 3, «variazioni dei lavori in corso su ordinazione», che non possono essere considerate ricavi, nemmeno concettualmente assimilabili alla più ampia nozione di «proventi»;

– come rilevato da attenta dottrina, queste ultime voci rappresentano invece costi comuni a più esercizi, che vengono sospesi in conformità al principio di competenza economica, ex art. 2423 bis cod. civ., per essere rinviati ai successivi esercizi, in cui si conseguiranno i correlativi ricavi; Cass. n. 2018 n. 31825/2018 cit. ha ulteriormente precisato che il criterio quantitativo dei ricavi lordi va correlato alle gestione ordinaria dell’impresa, donde dalla nozione rilevante per l’art. 1, comma 2 lett. b. L. fall, restano fuori i proventi finanziari, le rivalutazioni e i proventi straordinari rispettivamente indicati dall’art. 2425 cod. civ., lett. C, D ed E (ovvero quei proventi che non contribuiscono a definire la dimensione economica corrente dell’impresa, in funzione dell’allarme sociale che la sua crisi può generare).

Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi in ordine alla questione in questa sede controversa.

 Ciò che rileva, infatti, ai fini dell’individuazione del parametro dimensionale di cui alla legge fallimentare, è il valore dei ricavi lordi totali risultanti dal conto economico che afferiscono alle attività commerciali specifiche dell’impresa (ovvero alle attività che questa svolge in modo abituale) o a quelle accessorie derivanti dalla gestione non caratteristica (ad. es. proventi dei beni tenuti a scopo di investimento, canoni attivi, royalties) e che siano pertanto idonei a misurarne l’effettiva consistenza economica e finanziaria.

Fra questi non rientrano “gli altri proventi” che, come nella specie, corrispondano invece a sopravvenienze attive derivanti, “una tantum”, dalla contestuale riduzione dell’accantonamento per rischi iscritto nell’esercizio precedente in ragione di un contenzioso pendente; accantonamento che rappresenta null’altro che una passività potenziale (la possibile perdita originata dalla vertenza), il cui effettivo concretizzarsi, oltre che effettivo ammontare, è subordinato al verificarsi di un evento futuro, (il passaggio in giudicato della sentenza che decide la controversia).La variazione contabile che scaturisce dal definitivo venir meno (in tutto o in parte) della passività prudenzialmente stimata nel fondo rischi e dall’appostazione nella voce A5, «altri ricavi e proventi» del valore positivo corrispondente alla differenza tra quanto accantonato e quanto effettivamente dovuto, non è dunque, all’evidenza, in alcun modo correlata alla gestione ordinaria (caratteristica o meno) dell’impresa e non può pertanto essere considerata un ricavo in senso tecnico”.

Corte di Cassazione Sentenza 26 agosto 2021, n. 23484

sul ricorso n. 202/2019 proposto da:

C. S.r.l., rappresentata e difesa, giusta procura speciale rilasciata in calce al ricorso per cassazione, dall’avv. Mauro Regis, ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Maurizio Vinci, in Roma, via Umberto Lusena, n. 9.

-ricorrente –

contro I. A. S.r.l., in liquidazione, rappresentata e difesa dall’avv. A. Domenico Sella, elettivamente domiciliato in Roma, Corso Trieste, n. 109, presso lo studio dell’Avv. Donato Mondelli, giusta procura speciale a margine del controricorso

-controricorrente e nei confronti di

Fallimento della società Immobiliare Albe s.r.l., in liquidazione. -intimato – avverso la sentenza n. 3103/2018 della Corte di appello di VENEZIA, pubblicata il 15 novembre 2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16 dicembre 2020 dal Consigliere Lunella Caradonna; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott.ssa Anna Maria Soldi, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; udito, per la parte controricorrente, l’Avv. Donato Mondelli che ha concluso per l’inammissibilità e/o il rigetto del ricorso;

Fatti di causa

1. Con sentenza del 15 novembre 2018, la Corte d’appello di Venezia, in accoglimento del reclamo ex art. 18 L. fall., proposto da I.A. s.r.l. in liquidazione, ha revocato la sentenza dichiarativa del fallimento della società, emessa il 2 agosto 2018 dal Tribunale di Verona, su istanza di C. s.r.l.

