CASSAZIONE

Il debito tributario pagato con una compensazione annulla il sequestro

Reati tributari -Accertamento con adesione – Imposte indirette – IVA – Fatture relative ad operazioni inesistenti – Violazioni – Sanzioni penali – Confisca ex art. 12-bis del D. Lgs. n. 74/2000 – Utilizzo in compensazione di crediti esistenti- Estinzione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25792 del 7 luglio 2021 è intervenuta sul tema della confisca obbligatoria dei beni che costituiscano il prezzo od il profitto del reato, per affermare che: “…in ogni caso, a seguito dell’avvenuta compensazione è venuta meno l’obbligatorietà della prestazione indicata in sede di accertamento con adesione, il debito tributario dovrebbe intendersi oramai estinto e, pertanto, la somma ad esso riferita non può intendersi essere profitto conseguito attraverso la commissione del reato in provvisoria contestazione”.

In buona sostanza, affermano i Supremi Giudici, se il debito tributario è stato soddisfatto con definizione integrale prima della celebrazione dell’udienza preliminare, la confisca ex art. 12-bis del D.lgs. n. 74/2000 non ha più ragion d’essere, non potendo ritenersi che il reato contestato comporti la realizzazione di alcun profitto: va quindi revocato il sequestro preventivo ad essa finalizzato, per come disposto nell’ambito dell’indagine per reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

Peraltro l’istituto della compensazione tributaria consiste nella possibilità di compensare i debiti tributari con controcrediti del contribuente risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche, e secondo quanto recita lo Statuto del contribuente, la compensazione è una modalità di estinzione dell’obbligazione tributaria. La Suprema Corte ha sempre affermato che l’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente rinvia alla disciplina civilistica, recependo i canoni del codice civile in tema di estinzione delle obbligazioni con la modalità compensativa.

La compensazione, dunque, in campo tributario è riconosciuta come una possibile modalità estintiva delle obbligazioni tributarie solo nei casi espressamente contemplati dal legislatore e la Corte di Cassazione ha affermato che tale modalità estintiva opera solamente nei casi in cui essa sia espressamente prevista dal legislatore tributario (ex multis Cass. n. 14579 del 20 novembre 2001).

Difatti, a seguito della compensazione viene meno l’obbligatorietà della prestazione indicata in sede di accertamento e il debito tributario va considerato come estinto, perché la somma ad esso riferita non può più intendersi come profitto conseguito attraverso la commissione del reato tributario in provvisoria contestazione.

Del resto è stato più volte anche affermato anche che la non punibilità dei reati dichiarativi richiede l’integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito di ravvedimento operoso o altra procedura conciliativa, prima dell’apertura del dibattimento.

Poi, anche alla luce delle ultime modifiche normative, non dovrebbe assumere più rilevanza la spontaneità o meno della definizione, né dovrebbero opporsi preclusioni alle forme di definizione: la legge fa riferimento a “speciali procedure” a prescindere dal fatto che le stesse consentano un deciso abbattimento (fino al totale) di sanzioni e interessi.

Ciò che conta è l’integrale pagamento di quanto preteso dall’Erario per estinguere la pendenza; se, per qualsivoglia ragione, il Fisco non pretende più la somma inizialmente accertata, ma solo quella ridotta, anche il pagamento deve riguardare gli importi della definizione e non quelli originari. 

Di fatto l’art. 13 del D.lgs. n. 74/2000 consente la non punibilità di alcuni reati tributari in ragione del tempestivo integrale pagamento del debito tributario.

In specie, al comma 2 – ante modifiche apportate dal D.lgs. n. 158/2015 – era prevista la non punibilità dei reati di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione se i debiti tributari (compresi sanzioni e interessi) venivano estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, a condizione che detto pagamento fosse avvenuto “prima che il contribuente abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o penale”.

Per effetto delle novità introdotte, dapprima con la riforma del D.lgs. 158/2015 e, in seguito, con l’art. 39, comma 1, lettera q-bis), Dl. n. 124/2019, ai reati che si estinguono con “l’integrale pagamento del debito tributario prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali” sono stati aggiunti anche il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, ovvero proprio quei reati che per grave antigiuridicità non avrebbero potuto che ottenere, tramite versamento integrale del dovuto, solo una riduzione di pena (ex art. 13-bis, D.lgs. n. 74/2000).

