CASSAZIONE

Autotutela: la revoca parziale dell’atto impositivo non è impugnabile

Tributi – Accertamento induttivo – Art. 41-bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 –  Avviso di liquidazione – Atto di autoriduzione quantitativa della originaria pretesa impositiva – Effetti – Revoca parziale della pretesa tributaria – Salvaguardia dell’interesse dell’Amministrazione finanziaria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9215 del 6 aprile 2021 è intervenuta nuovamente sugli effetti dell’intervenuto atto di autotutela emanato dall’ufficio in pendenza di giudizio, dichiarando che l’autotutela parziale non è un atto autonomamente impugnabile.

Gli Ermellini hanno stabilito che il contribuente cui viene annullata una parte della pretesa deve proseguire nel contenzioso contro l’atto impositivo iniziale rettificato, se vuole contestare la parte confermata. Resta di tutta evidenza anche che il giudice tributario adito, a sua volta, non può dichiarare la cessazione della materia del contendere non essendo venuta meno l’intera pretesa.

E’ noto che la situazione oggi delineata risulta essere assai frequente nella pratica degli uffici finanziari, che se non ben chiarita potrebbe generare cospicui errori processuali, come testimonia l’esistenza di una non trascurabile casistica giurisprudenziale (ex multis v. Cass. n. 27543/2018; Cass. n. 22019/2014), ma in ogni caso la riduzione in autotutela dell’importo originariamente contestato con avviso, nel corso del procedimento tributario, non può comportare la cessazione della materia del contendere.

Resta infatti l’interesse della Pubblica amministrazione, a veder riconosciuto il proprio credito tributario e quello del contribuente, a negare la pretesa: conseguentemente, l’Autorità giudiziaria è tenuta a pronunciarsi sulla fondatezza della residua parte erariale.

Al fine di comprendere appieno l’intervento chiarificatore operato dalla Suprema Corte, e valutare gli effetti dell’autotutela in sede processuale, offriamo un breve inquadramento normativo dell’istituto in questione. Ricordiamo che l’autotutela indica la potestà che ha la Pubblica amministrazione di intervenire, sia d’ufficio che su istanza di parte, al fine di modificare o annullare provvedimenti precedentemente emessi, il che consente quindi alla stessa Amministrazione di autodifendersi dai propri errori, in modo tale da poter assolvere correttamente ai propri compiti istituzionali. Occorre precisare che la stessa si configura come potere di annullamento, ma anche di revoca e di rinuncia all’imposizione in caso di auto accertamento, fino a comprendere anche il potere di sospendere gli effetti dell’atto che appaia illegittimo o infondato. L’annullamento d’ufficio degli atti dell’Amministrazione finanziaria ha trovato il suo primo riconoscimento nell’articolo 97 della Costituzione, norma che sancisce i principi di buon andamento e imparzialità dei pubblici uffici, mentre in ambito tributario l’autotutela ha trovato fondamento legislativo generale nell’articolo 68, comma 1, del DPR 27 marzo 1992, n. 287 (Regolamento degli uffici e del personale del Ministero delle finanze).

A questa disposizione hanno fatto seguito l’articolo 2-quater del D.L. n. 564 del 1994 che detta, fra le altre, le regole sull’individuazione degli organi competenti all’autotutela, sulla definizione dei criteri per il suo esercizio (commi 1, 1-bis e 1-ter) e sulle ipotesi di annullamento o revoca parziali (commi 1-sexies, 1-septies e 1-octies), e il D.M. 11 febbraio 1997, n. 37 (Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria).

Inoltre, ulteriori disposizioni riguardanti l’autotutela sono dettate dalla legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), che all’articolo 7, comma 2, lettera b), prescrive che negli atti dell’Amministrazione finanziaria sia indicata l’autorità presso la quale è possibile promuovere la loro revisione in sede di autotutela e altresì, all’articolo 13, comma 6, affida al Garante del contribuente il compito di attivare le procedure di autotutela nei confronti degli atti di accertamento e di riscossione notificati al contribuente.

Dunque, l’autotutela si concretizza nella possibilità di porre rimedio a errori commessi (sia di diritto che di fatto) ed è esercitabile non soltanto nei confronti di atti d’imposizione fiscale per i quali non sia ancora decorso il termine per l’impugnativa a opera del contribuente, ma anche nei confronti di provvedimenti di imposizione ormai divenuti inoppugnabili e, quindi, non più suscettibili di contestazione a iniziativa del soggetto interessato.

Ciò detto, gli atti sui quali gli uffici possono esercitare il potere di autotutela sono, in linea di massima, quelli espressamente elencati dall’articolo 19, comma 1, del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, cioè gli atti accertativi, quelli esecutivi, i dinieghi o i mancati rimborsi contro i quali sarebbe stato ammissibile il ricorso del contribuente in Commissione tributaria. Inoltre, per quel che concerne le ipotesi in cui è possibile attivare l’autotutela, bisogna riferirsi a quanto espresso dall’articolo 2, c. 1 del D.M. 11 febbraio 1997, n. 37.

