CASSAZIONE

Valida la presunzione di incasso degli onorari in presenza di una o più sentenze

Tributi – IRAP ed IVA – Reati tributari – Professionista – Attività di consulente legale – Pagamento del compenso – Prova sia dell’incarico che dell’esecuzione di prestazioni professionali – Maggior reddito accertato – Attività non dichiarate – Contenzioso – Art. 39, c. 1, lett. d), del DPR 600/1973

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 24255 del 9 settembre 2021, intervenendo in tema di accertamento in relazione al maggior reddito accertato nei confronti del legale di un’associazione professionale per onorari incassati e non dichiarati, ha sentenziato che il corrispettivo della prestazione del professionista e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale (v. Cass. n.16969/2016).

È pienamente legittima, secondo quanto affermato dagli Ermellini, la rettifica dei maggiori compensi nei confronti dell’avvocato che, risultando difensore sulla base di varie sentenze, non è in grado di argomentare le ragioni della mancata percezione dell’onorario non è quindi sufficiente, come invocato dalla parte contribuente, che dalla contabilità non risulti alcun versamento e quindi, in base al principio di cassa, non sussisterebbe il presupposto impositivo.

A parere del Fisco il professionista, una volta portato a termine l’incarico professionale ricevuto, ha incassato gli onorari pattuiti ma non ha poi fornito la prova liberatoria contraria, idonea a dimostrare l’eventuale mancato incasso. Di conseguenza, la Suprema Corte ha ritenuto irrilevante il fatto che nella contabilità dello studio professionale non sia presente nessun versamento e ha ribadito che la rettifica analitico-induttiva prescinde dalla contabilità, basandosi su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall’articolo 2729, ovvero gravi, precise e concordanti,  e secondo quanto previsto dall’art. 39, comma, 1, lett. d), DPR 600/73, a mente del quale “… quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del precedente comma ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica”. L’orientamento giurisprudenziale prevalente ha stabilito che il giudice può far discendere il proprio convincimento esclusivamente da presunzioni semplici e può addirittura fondarlo su un’unica presunzione di tale tipologia, anche contrastante con eventuali altri elementi acquisiti nel corso del procedimento.

Il prudente apprezzamento del giudice deve però ritenere dimostrato il fatto solo se gli indizi presunti sono “gravi precisi e concordanti”, tali da dichiarare non attendibili i suddetti altri elementi ulteriori, cosicché la prova per presunzione semplice diverrà allora una prova completa, dotata del medesimo valore probatorio degli altri espedienti e prevalente nel convincimento del giudice.

 A tal proposito i Giudici di legittimità hanno precisato anche di volersi conformare ai precedenti giurisprudenziali in merito agli studi di settore. In particolare, si è specificato come la procedura di accertamento tributario, standardizzato mediante l’applicazione degli studi o dei parametri, costituisca un metodo a presunzioni semplici, la cui gravità precisione e concordanza non è automaticamente determinata dallo scostamento dei redditi dichiarati rispetto agli standard di riferimento, ma può avviarsi solo dopo un contraddittorio obbligatorio ex lege con il professionista contribuente, pena la nullità dello stesso accertamento. È proprio in questa fase, infatti, che il contribuente può contestare le risultanze dello studio di settore, provando circostanze concrete a sostegno dello scostamento reddituale rilevato. In tal modo costringerà l’ufficio accertatore a integrare la motivazione dell’atto impositivo, dovendo indicare con precisione le ragioni del proprio convincimento, qualora non le ritenga attendibili. (v. Cass. Sent. n. 27617/18).

Di rilievo anche il richiamo alla ripartizione dell’onere della prova; gli Ermellini, facendo riferimento a precedenti orientamenti giurisprudenziali ribadiscono come l’ufficio sia tenuto a indicare in modo esplicito le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio: solo in questo modo possono “emergere quei caratteri di gravità, precisione e concordanza attribuibili alla presunzione basata sui suddetti parametri, idonei a commisurare la presunzione stessa alla concreta realtà economica dell’impresa”. 

In sostanza, dal comportamento processuale del contribuente discende l’obbligo per l’ufficio di fornire una motivazione rafforzata: non potrà semplicemente rilevare lo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard del settore, ma dovrà fornire le ragioni specifiche per le quali sono state disattese le risultanze a contrario fornite dal contribuente in sede di contraddittorio. Solo così, infatti, si potranno ritenere gravi precise e concordanti le presunzioni basate sugli accertamenti (Cass. Sent. n. 30370/17; Cass. Sent. n. 14091/17).