2. La corte del merito ha ritenuto la reclamante non assoggettabile a fallimento, ai sensi dell’art. 1, comma 2, L. fall.; in particolare, premesso che, secondo quanto emergente dai bilanci depositati da I.A., l’attivo patrimoniale negli ultimi tre esercizi era inferiore ad € 300.000,00 e l’ammontare dei debiti scaduti non risultava superiore ad € 500.000,00, ha rilevato: che dalle informazioni in calce allo stato patrimoniale del bilancio 2017, presentato telematicamente dalla reclamante al Registro delle Imprese, il Fondo Rischi, valorizzato al 31.12.2016 in € 550.699, era stato ridotto ad € 171.231,00 al 31.12.2017 e, corrispondentemente, la voce “altri ricavi e proventi” era passata da 1 euro al 31.12.2016 ad € 339.721,00 al 31.12.2017; che tale ultimo importo non costituiva dunque “ricavo lordo” in senso tecnico, derivando da una mera variazione contabile, prevista dal principio contabile OIC 31, dovuta alla definitiva riduzione del debito verso C., in precedenza controverso in giudizio, per effetto del passaggio in giudicato della sentenza che ne aveva accertato l’effettivo, minore ammontare; che, in conseguenza, doveva escludersi anche il superamento della soglia di € 200.000,00 per i ricavi.

3. Avverso la sentenza C. S.r.l. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui I.A. S.r.l. in liquidazione ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.

4. Il Fallimento di I.A. s.r.l. non ha svolto attività difensiva.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., del combinato disposto degli artt. 1, comma 2, lett. b), L. fall., e 2425, lett. a), cod. civ., perché, in applicazione dei principi statuiti dalle sentenze del giudice di legittimità richiamate dalla stessa corte del merito (Cass. n. 28667/013 e Cass. n. 4526/2015), fra i ricavi lordi rilevanti ai fini dell’accertamento della fallibilità dell’impresa vanno inclusi quelli indicati nella voce A 5 del conto economico, “altri ricavi e proventi”, e perché anche l’Organismo Italiano di Contabilità ha ricondotto alla categoria A.5 del conto economico componenti positivi di reddito non finanziari, di natura ordinaria, riguardanti le gestioni accessorie, tra i quali, al punto c), le sopravvenienze e insussistenze relative a valori stimati, che non derivino da errori ma siano causate dal normale aggiornamento di stime compiute in precedenti esercizi, fra cui rientrano, soprattutto, gli importi dei fondi per rischi ed oneri rivelatisi esuberanti rispetto agli accantonamenti operati.

1.1 II motivo non merita accoglimento

1.2. Il suo esame non può prescindere dalla considerazione che il legislatore del c.d. “correttivo”, innovando in parte i requisiti soggettivi di fallibilità, ha inteso superare i contrasti interpretativi sorti in ordine ai criteri di individuazione delle qualifiche di piccolo imprenditore, da una parte, e di imprenditore non piccolo, dall’altra (entrambe contemplate dall’articolo 1 della L. fall., come modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006) e, al fine di realizzare l’effetto voluto, di evitare fallimenti antieconomici, ovvero dispendi di tempo e di costi nella trattazione di procedure scarsamente significative, ha indirizzato l’indagine all’accertamento della consistenza dimensionale dell’impresa.

1.3 Va, altresì, considerato che, pur avendo i parametri di riferimento di cui all’art. 1, comma 2 L. fall., tutti carattere contabile, l’inciso contenuto nella lett. b), «in qualunque modo risulti» ha portato la giurisprudenza di merito ad affermare che la valutazione dell’ammontare dei ricavi, in quanto mirante a far emergere la realtà economica dell’impresa, deve prescindere dalla pedissequa applicazione dei principi contabili e della normativa in tema di redazione dei bilanci ogni qualvolta il loro rigoroso rispetto venga a determinare una divergenza tra il dato formale e la reale dimensione dell’impresa.

1.4 In ordine al requisito dimensionale di esonero dalla fallibilità di cui all’art. alla lettera b cit., questa Corte ha più volte affermato che «per l’individuazione dei “ricavi lordi”, che vanno considerati ricavi in senso tecnico, occorre fare riferimento alle voci n. 1 («ricavi delle vendite e delle prestazioni») e n. 5 («altri ricavi e proventi») dello schema obbligatorio di conto economico previsto dall’art. 2425, lett. A, cod. civ.» (Cass., 27 dicembre 2013, n. 28667; conf. Cass., 5 marzo 2015, n. 4526; Cass., 19 aprile 2016, n. 7742, non massimata; Cass., 10 dicembre 2018, n. 31825).

