CASSAZIONE SANZIONI

I proventi illeciti vanno tassati

IRPEF – Reati tributari – Dichiarazione infedele – Redditi provenienti dai delitti di cui all’art. 646 cod. pen. – Rimborsi elettorali – Omessa indicazione – Imposta evasa – Confisca per equivalente

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18575 del 19 giugno 2020, intervenendo in tema di assoggettamento fiscale dei proventi illeciti ha ribadito che in tema di imposte sui redditi i proventi rientranti nelle categorie reddituali di cui all’art. 646 cod. pen. devono essere assoggettati a tassazione anche se il contribuente è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati.

Gli ermellini, in particolare, hanno voluto anche ricordare che proprio l’art. 14, comma 4, della legge n. 537/1993 (c.d. Legge Gallo) dispone espressamente che “… nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.

La tassabilità dei proventi da attività illecite ha costituito, e costituisce tutt’ora, una questione fortemente dibattuta, che non vede coinvolti solo principi economico-giuridici ma che, anche e soprattutto, si caratterizza per essere fonte di attrito tra i vari plessi giuridici.

Di concerto, anche per il diritto tributario la centralità dell’argomento è testimoniata dall’art. 14, co. 4, della L. n. 537/1993, la quale dispone che i proventi derivanti da attività “qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo” debbono essere assoggettati all’IRPEF, purché sussistano due condizioni: a) che tali proventi posseggano i requisiti necessari per trovare albergo in una delle categorie reddituali previste dal DPR 917/1986; b) che essi non siano già stati assoggettati a un provvedimento di sequestro o confisca penale.

Questa disposizione è passibile di abbracciare numerose fattispecie e di orientare la soluzione di molte delle questioni che, in tempi passati e recenti, dottrina e giurisprudenza hanno affrontato; ma ha anche sollevato, però, numerose perplessità in merito alla sua concreta possibilità di attuazione, tant’è che si è ravvisata l’esigenza di tornare a meditare sull’argomento alla luce della nozione di “reddito” recepita dal nostro ordinamento, di quella di “presupposto d’imposta” così come esplicitato dall’art. 1 del TUIR e dei principi costituzionali posti a custodia del sistema impositivo.

Come noto, la normativa sostanziale di riferimento sanziona, ai fini penali-tributari, le ipotesi di infedele e/o omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. In particolare, nel primo caso (infedele presentazione della dichiarazione), ai sensi dell’articolo 4. D.lgs. 74/2000, viene punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o IVA, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi inesistenti quando, congiuntamente, l’imposta evasa è superiore, con riferimento a ciascuna delle singole imposte, a 150.000 euro; l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, risulta superiore a 3 milioni di euro.

Peraltro, se con il citato DPR 917/1986 la giurisprudenza della Cassazione (Cass. n. 18111/2009) e l’Amministrazione finanziaria (Circ. n. 150/1994 del Dipartimento delle entrate) avevano già qualificato di natura interpretativa, il legislatore del 1993 aveva inteso rafforzare la risposta dello Stato a quanto era emerso a seguito delle clamorose inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta che hanno preso il nome di “Tangentopoli”, affermando esplicitamente un principio generale di tassabilità dei proventi di provenienza illecita.

Secondo quanto stabilito dalla norma del 1993, la tassabilità dei proventi illeciti è comunque subordinata alla riconducibilità degli stessi in una delle categorie reddituali previste dall’art. 6, comma 1, del TUIR (redditi fondiari; redditi di capitale; redditi di lavoro dipendente; redditi di lavoro autonomo; redditi di impresa e redditi diversi). L’inquadramento del provento illecito in una delle categorie reddituali è rilevante anche ai fini dell’applicazione dei diversi criteri di determinazione della base imponibile assoggettata a imposta e, in particolare, dei principi di competenza e di cassa.

Ricordiamo anche che la tassazione dei proventi illeciti è invece preclusa nell’ipotesi in cui gli stessi siano già sottoposti a sequestro o confisca penale e sempreché il provvedimento ablatorio sia intervenuto entro lo stesso periodo d’imposta nel quale si realizza il possesso fiscale del reddito.  Infatti, in considerazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, la Cassazione ha ritenuto che ai fini della non imponibilità dei proventi illeciti, “non assuma rilievo la mera possibilità di una futura confisca, bensì unicamente quella già avvenuta nel periodo d’imposta al quale si riferisce l’accertamento” (Cass. n. 28574/2008 ).