In particolare, l’Agenzia ha basato l’accertamento sull’acquisizione di sentenze di vari uffici giudiziari nelle quali era emerso che erano state patrocinate varie cause: da qui la presunzione di aver incassato gli onorari pattuiti per l’attività professionale, giunta al termine visto il deposito delle sentenze, e l’accertamento del maggior reddito per non avere dichiarato gli incassi. Già in sede di contraddittorio preventivo lo studio professionale non era stato in grado di giustificare la mancata ricezione dei compensi.

Del resto, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale fase, infatti, quest’ultimo ha la facoltà di contestare l’applicazione dei parametri provando le circostanze concrete che giustificano lo scostamento della propria posizione reddituale, con ciò costringendo l’ufficio – ove non ritenga attendibili le allegazioni di parte – ad integrare la motivazione dell’atto impositivo indicando le ragioni del suo convincimento. Tuttavia, ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato ed il contribuente ometta di parteciparvi ovvero si astenga da qualsivoglia attività di allegazione, l’ufficio non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri” (cfr. Cass. n. 17646/2014; Cass. n. 10047/2016).

Tanto premesso e tornando al caso in dibattimento, la vertenza nasce dall’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2005, emesso nei confronti di uno studio legale, con cui erano stati individuati maggiori redditi da lavoro autonomo e un maggior volume d’affari, dal che scaturiva una maggiore pretesa fiscale ai fini IRAP e IVA e l’applicazione delle relative sanzioni. La vicenda seguiva l’iter contenzioso presso i Giudici tributari, che si pronunciavano a favore della società contribuente. L’Agenzia si rivolgeva allora alla Cassazione, lamentando essenzialmente la violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 39, comma 1, lett. d), del DPR 600/1973, e 54 del DPR 633/1972, in combinato disposto con gli artt. 2697 e 2729 cc. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc. Si costituiva con controricorso lo studio professionale chiedendone il rigetto e presentando anche memoria ex art. 380-bis 1 cpc. in relazione all’accertamento.

