CASSAZIONE

Società di persone, il condono fiscale non si estende automaticamente ai singoli soci

Tributi – IRAP – IRPEF – IVA – Accertamento – Società– Accertamento sui soci – Definizione delle liti pendenti da parte della società ai sensi dell’articolo 39, comma 12, D.L. 98/2011– Efficacia

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14147 depositata il 24 maggio 2021, è intervenuta sulla definizione delle liti pendenti da parte della società di persone, ai sensi dell’articolo 39, comma 12, Dl 98/2011, per affermare che tale definizione non può distendere i suoi effetti sugli accertamenti notificati ai soci. In altre parole, l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società e quello formulato nei confronti dei soci conservano ciascuno la propria autonomia, contrariamente a quanto si verifica nell’accertamento con adesione a istanza della società, che costituisce titolo per effettuare un accertamento nei confronti dei soci in ordine al maggior reddito da partecipazione.

Il richiamato art. 39, c. 12, del decreto-legge 98/2011, convertito con modificazioni dalla legge 111/2011, disciplina infatti la definizione delle liti fiscali “minori”. Sull’argomento ha fornito chiarimenti la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 48/ E del 24 ottobre 2011 – “Chiusura delle liti fiscali minori” – indirizzata all’applicazione del provvedimento di definizione agevolata delle liti pendenti introdotto nella manovra correttiva dell’estate 2011: l’Agenzia fornisce tutte le indicazioni necessarie per definire in maniera agevolata le liti minori (atti impositivi il cui valore, al netto di sanzioni e interessi, non superi i 20.000 euro), pendenti in ogni stato e grado del giudizio alla data del 1° maggio 2011, in cui è parte l’Agenzia stessa, con particolare attenzione all’ambito di applicazione della procedura agevolata, agli adempimenti necessari e alle modalità di pagamento, compresa la possibilità di scomputare le somme già versate in pendenza di giudizio.

La norma indicata prevede infatti che “Al fine di ridurre il numero delle pendenze giudiziarie e quindi concentrare gli impegni amministrativi e le risorse sulla proficua e spedita gestione del procedimento di cui al comma 9 le liti fiscali di valore non superiore a 20.000 euro in cui è parte l’Agenzia delle entrate, pendenti alla data del 1° maggio 2011 dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio, possono essere definite, a domanda del soggetto che ha proposto l’atto introduttivo del giudizio, con il pagamento delle somme determinate ai sensi dell’articolo 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289”.

Nello specifico, definisce lite pendente “quella in cui è parte l’Agenzia delle Entrate avente ad oggetto avvisi di accertamento, provvedimenti di irrogazione delle sanzioni e ogni altro atto di imposizione, per i quali è stato proposto l’atto introduttivo del giudizio, nonché quella per la quale l’atto introduttivo sia stato dichiarato inammissibile con pronuncia non passata in giudicato”.

In più appare utile considerare che l’accertamento tributario verso le  società di capitali composte da un numero limitato di soci, legati spesso da vincoli di parentela e/o affinità, ha visto gli uffici finanziari approdare a una sorta di “equiparazione” tra le società di persone e quelle di capitali a ristretta base partecipativa, ritenendo legittimo anche per queste ultime assoggettare a tassazione i maggiori utili extra-bilancio non dichiarati e accertati nei confronti della società direttamente in capo ai soci, presumendo che tali utili occulti fossero loro distribuiti.

In sostanza, se viene dimostrato che la società non ha dichiarato ricavi, il fatto che il gruppo sociale sia estremamente ristretto (in molti casi familiari o affini) fa presupporre che il maggior reddito sia stato anche “ripartito” tra le persone fisiche. Tale orientamento ha trovato conforto anche in una stabile posizione dei Giudici di legittimità, che hanno ritenuto valida la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati in capo ad una società di capitali a ristretta base sociale.

E’ infatti noto che la Suprema Corte, a partire dalla sentenza n. 780/1980  ha ritenuto legittima, in sede di accertamento in capo alla società di capitali a ristretta compagine di utili non contabilizzati, la presunzione di distribuzione ai soci dei predetti utili, osservando nello specifico che tale presunzione “non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso normalmente caratterizza la gestione sociale” (cfr., ex pluribus: Cass. nn. 33541/2019, 19171/2019, 1947/2019, 1123/2019, 32959/2018, 7592/2017, 15824/2016 e 9519/2009). 

