CASSAZIONE

La sentenza con motivazione meramente apparente è nulla

Tributi – IVA – Contenzioso tributario – Studi di settore – Procedimento – Inerenza – Sentenza – Motivazione solo apparente – Prova di operazioni parzialmente inesistenti

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9340 del 21 maggio 2020, è  tornata a occuparsi della validità della sentenza corredata da una motivazione meramente apparente, ricordando che ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge costituzionalmente imposto (Cost., art. 111, sesto comma), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata.  

Inoltre, l’articolo 36, D.lgs. 546/1992, simmetricamente stabilisce, con specifico riferimento all’ambito tributario, il principio generale per cui la sentenza, per essere valida, deve soddisfare i requisiti previsti dalla legge, con specifico riguardo alla “succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto”, al fine di permettere alle parti in causa di comprendere l’iter argomentativo che ha portato il Giudice a emettere quel determinato provvedimento. A tal riguardo è infatti vero che “… le decisioni di carattere giurisdizionale senza motivazione alcuna sono da considerarsi come non esistenti” (ex multis, Cass. n. 2876/2017; Cass., Sez. U., n. 16599 e n. 22232 del 2016 e n. 7667 del 2017 e n. 20414/2018). Alla stregua di tali arresti consegue che la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio.

La giurisprudenza sul punto è univoca e consolidata a far punto dalla storica pronuncia delle Sezioni unite, la n. 1093 del 1947, in cui la Corte ebbe a precisare che “…d’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità e che le decisioni di carattere giurisdizionale senza motivazione alcuna sono da considerarsi come non esistenti”. 

Sempre con sentenza n. 22232/2016, presa a Sezioni Unite, gli Ermellini precisano inoltre che quando si afferma che la motivazione è solo apparente e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo benché graficamente esistente, non si renda tuttavia percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento. 

Peraltro, la sanzione di nullità non interessa esclusivamente le sentenze del tutto carenti di motivazione dal punto di vista sostanziale o quelle che evidenziano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” o che espongono una “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, ma anche quelle che accolgono una motivazione manifestamente apparente e, di conseguenza, integralmente paragonabile alla più rilevante espressione di irregolarità. Questo in quanto, nonostante la sembianza di una giustificazione a supporto della decisione assunta, la motivazione esposta dal Giudice non permette “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato”, facendo venire meno lo scopo intrinseco della sentenza, finalizzato a manifestare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo, a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi”.  In particolare, nelle nullità del diritto tributario, in violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4, D.lgs. n. 546/1992, dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 111 della Costituzione, opera il principio generale della cristallizzazione (cd. consolidamento) della pretesa del titolare del potere impositivo.

In sostanza, anche l’atto astrattamente “nullo”, se non oggetto di specifica censura e impugnativa giurisdizionale da parte del contribuente, si evolve e si trasforma in atto sano e, conseguentemente, creatore di effetti giuridici. Le forme di invalidità dell’atto tributario, ove anche dal legislatore indicate sotto il nomen di nullità, non sono rilevabili d’ufficio dal giudice, né possono essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di Cassazione, come risulta dalla sentenza della Cassazione, la n. 18448 del  18 settembre 2015, nella quale si sottolinea che “ … In materia tributaria, alla sanzione della nullità comminata dall’art. 42, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 o da altre diposizioni non si applica il regime di diritto amministrativo di cui agli artt. 21 septies della l. n. 241 del 1990 e 31, comma 4, del d.lgs. n. 104 del 2010, che risulta incompatibile con le specificità degli atti tributari relativamente ai quali il legislatore, nella sua discrezionalità, ha configurato una categoria unitaria d’invalidità-annullabilità, sicché il contribuente ha l’onere della tempestiva impugnazione nel termine decadenziale di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, onde evitare il definitivo consolidarsi della pretesa tributaria, senza che alcun vizio possa, poi, essere invocato nel giudizio avverso l’atto consequenziale o, emergendo dagli atti processuali, possa essere rilevato di ufficio dal giudice”. 

Inoltre, sempre a parere del Collegio di Legittimità, il ricorso è fondato in quanto costituisce un precetto chiaro e univoco (Cass. n. 2876/2017) il principio secondo cui il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, omette di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione.

Il dovere “di specificare le ragioni del suo convincimento” quale “elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale” è affermazione nella quale la Corte ha precisato che “l’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità” e che“le decisioni di carattere giurisdizionale senza motivazione alcuna sono da considerarsi come non esistenti”. Di conseguenza,la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che espongono una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. n. 21257/2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla più grave forma di vizio in quanto, dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (Cass. n. 4448/2014), venendo quindi meno alla sua finalità, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. Sez. Un., n. 22232/2016).