Le doglianze presentate dallo studio non sono state accolte dai Supremi Giudici, che anzi hanno confermato che “… Il collegio in via preliminare, essendovi evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva, dispone la riunione dei procedimenti, in quanto l’accertamento fiscale nei confronti della associazione, priva di personalità giuridica, riverbera i suoi effetti sui redditi dei singoli associati. In tal modo la Corte intende aderire al principio giurisprudenziale, formatosi in sede di litisconsorzio relativo al caso di accertamento emesso nei confronti di società di persone, che poi per trasparenza coinvolge anche i singoli soci”[…] “Pertanto occorre solo esaminare l’unico motivo del ricorso in cassazione proposto dalla Agenzia delle entrate circa i maggiori ricavi accertati, quali compensi professionali non dichiarati, proposto, in modo perfettamente sovrapponibile, in tutti e tre i ricorsi avverso le distinte decisioni pronunciate dalla Ctr in sede di appello da parte dell’Agenzia delle entrate. In particolare l’Agenzia deduce che l’accertamento, nella parte relativa ai maggiori ricavi, si basava su acquisizioni di sentenze presso vari uffici giudiziari, da cui emergeva che lo studio professionale aveva patrocinato varie difese, il che alla luce dell’art. 39, comma 1, lettera d, del dpr n. 600 del 1973 consentiva la rettifica analitica induttiva. Aggiunge che i risultati dell’accertamento erano stati oggetto di contraddittorio preventivo senza che gli associati fossero stati in grado di giustificare la mancata corresponsione dei compensi. Il motivo, oltre che ammissibile in quanto, contrariamente a quanto eccepito nei controricorsi, è sufficientemente specifico ed autosufficiente, è anche fondato. Invero, il fatto che non risultasse dalla contabilità il versamento di alcun compenso è irrilevante nel presente giudizio visto che tale tipo di accertamento in rettifica della dichiarazione prescinde dalla contabilità, anche se formalmente regolare, basandosi invece su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall’art. 2729 cc. A tal proposito, va osservato che secondo l’orientamento di questa Suprema Corte (Cass. civ., Sez. V, 11 agosto 2016, n. 16969) «In tema d’imposte sui redditi, il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale». Ne consegue, pertanto, che il corrispettivo della prestazione del professionista legale si debba presumere conseguito quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale. Nel caso la prestazione professionale risulta proprio dalle sentenze acquisite. La pronuncia censurata, pertanto, è viziata per violazione di legge per avere ritenuto che i compensi non risultavano effettuati. Il fatto che l’Ufficio abbia utilizzato una presunzione per individuare il momento della effettiva percezione del reddito è legittimo, in quanto conforme al criterio generale posto dall’art. 2727 c.c. In altri termini, in virtù della prova indiziaria suddetta era onere del contribuente dare la prova dell’insussistenza di tali ricavi, senza che ciò comportasse l’onere di fornire una prova negativa, giacché può parlarsi di prova negativa solo quando taluno per far valere un diritto fosse tenuto a dimostrare non solo i fatti costitutivi ma altresì la inesistenza di fatti estintivi. Non è certo questa la situazione del caso di specie. Qui l’Amministrazione ha fondato la pretesa fiscale su di una prova per presunzione ed il contribuente, per resistere, avrebbe dovuto contrastare tale prova e quindi, a questo fine, aveva l’onere di dimostrare di non aver percepito alcun reddito, per esempio producendo diffida ad adempiere o richieste di decreto ingiuntivo, o provare l’infruttuosità della esecuzione. [n particolare era onere del contribuente dimostrare la esistenza di fattori che avevano impedito o che comunque erano stati idonei ad impedire l’incasso dei compensi. Né vale obiettare che non risulta emessa la fattura, in quanto nel caso l’ufficio assume che il compenso vi sia stato e quindi appare ragionevole ritenere che tale fattura non sia stata emessa al fine proprio di sottrarsi al pagamento delle imposte. Pertanto, la doglianza della Agenzia è fondata non avendo la Ctr precisato perché non dovesse considerarsi idonea presunzione il fatto del pagamento del compenso per attività professionale portata a termine, ed avendo ritenuto necessari ulteriori riscontri probatori mediante accertamenti bancari. In conclusione, in accoglimento dei ricorsi riuniti, le sentenze impugnate vanno cassate con rinvio alla Ctr del Lazio, in diversa composizione, che svolgerà un nuovo esame attenendosi alla motivazione suddetta”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 9 settembre 2021, n. 24255

sul ricorso 27783-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente-

contro STUDIO LEGALE P. ASSOCIAZIONE PROFESSIONALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE 87, presso lo studio dell’avvocato BRUNO BELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato F. P.;

– controricorrente-

sul ricorso 27959-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE,” in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro P. F., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE 87, presso lo studio dell’avvocato BRUNO BELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato F. P.;

 – controricorrente –

sul ricorso 24291-2016 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

Nonché da:

P. F., P. M., P. SIMONETTA, eredi di P. D. e D. V. A., elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO TRIESTE 87, presso lo studio dell’avvocato BRUNO BELLI, rappresentati e difesi dall’avvocato F. P.;

 – ricorrenti incidentali –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE;

 – intimata –

avverso le sentenze n. 530/2013, n. 531/2013 e n. 4783/2015 della COMM.TRIB.REG. LAZIO SEZ.DIST. di LATINA, depositate il 09/10/2013 le prime due, ed il 16/09/2015 la terza;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/10/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE D’AURIA;

FATTI DI CAUSA

La vicenda giudiziaria trae origine dall’avviso di accertamento n. RC 2020200185\2008 per l’anno di imposta 2005 emesso nei confronti dello Studio legale P. associazione professionale, con cui erano individuati maggiori redditi da lavoro autonomo ed un maggiore volume d’affari, da cui scaturiva una maggiore pretesa fiscale ai fini Irap ed Iva, nonché l’applicazione delle relative sanzioni.

La commissione provinciale di Frosinone, a seguito del ricorso del contribuente Studio Professionale P., annullava 1’accertamento. A seguito di appello dell’Agenzia delle entrate, la Ctr del Lazio (sentenza n. 530\39\13) confermava la decisione di primo grado.

Propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, che si affida ad un solo motivo così rubricato: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 39 comma I lett. D del dpr 600\73 e 54 del dpr 633\1972, in combinato disposto con gli artt. 2697 e 2729 cc., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc.”

Si costituisce con controricorso l’associazione professionale, che in primis rileva la mancanza di doglianze della Agenzia circa la deducibilità delle spese postali e per i carburanti, ed in ordine al motivo inerente ai soli ricavi ne chiede il rigetto.

Tale associazione professionale presenta anche memoria ex art. 380 bis 1 cpc. In relazione all’accertamento effettuato nei confronti dello Studio professionale P., l’Agenzia delle entrate provvedeva a recuperare la maggiore pretesa Irpef nei confronti dei due associati P. D. (accertamento nr. RC2010200189\2008) e P. F. (RC 2010200188\2008) in proporzione alla loro partecipazione alla associazione.

A seguito del ricorso di F. P., la Commissione provinciale di Frosinone annullava l’accertamento.

A seguito di appello proposto dalla Agenzia delle entrate, la CTR del Lazio confermava la decisione di primo grado (sentenza n. 531\39\13).

L’Agenzia delle entrate impugna tale decisione con un motivo perfettamente sovrapponibile a quello proposto avverso quella inerente l’associazione professionale.

Si costituisce il contribuente chiedendo il rigetto del gravame con controricorso illustrato con memoria. Anche D. P. proponeva ricorso contro l’accertamento e in sede di appello la Ctr del Lazio dichiarava deducibili le spese carburante e manutenzione solo nella misura del 50%, confermando nel resto la decisione impugnata che aveva annullato l’accertamento.

Propone ricorso per Cassazione l’Agenzia delle entrate con rifermento al maggior reddito accertato, con motivo analogo a quello già proposto nei confronti della associazione e dell’altro socio.

Si costituiscono con controricorso, illustrato con memoria, gli eredi di D. P. nonché di De V. A., e cioè F. P., M. P. e Simonetta P., chiedendo il rigetto del ricorso principale e proponendo altresì ricorso incidentale in quanto le spese di manutenzione e per carburante erano state già dedotte al 50 % dalla associazione professionale.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il collegio in via preliminare, essendovi evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva, dispone la riunione dei procedimenti, in quanto l’accertamento fiscale nei confronti della associazione, priva di personalità giuridica, riverbera i suoi effetti sui redditi dei singoli associati. In tal modo la Corte intende aderire al principio giurisprudenziale, formatosi in sede di litisconsorzio relativo al caso di accertamento emesso nei confronti di società di persone, che poi per trasparenza coinvolge anche i singoli soci.

In particolare nel processo di cassazione, come affermato, tra altre, da Cass. n. 29843 del 2017, “in presenza di cause decise separatamente nel merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, non va dichiarata la nullità per essere stati i giudizi celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci) in violazione del principio del contraddittorio, ma va disposta la riunione quando la complessiva fattispecie, oltre che dalla piena consapevolezza di ciascuna parte processuale dell’esistenza e del contenuto dell’atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, sia caratterizzata da:

1) identità oggettiva quanto a “causa petendi” dei ricorsi;

2) simultanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese;

3) simultanea trattazione degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito;

4) identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici. In tal caso, la ricomposizione dell’unicità della causa attua il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, comma 2, Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), evitando che con la (altrimenti necessaria) declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio al giudice di merito, si determini un inutile dispendio di energie processuali per conseguire l’osservanza di formalità superflue, perché non giustificate dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio.

Va aggiunto, quanto al ricorso n. 24291/16, che la statuizione della CTR di rigetto dell’eccezione di violazione del litisconsorzio necessario non è stata oggetto di impugnazione in questa sede e pertanto su di essa si è formato il giudicato interno. Ciò detto va anche rilevato che, con le sentenze emesse in appello con riguardo all’associazione e al socio F. P., era stato affermato che correttamente la associazione professionale aveva portato in detrazione sia le spese postali che quelle inerenti al carburante e alla manutenzione.