La Cassazione ha quindi precisato che il presupposto in base al quale sia legittimo presumere che vengano distribuiti ai soci gli utili “in nero” accertati a tale fattispecie societaria sia ravvisabile proprio nell’esiguità del numero dei compartecipi, nel vincolo di solidarietà tra loro, nella possibilità che ciascuno ha di conoscere gli affari societari, nel reciproco controllo. Ne consegue, che viene semplicisticamente delegato al contribuente il compito di produrre una prova complessa tesa a dimostrare, a contrario, di non aver percepito alcun utile “in nero”. Ebbene, appare del tutto evidente che il procedimento operativo così semplicemente delineato potrebbe risultare privo di qualsiasi collegamento normativo con i principi generali del diritto sostanziale tributario.

La ristretta base azionaria, assunta come fatto noto per presumere l’esistenza di un vincolo di complicità che avvince i partecipanti al sodalizio, non può far ulteriormente presumere con sufficiente probabilità che quegli utili siano stati effettivamente distribuiti ai soci, che la distribuzione sia avvenuta nello stesso periodo d’imposta in cui li avrebbe prodotti la società e nella stessa proporzione della quota di partecipazione al capitale sociale.

Nel dettaglio però si rileva come con l’ordinanza n. 923 del 20 gennaio 2016, la Cassazione abbia invece ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento emesso nei confronti di un contribuente, fondato solo ed esclusivamente sulla presunzione della ristretta base azionaria, laddove non solo non è stata dimostrata l’effettiva distribuzione di utili ma, altresì, laddove il contribuente ha messo a disposizione i propri flussi di reddito transitati in conto corrente dai quali non è dato evincersi alcuna rilevanza o incremento che possa ricondurre alla percezione e distribuzione di extra utili societari. Ne deriva che la mancata prova diretta, da parte dell’ufficio, dell’effettiva percezione da parte dei soci del maggior reddito accertato alla società si tradurrebbe in un’inammissibile praesumptio de praesumpto inficiante gli esiti dell’accertamento.

È a questo punto chiaro che la caratterizzazione a ristretta base azionaria di una società di capitali non legittima una diretta imputazione pro quota al socio dei redditi societari occultati, se non quando vi siano elementi di prova idonei a dimostrare che i maggiori utili della società siano stati effettivamente ripartiti. Inoltre, per l’automatico collegamento tra il reddito societario e quello del socio deve esserne provata l’effettiva percezione: se tale prova non viene fornita, l’accertamento nei confronti del socio è illegittimo.

Né la predetta presunzione di percezione può essere fornita con una prova negativa di “non percezione”, che costituirebbe una probatio diabolica, mentre la prova positiva di distribuzione degli utili prodotti e non risultanti in bilancio, supportata da presunzione indiziaria, deve essere fornita dall’Amministrazione finanziaria con collaterale attività di riscontro o di incrocio.

In senso conforme si è espressa recentemente la Suprema Corte in tema di presunzioni, con l’ordinanza n. 1278 del 18gennaio 2019, affermando: “In tema di prove, è inammissibile la c.d. praesumptio de praesumpto, non potendosi valorizzare una presunzione come fatto noto per derivarne da essa un’altra presunzione”.

Appare ancora utile far riferimento all’ordinanza n. 18042/2018, la quale ha spiegato che se il socio è estraneo alla gestione non opera la presunzione di percezione di utili non dichiarati e, pertanto, la presunzione può essere vinta dalla dimostrazione dell’estraneità del socio alla gestione sociale.

In definitiva, la suddetta sentenza ha precisato che “… È legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, o da essa reinvestiti (Cassazione 5076/11, 9519/09, 7564/03, 6780/03, 7564/03, 16885/03, 18640/08 e 8954/13)», ma al contempo ha  precisato che «la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (Cassazione 1932/2016, 17461/2017 e 26873/2016)”. 

Negli stessi termini, i Supremi Giudici si sono espressi anche con la sentenza n. 34282/2019 con cui, in particolare, i giudici di legittimità hanno verificato che nelle ipotesi di società a ristretta base partecipativa è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati distribuiti ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti.

Tale principio è stato, altresì, completato precisandosi che la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dal contribuente fornendo la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria.

La Cassazione ha quindi individuato in definitiva alcune circostanze che potrebbero scagionare il socio accertato.