L’ambito applicativo della norma di interpretazione autentica introdotta dalla legge 537/1993 è stato risolutivamente chiarito, introducendo un più ampio principio di tassabilità, con l’art. 36, comma 34-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, secondo il quale “in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 , si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi”.

Con l’intento di chiarire la portata della norma introdotta nel 1993, il legislatore del 2006 ha così definitivamente sancito il principio di tassabilità di tutti i proventi illeciti, indipendentemente dal loro inquadramento in una specie reddituale. Gli stessi proventi, in realtà, qualora non siano classificabili nelle categorie previste all’art. 6, comma 1, del TUIR, devono comunque essere considerati come “redditi diversi”.

E’ evidente come l’intervento normativo in commento abbia risposto all’esigenza di attrarre a tassazione qualsiasi incremento patrimoniale derivante da un illecito civile, amministrativo o penale, a prescindere dalla non sempre agevole qualificazione reddituale.

Dopo la riforma introdotta dal D.lgs. 158/2015, si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio, ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali.

La Cassazione, comunque, si era già pronunciata sull’argomento affermando e definendo, ad esempio, che dovessero essere dichiarati e tassati i proventi derivanti dallo sfruttamento della prostituzione (Cass. n. 42160/2010), ritenendo che il diritto di non autoincriminazione sia recessivo rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche ai sensi dell’art. 53 della Costituzione (Cass.n.37107/2017; Cass. n.9746/2014; Cass. n.38085/2012; Cass. n.20032/2011; Cass. n. 42160/2010; Cass. n. 8252/2010; Cass. n.7411/2009; Cass. n. 37107/2017).  

Inoltre, citiamo che l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel riconoscere al soggetto il diritto di tacere e a non contribuire alla propria incriminazione, a garanzia di un equo processo, opererebbe, dunque, solo nell’ambito di un procedimento penale già attivato (Cass. n. 12697/2015). Il riferimento giurisprudenziale di tale orientamento si fonda, comunque, sulla “riconosciuta e incontestata” tassabilità dei proventi illeciti, anche delittuosi, che comporta “il necessario superamento di ogni remora anche in ordine alla dichiarazione, essendo connaturale al possesso di un reddito tassabile il relativo obbligo di dichiarazione” (Cass. n. 20032/2011), non sussiste quindi la violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. (cfr Cass. n. 12697/2014).

In buona sostanza è possibile affermare che anche i proventi della corruzione, come di tutte le altre attività illecite, vanno tassati.  La legge lo prevede ma non sempre questo avviene. Il fiume di denaro che alimenta gli scandali che coinvolgono pubblici amministratori, funzionari, manager di società pubbliche e private è probabilmente molto più ingente di quanto appare dalla lettura delle carte processuali.

Tanto premesso e tornando alla particolarità del caso de quo, esso si inserisce nei vari filoni relativi ai procedimenti per i rimborsi elettorali ricevuti dall’allora Lega Nord tra il 2008 e il 2010, per un totale di 48.969.617 euro. (cfr: Cass. Sent. n. 29923/2018; Cass. Sent. n. 28855/2018; Cass. Sent. 9743/2019; Sent. Trib. di Genova del 24/7/2017)

Per quanto oggi interessa l’imputato, che con sentenza del 17 luglio 2017 il Tribunale di Genova aveva condannato alla pena di mesi dieci di reclusione, per il reato di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, per avere omesso di indicare nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011 le somme reddituali contestate. Inoltre, con successiva sentenza del 15 febbraio 2019, la Corte d’appello di Genova, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale, rideterminando in euro 649.787,67 gli elementi attivi di reddito e in euro 279.408,70 l’imposta IRPEF evasa, riduceva tale somma la confisca disposta con la precedente sentenza e a nove mesi di reclusione la pena inflitta all’imputato.

Avverso la sentenza della Corte d’appello l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, composto da quattro motivi, chiedendone l’annullamento.

La Suprema Corte non ha però accolto le lagnanze addotte dall’imputato, specificando invece che: “… Il ricorso è inammissibile, risultando le censure sollevate in parte generiche e in parte manifestamente infondate. Il primo motivo, con il quale si deduce l’impossibilità di sottoporre a tassazione, ai sensi dell’art. 14, comma 4, della legge n. 537 del 1993, il reddito che sia stato confiscato o sequestrato, è inammissibile, avendo ad oggetto violazioni di legge non dedotte nei motivi di appello. La circostanza che nelle precedenti sedi processuali non era stato formulato alcun rilievo concernente il sequestro e la confisca dei proventi, conferisce, infatti, alla censura carattere assolutamente nuovo e ne preclude l’esame in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 606, comma 2, cod. proc. pen. In ogni caso, tale deduzione risulta manifestamente infondata.