Tale capo delle sentenze non è stato in alcun modo impugnato dalla Agenzia delle entrate ed è quindi ormai irrevocabile e non può non produrre effetti favorevoli anche nei confronti dell’altro socio D. P., e per esso degli eredi, i quali pertanto non hanno interesse all’esame del ricorso incidentale concernente la detraibilità delle suddette spese, che è quindi inammissibile. Pertanto occorre solo esaminare l’unico motivo del ricorso in cassazione proposto dalla Agenzia delle entrate circa i maggiori ricavi accertati, quali compensi professionali non dichiarati, proposto, in modo perfettamente sovrapponibile, in tutti e tre i ricorsi avverso le distinte decisioni pronunciate dalla Ctr in sede di appello da parte dell’Agenzia delle entrate.

In particolare l’Agenzia deduce che l’accertamento, nella parte relativa ai maggiori ricavi, si basava su acquisizioni di sentenze presso vari uffici giudiziari, da cui emergeva che lo studio professionale aveva patrocinato varie difese, il che alla luce dell’art. 39, comma 1, lettera d, del dpr n. 600 del 1973 consentiva la rettifica analitica induttiva. Aggiunge che i risultati dell’accertamento erano stati oggetto di contraddittorio preventivo senza che gli associati fossero stati in grado di giustificare la mancata corresponsione dei compensi. Il motivo, oltre che ammissibile in quanto, contrariamente a quanto eccepito nei controricorsi, è sufficientemente specifico ed autosufficiente, è anche fondato. Invero, il fatto che non risultasse dalla contabilità il versamento di alcun compenso è irrilevante nel presente giudizio visto che tale tipo di accertamento in rettifica della dichiarazione prescinde dalla contabilità, anche se formalmente regolare, basandosi invece su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall’art. 2729 cc. A tal proposito, va osservato che secondo l’orientamento di questa Suprema Corte (Cass. civ., Sez. V, 11 agosto 2016, n. 16969) «In tema d’imposte sui redditi, il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale». Ne consegue, pertanto, che il corrispettivo della prestazione del professionista legale si debba presumere conseguito quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale. Nel caso la prestazione professionale risulta proprio dalle sentenze acquisite. La pronuncia censurata, pertanto, è viziata per violazione di legge per avere ritenuto che i compensi non risultavano effettuati. Il fatto che l’Ufficio abbia utilizzato una presunzione per individuare il momento della effettiva percezione del reddito è legittimo, in quanto conforme al criterio generale postò dall’art. 2727 c.c. In altri termini, in virtù della prova indiziaria suddetta era onere del contribuente dare la prova dell’insussistenza di tali ricavi, senza che ciò comportasse l’onere di fornire una prova negativa, giacché può parlarsi di prova negativa solo quando taluno per far valere un diritto fosse tenuto a dimostrare non solo i fatti costitutivi ma altresì la inesistenza di fatti estintivi. Non è certo questa la situazione del caso di specie. Qui l’Amministrazione ha fondato la pretesa fiscale su di una prova per presunzione ed il contribuente, per resistere, avrebbe dovuto contrastare tale prova e quindi, a questo fine, aveva l’onere di dimostrare di non aver percepito alcun reddito, per esempio producendo diffida ad adempiere o richieste di decreto ingiuntivo, o provare l’infruttuosità della esecuzione. [n particolare era onere del contribuente dimostrare la esistenza di fattori che avevano impedito o che comunque erano stati idonei ad impedire l’incasso dei compensi. Né vale obiettare che non risulta emessa la fattura, in quanto nel caso l’ufficio assume che il compenso vi sia stato e quindi appare ragionevole ritenere che tale fattura non sia stata emessa al fine proprio di sottrarsi al pagamento delle imposte. Pertanto, la doglianza della Agenzia è fondata non avendo la Ctr precisato perché non dovesse considerarsi idonea presunzione il fatto del pagamento del compenso per attività professionale portata a termine, ed avendo ritenuto necessari ulteriori riscontri probatori mediante accertamenti bancari. In conclusione, in accoglimento dei ricorsi riuniti, le sentenze impugnate vanno cassate con rinvio alla Ctr del Lazio, in diversa composizione, che svolgerà un nuovo esame attenendosi alla motivazione suddetta.

P.Q.M.

La Corte riunisce al ricorso n. 27783/2014 i ricorsi n. 27959/2014 e n. 24291/16 e li accoglie; cassa le sentenze impugnate con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese processuali di questo grado.

Dichiara inammissibile per carenza di interesse il ricorso incidentale degli eredi di P. D.. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso incidentale, se dovuto.

Così deciso in Roma il 29 ottobre 2020

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