Segnali di conferma di questa conclusione pervengono, a ben vedere, dalla Suprema Corte che ha affrontato, molto di recente, un tema correlato qui di interesse in due recenti sentenze che in definitiva hanno ribadito che ciò che conta – nella logica e funzione della causa di non punibilità – è che avvenga l’integrale pagamento di quanto preteso dall’Erario per estinguere la pendenza, con la conseguenza che il pagamento, prima del dibattimento di primo grado, deve riguardare gli importi della “definizione” e non quelli originari.  (Cass., Sez. III pen., 9 dicembre 2020, n. 34940 e Cass., Sez. III pen., 10 dicembre 2020, n. 35175).

Del resto anche l’Agenzia delle entrate, con la circolare n. 31/E del 23 dicembre 2020, ha ammesso la possibilità di accesso al ravvedimento operoso per i casi di indebito utilizzo in compensazione di crediti inesistenti (dopo la contestazione, e prima dell’atto di recupero) e non solo di quelli non spettanti, confermandosi così il favor verso il soggetto agente che – a prescindere dalla gravità dell’illecito – estingua il debito tributario unitamente a sanzioni (ridotte nel caso di ravvedimento) e interessi.

Se ciò è vero la causa di non punibilità, che riguarda testualmente i reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, D.lgs. n. 74/2000, dovrebbe valere anche per i crediti inesistenti di cui all’art. 10-quater, comma 2 (e non solo per quelli non spettanti di cui al comma 1), se il contribuente/autore dell’illecito si ravvede (prima o dopo la contestazione con il pvc, non conta più) o, comunque, estingue il debito tributario “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado”, anche attraverso “le speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”.

Tanto premesso e tornando al caso odierno, un amministratore di fatto di un consorzio, indagato per concorso in evasione fiscale, propone appello contro la decisione con cui il Tribunale del riesame aveva confermato il sequestro preventivo disposto a suo carico.

L’amministratore si era rivolto alla Suprema Corte, in quanto avendo chiesto la revoca parziale del sequestro con riferimento all’anno di imposta 2013, essendo intervenuto atto di concordato tributario fra l’Agenzia delle entrate e il consorzio, il debito tributario erta stato assolto, ma i giudici di merito non avevano riconosciuto valore di mezzo di pagamento alla compensazione. Tale richiesta, precisava il Tribunale, era stata disattesa dal Gip in quanto l’importo dovuto non era stato corrisposto attraverso un pagamento ma tramite compensazione di crediti vantati dal consorzio, di tal che, per affermare l’avvenuto adempimento tributario, sarebbe stato necessario attendere la verifica da parte dell’Agenzia sulla effettiva esistenza dei crediti. La conclusione dei Giudici di appello non ha convinto però i Supremi Giudici, che anzi hanno affermato che: ”… rileva il Collegio che la confisca – tanto più se per equivalente – della somma di danaro costituente il profitto del reato in contestazione sia una misura di sicurezza rispetto alla quale il sequestro preventivo disposto a carico del ricorrente ha una evidente funzione cautelarmente strumentale e che essa presuppone che sia stato, appunto, realizzato un profitto attraverso la commissione dell’illecito, si osserva che, laddove il debito tributario sia stato adempiuto, in questo caso anteriormente alla celebrazione della udienza preliminare, la confisca ex art. 12-bis del dlgs n. 74 del 2000, non avendo il reato comportato la realizzazione di alcun profitto, non avrebbe ragion d’essere. Ciò posto, si osserva che parte ricorrente ha dimostrato, anche attraverso la produzione di un documento, espressamente ricordato nella ordinanza impugnata come proveniente dalla Agenzia delle Entrate, che il Consorzio di cui egli è, secondo l’ipotesi accusatoria, amministratore di fatto, ha “definito integralmente i rilievi emersi in sede di PVC per l’anno di imposta 2013, così come determinati sulla base dell’atto di adesione.  In termini di assoluta contraddittorietà interna (e, pertanto, in termini manifestamente illogici) ed in contrasto con quanto previsto dall’art. 12-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, il quale, come accennato, prevede la confisca obbligatoria dei beni che costituiscano il prezzo od il profitto del reato, il Tribunale capitolino ha ritenuto che, ai fini del mantenimento del sequestro, fosse fattore del tutto irrilevante la circostanza che il debito tributario gravante sul Consorzio AGE, quanto all’anno di imposta 2013, fosse stato definito.  La circostanza che a siffatta definizione si sia pervenuti, conseguentemente ad un accertamento con adesione, tramite l’avvenuta compensazione fra poste attive e poste passive riferite al contribuente, è, infatti, fattore del tutto irrilevante, posto che, in ogni caso, a seguito dell’avvenuta compensazione è venuta meno l’obbligatorietà della prestazione indicata in sede di accertamento con adesione, il debito tributario dovrebbe intendersi oramai estinto e, pertanto, la somma ad esso riferita non può intendersi essere profitto conseguito attraverso la commissione del reato in provvisoria contestazione. Alla luce degli elementi che sono stati illustrati la ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Roma, per nuovo esame sul punto ora esaminato”.