Tutto ciò premesso e tornando al caso in esame, una società di persone e i suoi soci sono raggiunti da avvisi di accertamento ai quali entrambi proponevano ricorso. Più in particolare, i soci si limitavano a riproporre le doglianze formulate nell’atto di impugnazione proposto dalla società.

I giudici tributari di primo grado rigettavano i ricorsi e, nel giudizio di appello, veniva perfezionata dalla società la definizione delle liti pendenti ai sensi dell’articolo 39, comma 12, Dl 98/2011.

La CTR, pertanto, dichiarava estinto il giudizio quanto al rapporto processuale con la società e rigettava per il resto il gravame. Per la cassazione di tale sentenza i soci contribuenti propongono ricorso, affidato a tre motivi, nel quale essenzialmente rilevano che la società avendo definito la vertenza, con riguardo unicamente IRAP e IVA, senza che nessun effetto possa rapportarsi al contenzioso relativo ai soci per la rideterminazione dei redditi pro quota e che, quindi, la definizione della lite con la società aveva reso definitivo non solo l’avviso di accertamento in capo alla società, ma anche la rettifica del reddito d’impresa da imputare ai soci. La Corte di Cassazione ha condiviso tale interpretazione e ha quindi stabilito che “…La CTR ha ritenuto che la definizione della lite con la società e la conseguente estinzione del giudizio abbiano reso definitivo l’avviso di accertamento a carico della società e conseguentemente anche la rettifica del reddito d’impresa da imputare ai soci, in considerazione anche del fatto che questi si sono limitati -in entrambi i giudizi di merito- a fare proprie le doglianze formulate dalla società. – Osserva il collegio che nella fattispecie in esame l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società e quello emesso nei confronti dei soci conservano, ciascuno, la propria autonomia, contrariamente a quanto si verifica nell’accertamento con adesione, ad istanza della società, che costituisce titolo per effettuare un accertamento nei confronti dei soci in ordine al maggior reddito da partecipazione (cfr., ordinanza 21834 del 7.9.2018);  e, con riferimento all’autonomo avviso di accertamento emesso ai fini Irpef nei confronti del socio, non è consentito invocare la sussistenza del presupposto, costituito dalla richiesta di definizione agevolata della lite fatta dalla società, atteso che la pretesa tributaria si esplica nella specie con una duplicità di avvisi, diretti a soggetti diversi e per imposte differenti, sicchè il condono fiscale ottenuto da una società di persone non estende automaticamente i suoi effetti nei confronti dei singoli soci, rispetto ai quali l’Ufficio conserva il potere di procedere ad accertamento, con l’ulteriore effetto che sono i soci a presentare eventualmente istanze dirette ad avvalersi del condono, il che nella specie non è avvenuto.  – Nei termini appena esposti si è di recente pronunciata la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 15076 del 15.7.2020, alla quale intende la presente decisione dare continuità. – L’accoglimento del primo motivo comporta che resta assorbito l’esame degli altri. – All’accoglimento del ricorso segue la cassazione della sentenza con rinvio, anche per le spese, alla Commissione Tributaria Regionale del Veneto, in diversa composizione”.

Corte di Cassazione – Ordinanza n. 14147 del 24 maggio 2021

sul ricorso 21928-2013 proposto da:

F. D., F. P., F. R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO LUCISANO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato RAFFAELLO LUPI;

 – ricorrenti –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 17/2013 della COMM.TRIB.REG. , depositata il 11/02/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/10/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MELE;

della causa svolta nella camera di consiglio del 14 ottobre 2020 dal relatore, cons. Francesco Mele.

Rilevato che

La soc. F. P. & C. snc e i soci F. P., F. D. e F. R. proponevano distinti ricorsi avverso distinti avvisi di accertamento recanti rettifica della dichiarazione dei redditi per l’anno 2009 ai fini Irap ed Iva, quanto alla società e Irpef, quanto ai soci, oltre sanzioni.

Gli atti impositivi traevano origine da un accesso mirato eseguito da funzionari dell’Amministrazione finanziaria.

Con i menzionati ricorsi – per come si legge nella sentenza impugnata- la società, per parte sua, chiedeva di dichiarare l’avviso di accertamento “nullo, inefficace e improduttivo di effetti e il riconoscimento dei costi sostenuti e contabilizzati, ma non indicati nella dichiarazione dei redditi della società”;

i soci, per parte loro, “riproponevano le doglianze formulate nell’atto d’impugnazione proposto dalla società, senza formulare alcuna specifica contestazione in relazione all’attribuzione a ciascuno di essi dei maggiori redditi di partecipazione e alla determinazione delle relative maggiori imposte e sanzioni.”

