CASSAZIONE

Dolo specifico nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti

Reati tributari – Emissione fatture per operazioni inesistenti – Finalità – Irrilevanza – Accertamento del dolo – Punibilità

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 348 del 9 gennaio 2020, nel dichiarare inammissibile il ricorso dell’imputato accusato di emissione di fatture false, ha ricordato che in tale pratica sussiste sempre il dolo del reato, perché tale reato consente ad altri  di realizzare una frode fiscale.

Come noto, la frode fiscale costituisce un insidiososistema evasivo che comporta l’applicazione di specifiche sanzioni ex articolo 2, D.lgs. 74/2000.In particolare, la normativa indicata punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documentiperoperazioni inesistentiindica, in una delle dichiarazioni relative a dette imposte, elementi passivi fittizi con lo scopo di erodere la base imponibileai fini delle imposte sui redditi e, simmetricamente, conseguire un creditoIVA inesistente.

Lo schema fraudolento, nella sua classica struttura, si realizza mediante l’interposizione – tra l’acquirente e il cedente dei beni o dei servizi –  di soggetti denominati “cartiere”, ovvero quelle società costituite ad hoc che non hanno dipendenti, che non hanno una reale struttura operativa, che non versano le imposte dovute, ma che hanno il solo scopo di creare un credito IVA inesistente nei confronti dell’acquirente finale.

Tuttavia, in linea con un recente orientamento espresso in sede di legittimità (ex multis cfr. Corte di cassazione, sezione civile, ordinanze n. 3473/18 e n. 3474/18 del 13 febbraio 2018; Corte di cassazione, sezione civile, ordinanza n. 17161/18 del 28 giugno 2018), il cessionario deve operare sul mercato con criteri di diligenza che normalmente contraddistinguono “l’operatore economico accorto” verificando, con tutti i mezzi a sua disposizione, se il cedente abbia o meno la natura di soggetto meramente interposto.

Quindi, l’acquirente in buona fede ha comunque l’onere di verificare che l’emittente della fattura sia realmente in grado di fornire quei determinati beni o servizi, sgombrando il campo da eventuali dubbi che facciano sospettare l’esistenza di irregolarità o, in casi estremi, di evasione fiscale.

Simmetricamente, il cessionario dovrà provare di avere agito sulla base dei richiamati criteri di diligenza esigibili da parte di un operatore economico accorto.

In merito si richiama l’orientamento espresso dalla suprema Corte di cassazione che, con la sentenza n. 24321 del 4 ottobre 2018 ha sancito che, ai fini della ripartizione dell’onere della prova, in primo luogo incombe sull’Amministrazione finanziaria dimostrare che a fronte dell’esibizione del titolo (rectius la fattura), difettano le condizioni oggettive e soggettive per la detrazione IVA. Successivamente spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative commerciali in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente.

Ricordiamo infine che i Supremi Giudici, in linea con l’attuale interpretazione giurisprudenziale (ex plurimis, n. 44449/2015 e n.52411/2018), hanno statuito che in tema di reati tributari il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva che deve aggiungersi alla volontà di realizzare l’evento tipico (la presentazione della dichiarazione), è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA.

Tanto premesso, e tornando al caso di specie, la vicenda approda in Cassazione dopo che la Corte d’appello confermava in una certa misura la sentenza di primo grado, con la quale l’imputato era stato condannato per il reato di cui agli articoli 81, secondo comma, codice penale, e 8 del D.lgs. n. 74/2000, per avere emesso fatture per operazioni inesistenti allo scopo di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sull’IVA.

Il contribuente lamentava anche che non era stata correttamente valutata la particolare tenuità del fatto.

In particolare, ha osservato, la Suprema Corte, “… Il ricorso è inammissibile, perché basato su censure in fatto meramente riproduttive di rilievi già esaminati e motivatamente disattesi dai giudici di primo e secondo grado, con conforme valutazione. Tali considerazioni valgono in relazione al primo motivo di ricorso, perché, dalla semplice lettura della sentenza di appello, emerge che l’imputato gestiva una mera “cartiera”, essendo privo della struttura necessaria per poter svolgere le prestazioni riportate nelle fatture; e da ciò si evince la sua coscienza e volontà di consentire l’altrui evasione. Del resto, il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti è integrato anche quando la condotta è commessa non soltanto al fine esclusivo di favorire l’evasione fiscale di terzi attraverso l’utilizzo delle stesse, ma anche per trarne un profitto personale (ex plurimis, Sez. 3, n. 44449 del 17/09/2015, Rv. 265442); ciò che normalmente avviene da parte di soggetti che si prestano dietro corrispettivi occulti all’emissione di fatture per consentire una frode. Del pare inammissibile è la seconda censura, riferita alla particolare tenuità del fatto, perché la difesa non tiene conto, neanche a fini di critica, della motivazione della sentenza impugnata, la quale valorizza in senso negativo la rilevante consistenza degli importi fatturati (euro 28.000,00). – Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 9 gennaio 2020, n. 348

Sul ricorso proposto da:

M.D. nato a ANDRANO il 13/04/1960 avverso la sentenza del 26/11/2018 della CORTE APPELLO di LECCE

dato avviso alle parti;

udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRO MARIA ANDRONIO

Ritenuto in fatto

1. – La Corte d’appello ha parzialmente confermato la sentenza di primo grado, con la quale l’imputato era stato condannato, per il reato di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, per avere emesso fatture per operazioni inesistenti, allo scopo di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto. La Corte d’appello ha escluso la continuazione e ha eliminato il relativo aumento di pena.

2. – Avverso la sentenza, l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo:

a) vizi della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo del reato, che sarebbe stato ritenuto compatibile con l’accertata finalità dell’agente di far fronte a una sua difficoltà economica; finalità che sarebbe incompatibile con quella di consentire a terzi l’evasione fiscale;

b) la violazione dell’art. 131-bis cod. pen., per il mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto, visti gli importi delle fatture, per i quali è stata riconosciuta la sussistenza della fattispecie del comma 3 dell’art. 8 citato.

Considerato in diritto

3. – Il ricorso è inammissibile, perché basato su censure in fatto meramente riproduttive di rilievi già esaminati e motivatamente disattesi dai giudici di primo e secondo grado, con conforme valutazione.

Tali considerazioni valgono in relazione al primo motivo di ricorso, perché, dalla semplice lettura della sentenza di appello, emerge che l’imputato gestiva una mera “cartiera”, essendo privo della struttura necessaria per poter svolgere le prestazioni riportate nelle fatture; e da ciò si evince la sua coscienza e volontà di consentire l’altrui evasione. Del resto, il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti è integrato anche quando la condotta è commessa non soltanto al fine esclusivo di favorire l’evasione fiscale di terzi attraverso l’utilizzo delle stesse, ma anche per trarne un profitto personale (ex plurimis, Sez. 3, n. 44449 del 17/09/2015, Rv. 265442); ciò che normalmente avviene da parte di soggetti che si prestano dietro corrispettivi occulti all’emissione di fatture per consentire una frode.

Del pare inammissibile è la seconda censura, riferita alla particolare tenuità del fatto, perché la difesa non tiene conto, neanche a fini di critica, della motivazione della sentenza impugnata, la quale valorizza in senso negativo la rilevante consistenza degli importi fatturati (euro 28.000,00).

4. – Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2019.

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