Tanto premesso, e tornando al caso di specie, l’Agenzia delle entrate, a seguito di un’attività di verifica effettuata dall’ufficio, emetteva nei confronti di C.P. tre avvisi di accertamento con cui operava il recupero a tassazione per i periodi di imposta 2000, 2001 e 2002 dell’indebita deduzione di costi per operazioni non inerenti e inesistenti, nonché illegittima detrazione dell’IVA conseguente all’indeducibilità dei costi sostenuti per prestazioni rese da Z.S., ritenute infondate.

Il contribuente impugnava gli avvisi, ma la giustizia tributaria accoglieva parzialmente l’appello delle Entrate e rideterminava i costi deducibili come retribuzioni dovute allo Z.S., ritenendo che fosse provata la prestazione di un’attività di collaborazione intercorsa tra quest’ultimo e il contribuente C.P.   

che ricorreva allora in Cassazione dolendosi  che la CTR, con una motivazione solo apparente, aveva ritenuto che le prestazioni rese dallo Z.S. risultavano parzialmente inesistenti e di importo inferiore rispetto a quello indicato nelle fatture oggetto di contestazione, ritenendo che dagli atti di causa e soprattutto dalle affermazioni dei rappresentanti delle parti in corso di udienza, risultava che tra quest’ultimo e il contribuente fossero intercorsi, negli anni in questione, dei rapporti commerciali, seppure non dell’entità rappresentata dagli importi indicati nelle fatture emesse, senza precisare su quale materiale processuale genericamente richiamata avesse fondato il proprio convincimento. Anche l’Ufficio si costituiva proponendo ricorso incidentale.

In linea con il prevalente orientamento giurisprudenziale,gli Ermellini hanno riconosciuto le ragioni della parte contribuente in quanto “ … Con il primo motivo il contribuente deduce in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in ordine alla fatturazione di operazioni di prestazioni in parte inesistenti, nonché, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c.. Lamenta che la CTR con una motivazione solo apparente aveva ritenuto che le prestazioni rese dallo Z. risultavano parzialmente inesistenti e di importo inferiore rispetto a quello indicato nelle fatture oggetto di contestazione, ritenendo che dagli atti di causa e soprattutto dalle affermazioni dei rappresentanti delle parti in corso di udienza, risultava che tra quest’ultimo e il contribuente fossero intercorsi, negli anni in questione, dei rapporti commerciali, seppure non dell’entità rappresentata dagli importi indicati nelle fatture emesse, senza precisare su quale materiale processuale genericamente richiamato avesse fondato il proprio convincimento.

La censura è fondata. Premesso quanto riferito in relazione alla seconda censura del ricorrente osserva il Collegio che dagli elementi contenuti nella motivazione degli avvisi di accertamento, riprodotta dal ricorrente, si evince che sulla base di fatture contabilizzate dal verificato P.C. l’ufficio aveva provveduto ad effettuare un riscontro incrociato e raccolto le dichiarazioni del soggetto emittente il quale in una prima seduta aveva affermato che nel periodo indicato non aveva lavorato (l’unica fonte di reddito goduta era una pensione di invalidità per infortunio), non aveva percepito corrispettivi rientranti a fini Iva e non aveva emesso le fatture. In una successiva seduta lo stesso Z. aveva dichiarato di essere un semplice lavoratore subordinato del P., privo di beni strumentali e che aveva eseguito un ordine fisso per ciascun giorno lavorativo, percependo compensi per L.3.000.000/ L.3.500,000 mensili. Inoltre la società committente non aveva esibito alcun tipo di documentazione atta a dimostrare l’esistenza del rapporto commerciale né di un rapporto di lavoro subordinato, nè pagamenti corrispondenti alle fatture emesse.La CTR si è limitata ad affermare che “al di là delle contraddittorie affermazioni dello Z., sulle quali l’Ufficio ha in sostanza basato il proprio accertamento, dagli atti di causa e soprattutto dalle affermazioni dei rappresentanti delle parti, in corso di udienza, risulta che tra questi e il contribuente sono intercorsi negli anni in questione dei rapporti commerciali, seppure non dell’entità rappresentata dagli importi che sono indicati nelle fatture emesse dallo Z….” e sulla base di “come affermato dallo Z., secondo il quale gli importi corrispostigli dal P. ammontavano mensilmente a tre milioni/tre milioni e mezzo di lire” ha rideterminato i costi. La motivazione della CTR, appare dunque oltre che insufficiente e contraddittoria del tutto apparente perché non è dato comprendere il percorso argomentativo seguito dal giudice, il corretto dispiegarsi dell’onere della prova, su quali atti di causa e quali dichiarazioni abbia fondato la propria decisione, la natura dei rapporti tra il contribuente e lo Z. (quale rapporto commerciale o rapporto di lavoro subordinato) e la fonte del proprio convincimento.  L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta, a prescindere dall’eccezione di inammissibilità, formulata dal ricorrente con le memorie depositate il 17.01.2020 l’assorbimento del ricorso incidentale dell’ufficio con il quale si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 cpc. per avere la CTR aveva ritenuto provato che vi erano stati rapporti commerciali tra le parti con costi a carico del P. senza che il ricorrente avesse provato alcunché in relazione a detti costi, fondati sulle dichiarazioni dello Z. ritenute dallo stesso giudice di appello contraddittorie e insufficiente motivazione su un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. per avere la CTR ritenuto che il fondamento dei costi dedotti sarebbe l’esistenza di rapporti commerciali, sulla base dei quali sarebbero stati corrisposti degli importi senza che avere motivato su quale base fossero stati ritenuti provati tanto le prestazioni fornite che gli importi corrisposti. La sentenza deve essere, pertanto, cassata con rinvio alla CTR del Veneto, in diversa composizione, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 21 maggio 2020, n. 9340