Deve rilevarsi, sul punto, che l’art. 14, comma 4, della legge n. 537 del 1993 dispone che, «nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale». Fermo restando, dunque, che potrà ritenersi integrato il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o confisca.

L’operatività di tale meccanismo, secondo l’interpretazione data alla norma dalla costante giurisprudenza di legittimità, è tuttavia subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce. Il sequestro e la confisca dei proventi, in altri termini, sono opponibili al fisco purché intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti ablatori determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito.

Per converso, nessuna rilevanza assume l’apposizione di tali vincoli qualora sia disposta, come nel caso di specie, contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, come ulteriore conseguenza sanzionatoria del reato di dichiarazione infedele imposta dall’art. 12-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, a notevole distanza di tempo dalla consumazione del reato (ex plurimis, Cass. civ., Sez. 5, n. 28375 del 05/11/2019, Rv. 655895; Cass. civ., Sez. 5, n. 28519 del 20/12/2013, Rv. 629332; Cass. pen., Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Rv. 246095).  

Il secondo motivo, con il quale si deduce l’insussistenza del reato di appropriazione indebita, è parimenti inammissibile perché formulato in termini non specifici. Deve, infatti, ricordarsi che sono inammissibili per genericità i motivi che riproducono e reiterano gli stessi rilievi prospettati con l’atto di appello, motivatamente respinti in secondo grado, e non si confrontano criticamente con le argomentazioni utilizzate nel provvedimento impugnato, limitandosi a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (ex plurimis, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970). Nel caso di specie, il giudice di secondo grado giunge ad affermare che, seppure si ipotizzasse come verosimile la tesi difensiva della natura non delittuosa dei proventi corrisposti all’imputato dalla Lega Nord come rimborsi elettorali, tali somme potrebbero essere al più qualificate come compensi di fatto percepiti dall’imputato per il suo operato; con la conseguenza che, in ogni caso, l’eventuale accertamento circa tale diversa provenienza del denaro non avrebbe fatto venir meno la configurabilità del reato di dichiarazione infedele, consistente, nel caso per cui si procede, nell’omessa dichiarazione di elementi attivi di reddito conseguiti nel corso dell’anno 2011.

Né tantomeno tale eventuale diversa qualificazione – come ben evidenziato nell’impugnata pronuncia – viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, che va valutato in relazione all’identità del fatto contestato e sempre nell’ottica di garantire l’esercizio del diritto di difesa da parte del ricorrente, comunque pienamente assicurato nel caso di specie.

Deve rilevarsi, del resto, che il ricorrente, a fronte del coerente e logico percorso motivazionale seguito dal giudice di secondo grado, si limita a formulare censure meramente ipotetiche, senza mai indicare il presunto titolo che legittimerebbe il percepimento delle somme o, per converso, la circostanza del loro mancato percepimento. Il terzo motivo, con il quale si lamentano l’erronea applicazione dell’aliquota massima nonché il mancato superamento della soglia di punibilità ex art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, è inammissibile, perché incentrato su elementi nuovi, non dedotti nel giudizio di appello. Infatti, il rilievo concernente la determinazione della percentuale di tassazione cui sottoporre il reddito percepito dall’imputato – su cui si basa la prospettazione di parte ricorrente – è stato proposto per la prima volta nel giudizio di legittimità. Le deduzioni difensive risultano, comunque, del tutto destituite di fondamento, dal momento che la somma oggetto di dichiarazione dei redditi dell’imputato per l’anno di imposta 2011 era pari ad euro 175.884,00 e che per il reddito riconducibile all’ultimo scaglione, il cui ammontare sia quindi superiore ad euro 75.000,00, trova comunque applicazione un’aliquota IRPEF pari al 43%, con conseguente superamento della soglia di punibilità. Il quarto motivo, con il quale si deducono l’inattendibilità dei documenti contabili nonché l’insufficiente valutazione delle relazioni peritali, è inammissibile in quanto genericamente riferito a profili fattuali.

Il ricorrente, infatti, pur attraverso una formale denuncia di violazione di legge e vizio di motivazione, mira ad ottenere una rivalutazione delle risultanze peritali che costituisce giudizio di fatto, incensurabile dinnanzi alla Corte di cassazione, se logicamente e congruamente motivato, come nel caso di specie.