Tuttavia, come chiarito dalla circolare dell’Agenzia delle entrate n. 51/E del 19 febbraio 2002,  non è suscettibile di annullamento o rinuncia all’imposizione l’atto sul quale sia intervenuta una sentenza passata in giudicato a favore dell’Amministrazione e per i motivi addotti dal giudice adito; diversamente, per le sentenze dal contenuto meramente processuale (ad esempio, la sentenza passata in giudicato che abbia dichiarato l’inammissibilità del ricorso), le quali evidentemente non contengono nessuna statuizione sulla legittimità della pretesa impositiva e, pertanto, non escludono l’esercizio del potere di autotutela. Certamente, l’apprezzamento discrezionale operato in sede di autotutela tributaria presenta tratti particolari per la forza che assume, in quanto comporta diversi effetti a seconda che l’atto sia stato integralmente annullato ovvero sia intervenuta una rettifica in riduzione della pretesa erariale. E invero, nel primo caso, l’annullamento totale dell’atto impositivo, rappresentando un’autotutela sostituiva fa venir meno i termini di impugnazione e, pertanto, la pretesa basata su un nuovo atto impositivo – in luogo di quello precedente – comporta la decorrenza di nuovi termini d’impugnazione.

Viceversa la revoca parziale, rappresentando una mera rettifica in riduzione della pretesa iniziale – e non di una maggiore pretesa basata su un nuovo atto impositivo – non fa venir meno l’atto originario e, dunque, il computo dei termini di impugnazione si calcola dalla notifica dell’atto stesso.

La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 2246/18, depositata il 30 gennaio 2018, su tale punto aveva ribadito il principio di diritto secondo cui “in tema di accertamento delle imposte, la modificazione in diminuzione dell’originario avviso non esprime una nuova pretesa tributaria, limitandosi a ridurre quella originaria, per cui non costituisce atto nuovo, ma solo revoca parziale per quello precedente”. Ne discende, dunque, che se l’Amministrazione si limita a ridurre l’accertamento originario con un provvedimento di rettifica in autotutela, non si è in presenza di un nuovo atto impositivo, ma soltanto di una revoca parziale di quello precedente.

La revoca parziale dell’accertamento tributario non determina affatto la cessazione della materia del contendere, né travolge del tutto l’atto impugnato; pertanto, non trattandosi di un nuovo accertamento tributario, il provvedimento di rettifica non è autonomamente impugnabile.

In conclusione, tornando al caso oggi in esame, un professionista impugnava un accertamento compilato a seguito di indagini finanziarie; nell’indagine, era stato accertato il percepimento di maggiori ricavi da lavoro autonomo, con conseguente liquidazione di maggiori imposte, oltre interessi e sanzioni.

A seguito dell’annullamento parziale in autotutela dell’accertamento – mediante il quale l’atto impositivo era stato depurato dei prelevamenti non giustificati – la CTP aveva dichiarato l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, decisione poi confermata anche in secondo grado.

L’Ufficio finanziario promuoveva l’impugnazione e il giudice di appello stabiliva che l’atto di autotutela è un autonomo atto di accertamento con il quale si era proceduto alla rideterminazione del maggior reddito, facendo venir meno l’originario atto impositivo parzialmente annullato. L’Agenzia proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi, in cui essenzialmente viene affermato che l’atto di autotutela non è atto autonomamente impugnabile, né qualificabile in termini di autonomo atto di accertamento, con la conseguenza che avrebbe dovuto proseguire, nel merito, il giudizio già pendente. Gli Ermellini, sul punto, hanno riconosciuto la validità delle asserzioni dell’Avvocatura erariale, ricordando che in tema di accertamento delle imposte “… Il primo motivo è fondato, essendo ferma questa Corte nel ritenere che in tema di accertamento delle imposte, la modificazione in diminuzione dell’originario avviso – a differenza dell’accertamento integrativo, fondato sulla sopravvenuta conoscenza di nuovi fatti (Cass., Sez. V, 16 marzo 2020, n. 7293) – non esprime una nuova pretesa tributaria, per cui non costituisce atto nuovo, ma solo revoca parziale di quello precedente (Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27543; Cass., Sez. V, 17 ottobre 2014, n. 22019), tanto che non deve rispettare il termine decadenziale di esercizio del potere impositivo (Cass., Sez. VI, 8 giugno 2016, n. 11699), né costituisce atto specificamente impugnabile, non comportando alcuna effettiva innovazione lesiva degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui noto (Cass., Sez. V, 15 aprile 2016 , n. 7511; Cass., Sez. V, 16 novembre 2018, n. 29595). Pertanto, la riduzione in autotutela, durante il procedimento tributario, dell’importo originariamente contestato con l’avviso impugnato, non può comportare la cessazione della materia del contendere, in quanto permane l’interesse della pubblica amministrazione a veder riconosciuto il proprio credito tributario e quello del contribuente a negare la pretesa, con la conseguenza che l’autorità giudiziaria è tenuta a pronunciarsi sulla fondatezza della residua pretesa erariale (Cass., Sez. VI, 7 settembre 2020, n. 18625). La sentenza impugnata, nel ritenere che la riduzione della pretesa dell’Ufficio in autotutela comportasse il venir meno dell’interesse dell’Amministrazione finanziaria alla pronuncia giudiziale, non ha fatto buon governo di tali principi. Il ricorso va pertanto accolto in relazione al primo motivo, con assorbimento del secondo, e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice a quo, in diversa composizione, per ogni questione rimasta assorbita dalla decisione cassata”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 6 aprile 2021, n. 9215

sul ricorso 28836-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. 06363391001), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

Contro M. F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1766/13/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della PUGLIA, depositata il 30/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/01/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MICHELE CATALDI.