E’ stato, in particolare, precisato, che:

-il legislatore della riforma fallimentare, nella previsione del requisito in esame, ha fatto riferimento allo schema obbligatorio del conto economico, di cui all’art. 2425 cod. civ., e, in particolare, al suo primo raggruppamento, sub lett. A;

-il legislatore, nel riferirsi ai «ricavi», ha considerato gli stessi in senso tecnico, con la conseguenza che deve farsi riferimento sia ai «ricavi delle vendite e delle prestazioni» sub n. 1, sia alla voce sub n.5, «altri ricavi e proventi», perché voce assimilabile alla prima, trattandosi di componenti positive, quali “ricavi accessori, dividendi, royalties, canoni attivi”;

-non possono, invece, sommarsi le voci sub n. 2, «variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti», e sub n. 3, «variazioni dei lavori in corso su ordinazione», che non possono essere considerate ricavi, nemmeno concettualmente assimilabili alla più ampia nozione di «proventi»;

– come rilevato da attenta dottrina, queste ultime voci rappresentano invece costi comuni a più esercizi, che vengono sospesi in conformità al principio di competenza economica, ex art. 2423 bis cod. civ., per essere rinviati ai successivi esercizi, in cui si conseguiranno i correlativi ricavi; Cass. n. 2018 n. 31825/2018 cit. ha ulteriormente precisato che il criterio quantitativo dei ricavi lordi va correlato alle gestione ordinaria dell’impresa, donde dalla nozione rilevante per l’art. 1, comma 2 lett. b. I. fall, restano fuori i proventi finanziari, le rivalutazioni e i proventi straordinari rispettivamente indicati dall’art. 2425 cod. civ., lett. C, D ed E (ovvero quei proventi che non contribuiscono a definire la dimensione economica corrente dell’impresa, in funzione dell’allarme sociale che la sua crisi può generare).

1.5 Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi in ordine alla questione in questa sede controversa.

1.6 Ciò che rileva, infatti, ai fini dell’individuazione del parametro dimensionale di cui alla legge fallimentare, è il valore dei ricavi lordi totali risultanti dal conto economico che afferiscono alle attività commerciali specifiche dell’impresa (ovvero alle attività che questa svolge in modo abituale) o a quelle accessorie derivanti dalla gestione non caratteristica (ad. es. proventi dei beni tenuti a scopo di investimento, canoni attivi, royalties) e che siano pertanto idonei a misurarne l’effettiva consistenza economica e finanziaria.

1.7. Fra questi non rientrano “gli altri proventi” che, come nella specie, corrispondano invece a sopravvenienze attive derivanti, “una tantum”, dalla contestuale riduzione dell’accantonamento per rischi iscritto nell’esercizio precedente in ragione di un contenzioso pendente; accantonamento che rappresenta null’altro che una passività potenziale (la possibile perdita originata dalla vertenza), il cui effettivo concretizzarsi, oltre che effettivo ammontare, è subordinato al verificarsi di un evento futuro, (il passaggio in giudicato della sentenza che decide la controversia).

La variazione contabile che scaturisce dal definitivo venir meno (in tutto o in parte) della passività prudenzialmente stimata nel fondo rischi e dall’appostazione nella voce A5, «altri ricavi e proventi» del valore positivo corrispondente alla differenza tra quanto accantonato e quanto effettivamente dovuto, non è dunque, all’evidenza, in alcun modo correlata alla gestione ordinaria (caratteristica o meno) dell’impresa e non può pertanto essere considerata un ricavo in senso tecnico.

2. Il secondo motivo del ricorso, con il quale C. lamenta che la corte d’appello non abbia pronunciato sullo stato di insolvenza di I.A., va invece dichiarato inammissibile, in quanto attinente a questione necessariamente assorbita dal preliminare accertamento della non fallibilità della società.

3. La novità della questione trattata in sede di esame del primo motivo giustifica l’integrale compensazione delle spese del giudizio fra le parti costituite.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d P R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2020.

Ai sensi dell’art. 132, terzo comma, cod. proc. civ., stante l’impedimento dell’estensore a causa della emergenza epidemiologica da COVID-19, sottoscrive il solo Presidente.

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