Ed invero, dall’accertamento da parte dei periti dell’esistenza in cassa di un saldo negativo di euro 327.789, ritenendo non plausibile l’impiego di somme di denaro in eccedenza rispetto a quelle effettivamente disponibili, la Corte d’appello ha ragionevolmente desunto la totale inattendibilità delle annotazioni di cassa riguardanti la gestione contabile dei fondi della Lega Nord.

Sulla base di tali considerazioni ha ritenuto di escludere dai redditi non dichiarati tutte le somme di denaro delle quali non è stato possibile accertare l’impiego a favore dell’imputato stesso o di terzi, così rideterminando, e riducendo proporzionalmente, l’ammontare dell’imposta evasa dall’imputato.

E lo stesso ricorrente, nell’invocare l’omessa valutazione, da parte dei giudici di secondo grado, del contenuto delle relazioni tecniche, ammette e sostiene l’assoluta inattendibilità dei conti di cassa la quale, facendo emergere una discrasia tra il dichiarato e ciò che è stato realmente percepito e determinando, di conseguenza, un’obiettiva situazione di incertezza in ordine alle rappresentazione delle somme ivi contabilizzate, costituisce indizio rilevante del reato di dichiarazione infedele. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile”.

Corte di Cassazione – Sentenza 19 giugno 2020, n. 18575

sul ricorso proposto da:

B. F., nato a Genova il 04/02/1971 avverso la sentenza del 15/02/2019 della Corte d’appello di Genova

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro Maria Andronio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Felicetta Marinelli, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato;

udito il difensore, avv. Angelo Alessandro Sammarco. 

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 17 luglio 2017, il Tribunale di Genova ha condannato l’imputato alla pena – condizionalmente sospesa – di mesi dieci di reclusione, per il reato di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, per avere omesso di indicare, nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011, elementi attivi di reddito pari a euro 1.301.704,00 provenienti dai delitti di cui all’art. 646 cod. pen. ai danni del partito “Lega Nord”, con un’imposta IRPEF evasa di euro 559.732,00, disponendo la confisca per equivalente fino alla concorrenza dell’ammontare dell’imposta evasa.

Con sentenza del 15 febbraio 2019, la Corte d’appello di Genova, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale, rideterminando in euro 649.787,67 gli elementi attivi di reddito e in euro 279.408,70 l’imposta IRPEF evasa, ha ridotto a tale somma la confisca disposta con la precedente sentenza e a nove mesi di reclusione la pena inflitta all’imputato.

2. Avverso la sentenza della Corte d’appello l’imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

2.1. Con una prima doglianza, si deducono la violazione degli artt. 36, comma 34-bis, del di. n. 223 del 2006 e 14 della legge n. 537 del 1993, nonché vizi di motivazione relativamente alla determinazione del reddito imponibile. A parere della difesa, la Corte d’appello non avrebbe considerato che l’art. 36, comma 34-bis, del d.l. n. 223 del 2006 ha ampliato la nozione di “reddito diverso” di cui all’art. 14, comma 4, della legge n. 537 del 1993, ricomprendendovi i proventi derivanti da illecito, ma ha lasciato inalterata la restante disciplina del citato comma 4, che contempla, come presupposto della sottoposizione ad imposta dei redditi diversi provenienti da illecito, che gli stessi non siano stati sottoposti a sequestro o a confisca penale.

Nel caso di specie, dal momento che il reddito indebitamente percepito dall’imputato è stato oggetto di sequestro e di confisca, mancherebbe il presupposto per la tassazione del reddito stesso come proveniente da delitto e non sussisterebbe, di conseguenza, il reato fiscale.

2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si lamentano la violazione dell’art. 522 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione con riferimento alla provenienza della somma oggetto dell’imputazione, in quanto il giudice di secondo grado avrebbe eluso l’argomentazione difensiva, volta a evidenziare la mancanza di prova della condotta di appropriazione indebita, e avrebbe violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, nella parte in cui ha affermato che l’eventuale esclusione della provenienza delittuosa delle somme oggetto di evasione fiscale non ostacola la configurazione del reato di dichiarazione infedele.

La decisione sarebbe altresì contraddittoria dal momento che il giudice, dopo avere formulato tale dichiarazione di principio, avrebbe dato per presupposta l’illecita provenienza delle somme di denaro percepite dall’imputato, riconducendole alla categoria di “redditi diversi”, piuttosto che verificarne in concreto la natura e i limiti di assoggettabilità a imposizione fiscale.