sul ricorso 2038-2212 proposto da:

P, C., elettivamente domiciliato in ROMA VIA POLONIA 7, presso lo studio dell’avvocato EDVIGE ANNA MAGDA ALVINO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI PADOVA;

 intimati –

 nonché da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOCHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che la rappresenta e difende;

– ricorrente incidentale –

contro P. C.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 109/2010 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA, depositata il 26/11/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/01/2020 dal Consigliere Dott. ROSARIA MARIA CASTORINA. 

Svolgimento del processo

L’Agenzia delle Entrate, a seguito di una attività di verifica effettuata dall’ufficio di Este, in considerazione della non corrispondenza con gli studi di settore delle dichiarazioni presentate dal contribuente, emetteva nei confronti di C.P. tre avvisi di accertamento con cui operava il recupero a tassazione per i periodi di imposta 2000, 2001 e 2002 dell’indebita deduzione di costi per operazioni non inerenti, non di competenza e inesistenti, nonché illegittima detrazione dell’Iva conseguente all’indeducibilità dei costi sostenuti per prestazioni rese da Z. S., ritenute inesistenti.

Il contribuente impugnava gli avvisi davanti la Commissione Tributaria Provinciale di Padova la quale accoglieva i ricorsi previamente riuniti.

La Commissione Tributaria Regionale del Veneto, con sentenza n. 109 del 2010 depositata il 26.11.2010 accoglieva parzialmente l’appello dell’Agenzia delle Entrate e rideterminava i costi deducibili nella misura di € 21.691,19 come retribuzioni dovute allo Z. ritenendo che fosse provata la prestazione di una attività di collaborazione intercorsa tra quest’ultimo e il contribuente.

C.P. ricorre per la cassazione della sentenza della CTR del Veneto affidando il gravame a due motivi, illustrati con memoria.

L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso, proponendo ricorso incidentale affidato a due motivi.

Motivi della decisione

1. Con il secondo motivo, da trattarsi preliminarmente la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 del DPR n.600 del 1973, dell’art. 54 del DPR 633 del 1972 e degli artt. 2697, 2727 e 2729 per non avere la CTR erroneamente ritenuto che incombeva sull’amministrazione l’onere della prova della inesistenza delle operazioni documentate con fatture formalmente corrette.

La censura non è fondata.

2. Secondo la giurisprudenza che si è andata consolidando sulla problematica relativa alla detraibilità dell’I.V.A. ed alla deducibilità dei costi nel caso di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, la fattura, di regola, costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto e alla deducibilità dei costi in essa annotati, per cui spetta all’Ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto.

Tale prova può essere fornita anche mediante elementi indiziari e presuntivi, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. n. 9108 del 6/6/2012).

Pertanto, nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, ossia sia mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere, e quindi, contesti anche l’indebita detrazione dell’I.V.A. e la deduzione dei costi, ha l’onere di provare che l’operazione fatturata non è mai stata effettuata, indicando, a tal fine, elementi anche indiziari (Cass. n. 20059 del 24/9/2014; n. 15741 del 19/9/2012; n. 27718 del 11/12/2013; n. 9363 del 8/5/2015; nello stesso senso C. Giust. 6 luglio 2006, C- 439/04; 21 febbraio 2006, C- 255/02; 21 giugno 2012, C. 80/11); a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate.

Tale ultima prova non può tuttavia consistere nella esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poiché questi sono facilmente falsificabili o vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. n.6865/2019; n. 17619 del 5/7/2018; n. 5406 del 18/3/2016; n. 18118 del 14/9/2016; n. 28683/15; n. 428 del 14/1/2015; n. 12802 del 10/6/2011; n. 15228 del 3/12/2001).