Rilevato che

1.Risulta dalla sentenza impugnata che il contribuente M. F., esercente la professione di geometra, ha impugnato un avviso di accertamento emesso ai sensi dell’art. 41-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, relativo al periodo di imposta dell’anno 2010, redatto a seguito di indagini finanziarie, con cui veniva accertato il percepimento di maggiori ricavi da lavoro autonomo, con conseguente liquidazione di maggiori imposte, oltre interessi e sanzioni.

A seguito dell’annullamento parziale dell’accertamento in autotutela, con il quale veniva depurato l’atto impositivo dei prelevamenti non giustificati, per effetto dell’applicazione della sentenza della Corte costituzionale del 6 ottobre 2014, n. 228, la CTP di Bari ha dichiarato l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere e la Commissione tributaria regionale della Puglia, con la sentenza n. 1766/13/2018, depositata il 30 maggio 2018, ha rigettato l’appello principale dell’Ufficio e ha accolto l’appello incidentale del contribuente quanto alle spese.

Ha ritenuto il giudice di appello che l’atto di autotutela fosse un autonomo atto di accertamento, con il quale si era proceduto alla rideterminazione del maggior reddito, facendo venir meno l’originario atto impositivo parzialmente annullato. Propone ricorso per cassazione l’Ufficio affidato a due motivi; il contribuente intimato non si è costituito in giudizio.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’articolo 380-bis cod. proc. civ.

Considerato che

1.Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 46 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che sussistessero i presupposti per la cessazione della materia del contendere.

Deduce infatti il ricorrente che, per effetto della riduzione del quantum della pretesa dell’Ufficio operata con l’annullamento parziale in autotutela, non poteva ritenersi venuto meno l’interesse dell’amministrazione finanziaria alla pronuncia che confermasse parzialmente il provvedimento originario, rimasto in vita per la parte non emendata e non sostituito dall’atto in autotutela.

Deduce, inoltre, il ricorrente come l’atto di autotutela non fosse atto autonomamente impugnabile, né qualificabile in termini di autonomo atto di accertamento, con la conseguenza che avrebbe dovuto proseguire, nel merito, il giudizio già pendente, avente ad oggetto l’accertamento originario, per quanto emendato da quello che lo ha parzialmente annullato, riducendo l’importo preteso.

2.Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. ed all’art. 112 cod. proc. civ., l’omessa pronuncia, per non avere il giudice di appello esaminato le argomentazioni di merito proposte dalla parte appellante in ordine alla legittimità dell’atto impositivo, sia pur limitatamente alla sua portata residuale, ridotta dall’annullamento parziale in autotutela.

3. Il primo motivo è fondato, essendo ferma questa Corte nel ritenere che in tema di accertamento delle imposte, la modificazione in diminuzione dell’originario avviso – a differenza dell’accertamento integrativo, fondato sulla sopravvenuta conoscenza di nuovi fatti (Cass., Sez. V, 16 marzo 2020, n. 7293) – non esprime una nuova pretesa tributaria, per cui non costituisce atto nuovo, ma solo revoca parziale di quello precedente (Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27543; Cass., Sez. V, 17 ottobre 2014, n. 22019), tanto che non deve rispettare il termine decadenziale di esercizio del potere impositivo (Cass., Sez. VI, 8 giugno 2016, n. 11699), né costituisce atto specificamente impugnabile, non comportando alcuna effettiva innovazione lesiva degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui noto (Cass., Sez. V, 15 aprile 2016 , n. 7511; Cass., Sez. V, 16 novembre 2018, n. 29595).

Pertanto, la riduzione in autotutela, durante il procedimento tributario, dell’importo originariamente contestato con l’avviso impugnato, non può comportare la cessazione della materia del contendere, in quanto permane l’interesse della pubblica amministrazione a veder riconosciuto il proprio credito tributario e quello del contribuente a negare la pretesa, con la conseguenza che l’autorità giudiziaria è tenuta a pronunciarsi sulla fondatezza della residua pretesa erariale (Cass., Sez. VI, 7 settembre 2020, n. 18625).

La sentenza impugnata, nel ritenere che la riduzione della pretesa dell’Ufficio in autotutela comportasse il venir meno dell’interesse dell’Amministrazione finanziaria alla pronuncia giudiziale, non ha fatto buon governo di tali principi. Il ricorso va pertanto accolto in relazione al primo motivo, con assorbimento del secondo, e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice a quo, in diversa composizione, per ogni questione rimasta assorbita dalla decisione cassata.

P. Q. M.

Accoglie il primo motivo, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, in data 27 gennaio 2021.

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