Corte di Cassazione – Sentenza 7 luglio 2021, n. 25792

sul ricorso proposto da:

P. G., nato a Roma il 12 settembre 1953; avverso la ordinanza n. 144/2020 RG Sequestri del Tribunale di Roma del 6 ottobre 2020;

letti gli atti di causa, la ordinanza impugnata e il ricorso introduttivo;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;

letta la requisitoria scritta del Pm, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Fulvio BALDI, il quale ha concluso chiedendo l’annullamento della ordinanza impugnata con riferimento al motivo di impugnazione sub B).

RITENUTO IN FATTO

Il Tribunale di Roma, operando in funzione di giudice del riesame dei provvedimenti cautelari reali, ha, con ordinanza del 6 ottobre 2010, rigetttato l’appello con il quale P. G., aveva impugnata il rigetto dell’istanza che lo stesso aveva indirizzato al Gip del Tribunale di Velletri, chiedendo a questo la parziale revoca del sequestro preventivo che questi aveva disposto il precedente16 maggio 2017 avente ad oggetto beni riferiti al P. sino alla concorrenza della somma di euro 2.496.789,07. Il Tribunale di Roma, nel rigettare il gravame cautelare, ha osservato che il ricorrente è indagato, unitamente ad altri, per avere, in concorso con costoro, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, indicato per gli anni di imposta 2013, 2014 e 2015 nelle dichiarazioni fiscali riferite alla A. G. E., compagine della quale quello sarebbe stato amministratore di fatto, elementi passivi, fittizi, risultanti attraverso l’uso di fatture relative ad operazioni inesistenti, in tal modo evadendo l’IVA.

Per tale motivo, con provvedimento del 16 maggio 2017, il Gip del detto Tribunale disponeva il sequestro preventivo, ai fini della confisca diretta, dei beni nella disponibilità del Consorzio costituenti il profitto immediato dei reati in provvisoria contestazione nonché, ai fini della confisca per equivalente, dei beni degli indagati e di quelli nella loro disponibilità sino alla concorrenza di euro 2.496.789,07.

In fase di esecuzione, prosegue il ricorrente, era stato possibile eseguire il sequestro diretto in misura pari ad euro 252.683,91, pertanto la restante parte del valore oggetto di sequestro era stata prelevata dai patrimoni degli indagati.

Ha aggiunto il Tribunale che il provvedimento è stato confermato in sede di riesame in data 12 luglio 2017; successivamente, essendo stata annullata la ordinanza emessa in sede di riesame, il 10 gennaio 2019 il Tribunale, rideterminato al rialzo il valore di un immobile di proprietà del Consorzio già oggetto di sequestro, ritenuto costituire il profitto dei reati già in provvisoria contestazione, ha conseguentemente ridotto il valore dei beni personali degli indagati oggetti di sequestro per equivalente, limitandolo al residuo ammontare di euro 838.644,75.

Ha proseguito il Tribunale riferendo che nel corso della udienza preliminare celebratasi in data 30 gennaio 2020 la difesa, fra l’altro, dell’odierno ricorrente ha chiesto la revoca parziale del sequestro in quanto, con riferimento all’anno di imposta 2013, essendo intervenuto atto di concordato tributario fra l’Agenzia delle Entrate ed il Consorzio, il debito tributario erta stato assolto,

Tale richiesta, ha precisato il Tribunale, era stata disattesa dal Gip in quanto l’importo dovuto non era stato corrisposto attraverso un pagamento ma tramite compensazione di crediti vantati dal Consorzio, di tal che, per affermare l’avvenuto adempimento tributario, sarebbe stato necessario attendere la verifica da parte della Agenzia sulla effettiva esistenza dei crediti.

Avendo il P. interposto appello avverso il provvedimento di rigetto del Gip, il Tribunale ha disatteso, come accennato, l’impugnazione avendo osservato, oltre al fatto che una parte dei debiti compensati non avevano ad oggetto l’Iva ma altri tributi non oggetto di contestazione penale, che, conformemente alla tesi fatta propria dal Gip ed in ossequio a quanto in altra occasione affermato da questa Corte, si richiama al proposito la sentenza n. 17806 del 29 gennaio 2020, la compensazione legale del debito Iva con crediti vantati dal contribuente, non costituisce una forma di pagamento) rilevante ai fini penali, trattandosi dì modo di estinzione della obbligazione diverso dall’adempimento.