2.3. In terzo luogo, si deducono la violazione di legge in ordine alla determinazione dell’aliquota applicabile al reddito oggetto di evasione fiscale e il vizio di motivazione, dal momento che i giudici di secondo grado, piuttosto che applicare l’aliquota reale, corrispondente a quella che il contribuente avrebbe pagato ove il reddito fosse stato ricompreso nella dichiarazione, si sarebbero limitati ad applicare la percentuale di tassazione prevista dallo scaglione di reddito più alto (il 43%).

Inoltre – sostiene la difesa – andrebbero scorporate dall’importo complessivo presuntivamente evaso dall’imputato, le seguenti somme di denaro, non oggetto di condotte appropriative da parte dello stesso:

a) euro 60.000,00 come pagamento dell’avv. S., avendo quest’ultimo percepito la diversa somma di euro 6.000,00;

b) euro 51.000,00, non oggetto della dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011 perché in realtà riferiti all’anno 2010;

c) euro 100.000,00, impiegati per un investimento del partito e già riconsegnati.

Cosicché, tenendo conto di tali detrazioni e applicando l’aliquota reale, l’ammontare dell’imposta evasa dal contribuente sarebbe stato al di sotto della soglia di punibilità di euro 150.000,00 prevista dall’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 74 del 2000.

2.4. Con una quarta doglianza, si lamentano la violazione di legge in relazione al calcolo del reddito imponibile e il vizio di motivazione, sul rilievo che la totale inattendibilità dei documenti contabili denunciata dalla difesa con l’atto di appello – e dimostrata dall’anomala presenza nella cassa del partito di un saldo negativo di euro 327.789,00 – impediva di avere contezza delle somme oggetto di appropriazione indebita tassabili, secondo la normativa fiscale, quali redditi diversi.

Inoltre, sarebbe stata pretermessa dalla Corte d’appello la circostanza emersa negli accertamenti peritali di C. e M. relativa all’esistenza in cassa di un saldo positivo di euro 338.000,00, che avrebbe imposto, in ogni caso, di procedere nuovamente al calcolo degli importi oggetto di appropriazione indebita.

Per la difesa, infatti, scomputando tale somma dall’ammontare ritenuto oggetto di illecita appropriazione (euro 649.787,67) e applicando al ricavato il coefficiente del 43%, l’importo evaso (euro 134.068,69) risulterebbe inferiore alla soglia di punibilità di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, e ciò non consentirebbe di configurare l’illecito penale.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile, risultando le censure sollevate in parte generiche e in parte manifestamente infondate.

1.1. Il primo motivo, con il quale si deduce l’impossibilità di sottoporre a tassazione, ai sensi dell’art. 14, comma 4, della legge n. 537 del 1993, il reddito che sia stato confiscato o sequestrato, è inammissibile, avendo ad oggetto violazioni di legge non dedotte nei motivi di appello.

La circostanza che nelle precedenti sedi processuali non era stato formulato alcun rilievo concernente il sequestro e la confisca dei proventi, conferisce, infatti, alla censura carattere assolutamente nuovo e ne preclude l’esame in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 606, comma 2, cod. proc. pen. In ogni caso, tale deduzione risulta manifestamente infondata.

Deve rilevarsi, sul punto, che l’art. 14, comma 4, della legge n. 537 del 1993 dispone che, «nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale».

Fermo restando, dunque, che potrà ritenersi integrato il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o confisca.

L’operatività di tale meccanismo, secondo l’interpretazione data alla norma dalla costante giurisprudenza di legittimità, è tuttavia subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce.

Il sequestro e la confisca dei proventi, in altri termini, sono opponibili al fisco purché intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti ablatori determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito.

Per converso, nessuna rilevanza assume l’apposizione di tali vincoli qualora sia disposta, come nel caso di specie, contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, come ulteriore conseguenza sanzionatoria del reato di dichiarazione infedele imposta dall’art. 12-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, a notevole distanza di tempo dalla consumazione del reato (ex plurimis, Cass. civ., Sez. 5, n. 28375 del 05/11/2019, Rv. 655895; Cass. civ., Sez. 5, n. 28519 del 20/12/2013, Rv. 629332; Cass. pen., Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Rv. 246095).

1.2. Il secondo motivo, con il quale si deduce l’insussistenza del reato di appropriazione indebita, è parimenti inammissibile perché formulato in termini non specifici.