Nel contraddittorio tra le parti (essendosi l’Ufficio costituito in giudizio), la Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza – previa loro riunione – rigettava i ricorsi.

Avverso detta sentenza le parti contribuenti proponevano, con un unico atto, appello; nel corso del relativo giudizio, perveniva comunicazione con cui l’Agenzia delle Entrate rappresentava l’avvenuta definizione della lite, da parte della società, ai sensi dell’art, 39, comma12, d. I. 98/2011 e chiedeva dichiararsi cessata la materia del contendere limitatamente all’avviso di accertamento relativo alla società e trattarsi la causa quanto alle altre parti.

La Commissione Tributaria Regionale del Veneto pronunciava la sopra menzionata sentenza con la quale dichiarava estinto il giudizio quanto al rapporto processuale con la società e rigettava per il resto il gravame.

Per la cassazione di tale sentenza F. P., D. e R. propongono ricorso -affidato a tre motivi- illustrato da memoria; resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Considerato che

Il ricorso si compone di tre motivi che recano:

1) “Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 DPR 917/1986 (TUIR), dell’art. 41 bis DPR 600/1973, dell’art. 39, comma 12 D.L. 98/2011. Violazione dell’art. 24 della Costituzione. L’autonomia delle controversie instaurate dai soci in materia di redditi da partecipazione rispetto alla definizione della lite effettuata dalla società che esplica i suoi effetti limitatamente all’Irap ed all’Iva (art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.)”;

2) “Omessa motivazione o motivazione apparente su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Mancato esame delle ragioni addotte dai soci per contestare la rideterminazione del reddito pro quota (Vizio della sentenza ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.)”;

3) “Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per l’omessa pronuncia sulla questione della deducibilità della perdita su crediti (art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.)”.

Con il primo motivo i ricorrenti rilevano che la società ha definito la vertenza con riguardo, unicamente, all’Irap e all’Iva, senza che nessun effetto possa, da ciò, ricollegarsi al contenzioso relativo ai soci per la rideterminazione dei redditi pro quota: si tratta di contenzioso autonomo, che, come tale, avrebbe dovuto essere trattato dalla CTR.

Il motivo è fondato.

La CTR ha ritenuto che la definizione della lite con la società e la conseguente estinzione del giudizio abbiano reso definitivo l’avviso di accertamento a carico della società e conseguentemente anche la rettifica del reddito d’impresa da imputare ai soci, in considerazione anche del fatto che questi si sono limitati -in entrambi i giudizi di merito- a fare proprie le doglianze formulate dalla società.

– Osserva il collegio che nella fattispecie in esame l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società e quello emesso nei confronti dei soci conservano, ciascuno, la propria autonomia, contrariamente a quanto si verifica nell’accertamento con adesione, ad istanza della società, che costituisce titolo per effettuare un accertamento nei confronti dei soci in ordine al maggior reddito da partecipazione (cfr., ordinanza 21834 del 7.9.2018);

e, con riferimento all’autonomo avviso di accertamento emesso ai fini Irpef nei confronti del socio, non è consentito invocare la sussistenza del presupposto, costituito dalla richiesta di definizione agevolata della lite fatta dalla società, atteso che la pretesa tributaria si esplica nella specie con una duplicità di avvisi, diretti a soggetti diversi e per imposte differenti, sicchè il condono fiscale ottenuto da una società di persone non estende automaticamente i suoi effetti nei confronti dei singoli soci, rispetto ai quali l’Ufficio conserva il potere di procedere ad accertamento, con l’ulteriore effetto che sono i soci a presentare eventualmente istanze dirette ad avvalersi del condono, il che nella specie non è avvenuto.

– Nei termini appena esposti si è di recente pronunciata la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 15076 del 15.7.2020, alla quale intende la presente decisione dare continuità.

– L’accoglimento del primo motivo comporta che resta assorbito l’esame degli altri.

– All’accoglimento del ricorso segue la cassazione della sentenza con rinvio, anche per le spese, alla Commissione Tributaria Regionale del Veneto, in diversa composizione.

P. Q. M.

Accoglie il primo motivo -assorbito il resto- cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione Tributaria Regionale del Veneto, in diversa composizione. Roma, 14 ottobre 2020

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