Con specifico riferimento all’I.V.A., inoltre, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti, il diritto alla detrazione dell’imposta non può in alcun modo farsi discendere – anche sul piano probatorio – dal solo fatto dell’avvenuta corresponsione dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza dell’operazione all’impresa, che è certamente mancante in relazione al pagamento dell’I.V.A. corrisposta per operazioni (anche parzialmente) inesistenti, in quanto di per sé inidoneo a configurare un pagamento a titolo di rivalsa, trattandosi di costo non inerente all’attività dell’impresa, ed anzi potenziale espressione di detrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da rompere il detto nesso di inerenza (Cass. n. 735 del 19/1/2010; n. 6973 del 8/4/2015).

Nella specie la CTR ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto affermati dalla Corte.

3. Con il primo motivo il contribuente deduce in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in ordine alla fatturazione di operazioni di prestazioni in parte inesistenti, nonché, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c..

Lamenta che la CTR con una motivazione solo apparente aveva ritenuto che le prestazioni rese dallo Z. risultavano parzialmente inesistenti e di importo inferiore rispetto a quello indicato nelle fatture oggetto di contestazione, ritenendo che dagli atti di causa e soprattutto dalle affermazioni dei rappresentanti delle parti in corso di udienza, risultava che tra quest’ultimo e il contribuente fossero intercorsi, negli anni in questione, dei rapporti commerciali, seppure non dell’entità rappresentata dagli importi indicati nelle fatture emesse, senza precisare su quale materiale processuale genericamente richiamato avesse fondato il proprio convincimento.

La censura è fondata

Premesso quanto riferito in relazione alla seconda censura del ricorrente osserva il Collegio che dagli elementi contenuti nella motivazione degli avvisi di accertamento, riprodotta dal ricorrente, si evince che sulla base di fatture contabilizzate dal verificato P.C. l’ufficio aveva provveduto ad effettuare un riscontro incrociato e raccolto le dichiarazioni del soggetto emittente il quale in una prima seduta aveva affermato che nel periodo indicato non aveva lavorato (l’unica fonte di reddito goduta era una pensione di invalidità per infortunio), non aveva percepito corrispettivi rientranti a fini Iva e non aveva emesso le fatture.

In una successiva seduta lo stesso Z. aveva dichiarato di essere un semplice lavoratore subordinato del P., privo di beni strumentali e che aveva eseguito un ordine fisso per ciascun giorno lavorativo, percependo compensi per L.3.000.000/ L.3.500,000 mensili. Inoltre il società committente non aveva esibito alcun tipo di documentazione atta a dimostrare l’esistenza del rapporto commerciale né di un rapporto di lavoro subordinato, nè pagamenti corrispondenti alle fatture emesse.

La CTR si è limitata ad affermare che “al di là delle contraddittorie affermazioni dello Z., sulle quali l’Ufficio ha in sostanza basato il proprio accertamento, dagli atti di causa e soprattutto dalle affermazioni dei rappresentanti delle parti, in corso di udienza, risulta che tra questi e il contribuente sono intercorsi negli anni in questione dei rapporti commerciali, seppure non dell’entità rappresentata dagli importi che sono indicati nelle fatture emesse dallo Z….” e sulla base di “come affermato dallo Z., secondo il quale gli importi corrispostigli dal P. ammontavano mensilmente a tre milioni/tre milioni e mezzo di lire” ha rideterminato i costi.

La motivazione della CTR, appare dunque oltre che insufficiente e contraddittoria del tutto apparente perché non è dato comprendere il percorso argomentativo seguito dal giudice, il corretto dispiegarsi dell’onere della prova, su quali atti di causa e quali dichiarazioni abbia fondato la propria decisione, la natura dei rapporti tra il contribuente e lo Z. (quale rapporto commerciale o rapporto di lavoro subordinato) e la fonte del proprio convincimento.

L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta, a prescindere dall’eccezione di inammissibilità, formulata dal ricorrente con le memorie depositate il 17.01.2020 l’assorbimento del ricorso incidentale dell’ufficio con il quale si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 cpc. per avere la CTR aveva ritenuto provato che vi erano stati rapporti commerciali tra le parti con costi a carico del P. senza che il ricorrente avesse provato alcunché in relazione a detti costi, fondati sulle dichiarazioni dello Z. ritenute dallo stesso giudice di appello contraddittorie e insufficiente motivazione su un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. per avere la CTR ritenuto che il fondamento dei costi dedotti sarebbe l’esistenza di rapporti commerciali, sulla base dei quali sarebbero stati corrisposti degli importi senza che avere motivato su quale base fossero stati ritenuti provati tanto le prestazioni fornite che gli importi corrisposti.

La sentenza deve essere, pertanto, cassata con rinvio alla CTR del Veneto, in diversa composizione, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo di ricorso principale, rigettato il secondo e assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR del Veneto in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del 29.1.2020.

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