Ciò posto, ha osservato il Tribunale che, mentre il credito vantato dall’Erario verso il ricorrente era certo, liquido ed esigibile, Io stesso non poteva dirsi per i crediti posti in compensazione, non integrando, pertanto, essi l’ipotesi dell’adempimento, della obbligazione tributaria.

Né ad una diversa conclusione si perviene, ha ritenuto il Tribunale, ove si consideri anche l’attestazione rilasciata dalla Agenzia delle Entrate, con la quale è stata certificato’, l’avvenuta definizione dei rilievi da essa formulati quanto all’anno di imposta 2013, posto che “se è innegabile che la società (rectius: il Consorzio, ndr) ha definito le pendenze con il fisco relative all’anno 2013 (…) non è parimenti certo che attraverso la compensazione effettuata, relativa ad un credito Iva (…), abbia raggiunto l’effetto solutorio (…) che costituisce il presupposto indispensabile per la riduzione del sequestro”.

Avverso il provvedimento del Tribunale capitolino ha interposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore fiduciario, il P., articolando a tal fine due motivi di impugnazione.

Con il primo di essi il ricorrente si è doluto, con riferimento alla violazione di legge, del fatto che il Tribunale, disattendendo la previsione di cui all’art. 12 -bis del D.lgs. n. 74 del 2000, non abbia riconosciuto valore di mezzo di pagamento alla compensazione operata dal contribuente a seguito dell’avvenuto accertamento tributario con adesione. Con il secondo motivo il ricorrente ha lamentato la illegittimità della ordinanza impugnata, sotto il profilo del difetto di motivazione, in relazione alla richiesta di riduzione del valore dei beni in sequestro per effetto della rideterminazione in melius del debito tributario conseguente all’accertamento con adesione intervenuto fra l’Agenzia delle Entrate ed il contribuente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è fondato e, pertanto, lo stesso deve essere accolto.

Deve, preliminarmente, rilevarsi che la impugnazione presentata dal P. ha ad oggetto esclusivamente il debito tributario relativo all’anno di imposta 2013, unico anno in relazione al quale è intervenuto l’accertamento con adesione cui il ricorrente si è riferito.

Tanto premesso, rileva il Collegio che la confisca – tanto più se per equivalente – della somma di danaro costituente il profitto del reato in contestazione sia una misura di sicurezza rispetto alla quale il sequestro preventivo disposto a carico del ricorrente ha una evidente funzione cautelarmente strumentale e che essa presuppone che sia stato, appunto, realizzato un profitto attraverso la commissione dell’illecito, si osserva che, laddove il debito tributario sia stato adempiuto, in questo caso anteriormente alla celebrazione della udienza preliminare, la confisca ex art. 12-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, non avendo il reato comportato la realizzazione di alcun profitto, non avrebbe ragion d’essere.

Ciò posto, si osserva che parte ricorrente ha dimostrato, anche attraverso la produzione di un documento, espressamente ricordato nella ordinanza impugnata come proveniente dalla Agenzia delle Entrate, che il Consorzio di cui egli è, secondo l’ipotesi accusatoria, amministratore di fatto, ha “definito integralmente i rilievi emersi in sede di PVC per l’anno di imposta 2013, così come determinati sulla base dell’atto di adesione.

In termini di assoluta contraddittorietà interna (e, pertanto, in termini manifestamente illogici) ed in contrasto con quanto previsto dall’art. 12-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, il quale, come accennato, prevede la confisca obbligatoria dei beni che costituiscano il prezzo od il profitto del reato, il Tribunale capitolino ha ritenuto che, ai fini del mantenimento del sequestro, fosse fattore del tutto irrilevante la circostanza che il debito tributario gravante sul Consorzio AGE, quanto all’anno di imposta 2013, fosse stato definito.

La circostanza che a siffatta definizione si sia pervenuti, conseguentemente ad un accertamento con adesione, tramite l’avvenuta compensazione fra poste attive e poste passive riferite al contribuente, è, infatti, fattore del tutto irrilevante, posto che, in ogni caso, a seguito dell’avvenuta compensazione è venuta meno l’obbligatorietà della prestazione indicata in sede di accertamento con adesione, il debito tributario dovrebbe intendersi oramai estinto e, pertanto, la somma ad esso riferita non può intendersi essere profitto conseguito attraverso la commissione del reato in provvisoria contestazione.

Alla luce degli elementi che sono stati illustrati la ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Roma, per nuovo esame sul punto ora esaminato.

PQM

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Roma, competente ai sensi dell’art. 324, comma 5, cod. proc. pen. Così deciso in Roma, il 5 marzo 2021

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