Deve, infatti, ricordarsi che sono inammissibili per genericità i motivi che riproducono e reiterano gli stessi rilievi prospettati con l’atto di appello, motivatamente respinti in secondo grado, e non si confrontano criticamente con le argomentazioni utilizzate nel provvedimento impugnato, limitandosi a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (ex plurimis, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970). Nel caso di specie, il giudice di secondo grado giunge ad affermare che, seppure si ipotizzasse come verosimile la tesi difensiva della natura non delittuosa dei proventi corrisposti all’imputato dalla Lega Nord come rimborsi elettorali, tali somme potrebbero essere al più qualificate come compensi di fatto percepiti dall’imputato per il suo operato; con la conseguenza che, in ogni caso, l’eventuale accertamento circa tale diversa provenienza del denaro non avrebbe fatto venir meno la configurabilità del reato di dichiarazione infedele, consistente, nel caso per cui si procede, nell’omessa dichiarazione di elementi attivi di reddito conseguiti nel corso dell’anno 2011.

Né tantomeno tale eventuale diversa qualificazione – come ben evidenziato nell’impugnata pronuncia – viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, che va valutato in relazione all’identità del fatto contestato e sempre nell’ottica di garantire l’esercizio del diritto di difesa da parte del ricorrente, comunque pienamente assicurato nel caso di specie. Deve rilevarsi, del resto, che il ricorrente, a fronte del coerente e logico percorso motivazionale seguito dal giudice di secondo grado, si limita a formulare censure meramente ipotetiche, senza mai indicare il presunto titolo che legittimerebbe il percepimento delle somme o, per converso, la circostanza del loro mancato percepimento.

1.3. Il terzo motivo, con il quale si lamentano l’erronea applicazione dell’aliquota massima nonché il mancato superamento della soglia di punibilità ex art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, è inammissibile, perché incentrato su elementi nuovi, non dedotti nel giudizio di appello.

Infatti, il rilievo concernente la determinazione della percentuale di tassazione cui sottoporre il reddito percepito dall’imputato – su cui si basa la prospettazione di parte ricorrente – è stato proposto per la prima volta nel giudizio di legittimità. Le deduzioni difensive risultano, comunque, del tutto destituite di fondamento, dal momento che la somma oggetto di dichiarazione dei redditi dell’imputato per l’anno di imposta 2011 era pari ad euro 175.884,00 e che per il reddito riconducibile all’ultimo scaglione, il cui ammontare sia quindi superiore ad euro 75.000,00, trova comunque applicazione un’aliquota IRPEF pari al 43%, con conseguente superamento della soglia di punibilità.

1.4. Il quarto motivo, con il quale si deducono l’inattendibilità dei documenti contabili nonché l’insufficiente valutazione delle relazioni peritali, è inammissibile in quanto genericamente riferito a profili fattuali. Il ricorrente, infatti, pur attraverso una formale denuncia di violazione di legge e vizio di motivazione, mira ad ottenere una rivalutazione delle risultanze peritali che costituisce giudizio di fatto, incensurabile dinnanzi alla Corte di cassazione, se logicamente e congruamente motivato, come nel caso di specie. Ed invero, dall’accertamento da parte dei periti dell’esistenza in cassa di un saldo negativo di euro 327.789, ritenendo non plausibile l’impiego di somme di denaro in eccedenza rispetto a quelle effettivamente disponibili, la Corte d’appello ha ragionevolmente desunto la totale inattendibilità delle annotazioni di cassa riguardanti la gestione contabile dei fondi della Lega Nord. Sulla base di tali considerazioni ha ritenuto di escludere dai redditi non dichiarati tutte le somme di denaro delle quali non è stato possibile accertare l’impiego a favore dell’imputato stesso o di terzi, così rideterminando, e riducendo proporzionalmente, l’ammontare dell’imposta evasa dall’imputato. E lo stesso ricorrente, nell’invocare l’omessa valutazione, da parte dei giudici di secondo grado, del contenuto delle relazioni tecniche, ammette e sostiene l’assoluta inattendibilità dei conti di cassa la quale, facendo emergere una discrasia tra il dichiarato e ciò che è stato realmente percepito e determinando, di conseguenza, un’obiettiva situazione di incertezza in ordine alle rappresentazione delle somme ivi contabilizzate, costituisce indizio rilevante del reato di dichiarazione infedele.

2. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera a), del d.p.c.m. 8 marzo 2020. Così deciso il 14/02/2020.

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