CASSAZIONE SENTENZE

La Cassazione riafferma il concetto qualitativo di inerenza

Tributi – Reddito d’impresa – Determinazione base imponibile – Società di capitali – Impianto produttivo inattivo – Deducibilità fiscale quote di ammortamento – Ripartizione del costo improntato a criterio di sistematicità – Requisiti di certezza e inerenza – Principio contabile nazionale OIC-16

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10902 del 18 aprile 2019, torna sul concetto di inerenza nella sua considerazione qualitativa e non quantitativa, in linea con la giurisprudenza più recente della Corte stessa, affermando che la determinazione della base imponibile delle società di capitali, ai fini della dichiarazione fiscale, di regola è ispirata al criterio della “dipendenza”, ovverosia della “derivazione” dal risultato del conto economico redatto in conformità dei canoni del codice civile e dei principi contabili nazionali, sicché, nella stessa dichiarazione, la quota di ammortamento di un bene strumentale è senz’altro deducibile anche per le annualità durante le quali, a causa di un factum principis, non ne sia stato possibile l’utilizzo.

In altre parole, il principio di inerenza qualitativa dei costi esprime una correlazione tra costi e attività d’impresa, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo che esclude valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo.

In tema di imposte dirette l’Amministrazione finanziaria, nel negare l’inerenza di un costo può comunque contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa solo laddove queste assumano rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza, pur non identificandosi in essa. In tema di IVA tale prova è “aggravata”, dato che l’inerenza del costo non può essere esclusa in base a un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’Amministrazione finanziaria ne dimostri la “macroscopica” antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo e l’attività d’impresa.

Si tratta di un tema piuttosto ricorrente in sede di controllo e contenzioso tributario, riconoscendo che per un accertamento riferito all’imposizione diretta, in ottemperanza alla disciplina contenuta nel T.U. delle imposte sui redditi (DPR n. 917/1986), l’onere di fornire prova della corretta deducibilità dei costi concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, compresa la loro inerenza e l’imputazione a operazioni potenzialmente idonee alla produzione di ricavi, compete pur sempre al contribuente che tali componenti intende computare in diminuzione e ciò, soprattutto, in adesione al principio della vicinanza della prova.

La Corte di Cassazione negli anni ha più volte affrontato l’argomento e secondo i Giudici il postulato dell’inerenza, secondo l’interpretazione tradizionale, trova allocazione nell’art. 109 del DPR n. 917/1986, e in particolare è ricondotto al rapporto tra costo e impresa.

Con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’inerenza all’attività d’impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione ex art. 109 (già 75) del TUIR, va definita come una relazione tra due concetti – la spesa (o il costo) e l’impresa – sicché il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione a una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (cfr. Sez. 5, ord. n. 20049 del 2017; ord. n. 11241 del 2017; sent. n. 4041 del 2015).

L’inerenza deve saper esprimere la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera ad essa estranea, “senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta, in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, senza che assuma rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass. ord. n. 450 del 2018)”.

Inoltre è opportuno ricordare, per quanto ci riguarda, che i principi contabili nazionali, nello specifico l’ OIC 16, ha il preciso compito di disciplinare i criteri per la rilevazione, classificazione e valutazione delle immobilizzazioni materiali, nonché le informazioni da presentare nella nota integrativa ed  è destinato alle società che redigono i bilanci d’esercizio in base alle disposizioni del Codice civile che può far emergere un valido spunto di riflessione sull’ambito applicativo del criterio di vicinanza della prova e sulla sua rilevanza nel contesto dei rapporti di accertamento e contenzioso tributario.

Tuttavia, nel leggere le più recenti sentenze della Cassazione, si rileva anche che non è l’inerenza del costo il discrimine tra deducibilità e indeducibilità della quota di ammortamento di un bene strumentale (o immobilizzazione materiale), il cui utilizzo sia stato interrotto per factum principis; secondo il recente indirizzo (Cass. 30/05/2018, n. 13588) si condivide l’assunto, in tema di deducibilità dei costi, che l’inerenza, desumibile dall’art. 109, comma 5, del DPR n. 917/1986, deve essere riferita all’oggetto sociale dell’impresa, in quanto non integra un nesso di tipo utilitaristico tra costo e ricavo, bensì una correlazione tra costo e attività di impresa, anche solo potenzialmente capace di produrre reddito imponibile.

In questa chiave il costo del bene strumentale, registrato in bilancio in seguito alla sua acquisizione, e annualmente ammortizzabile nell’arco temporale della sua “vita utile”, è senz’altro inerente per l’intrinseca potenzialità produttiva del bene medesimo, anche quando, per un fattore fortuito, ne sia temporaneamente impedito l’utilizzo.

In sintesi, le variazioni obbligatorie rispetto al conto economico non possono che essere unicamente quelle previste in esecuzione delle disposizioni del TUIR (sezione I, capo II, titolo II), come stabilisce esplicitamente il primo periodo dell’art. 83; gli artt. 102, 102-bis, 103 e 104, TUIR, pongono sì misure, soprattutto quantitative, per l’imputazione delle quote di ammortamento, di cui la più rilevante è il rispetto del Dm 31/12/1988 sui coefficienti d’ammortamento.

Sulla linea di questo consolidato orientamento si colloca anche la pronunzia in esame, che vede una società contribuente rivolgersi in Cassazione per l’annullamento della sentenza della locale  Commissione tributaria regionale che aveva negato la deducibilità, ai fini IRES, IRAP e IVA, per il 2005, della quota di ammortamento relativa a un impianto di compostaggio dei rifiuti, affermando che la deducibilità della quota d’ammortamento di un bene strumentale è collegata al funzionamento dell’impianto nell’anno d’imposta di riferimento.

La Corte ribalta quindi l’esito del giudizio, non condividendone l’assunto interpretativo e, affermando la validità dell’attuale filone giurisprudenziale sulla materia, stabilisce che: “ il formante giurisprudenziale, del resto, è nel senso di allineare, ove possibile, l’inquadramento fiscale ai criteri di redazione del bilancio civilistico, così come integrati ed esplicitati dai principi contabili nazionali (Cass. 1304/19; 16447/18; 25690/2016; 21621/15; 23330/2013; 400/2013, in diversi contesti fiscali);

1.3. svolte queste premesse d’ordine sistematico, è ius receptum della Corte – questo sì conferente per la soluzione della fattispecie concreta -, da cui non v’è ragione per discostarsi, che: «ai fini della determinazione del reddito di impresa, la deduzione delle quote di ammortamento del costo dei beni strumentali deve avvenire in base alle inderogabili regole civilistiche di redazione del bilancio, operanti, in difetto di disposizioni specifiche di segno contrario, anche a fini fiscali. Con la conseguenza che, in sede di dichiarazione, il contribuente non può procedere discrezionalmente alla determinazione delle quote di ammortamento, giacché, stante la previsione dell’art. 2426, comma 1, n. 2, c.c., l’ammortamento deve essere necessariamente improntato a criterio di sistematicità […].» (Cass. 14/10/2015, n. 20680; vedi, anche, Cass. 17/10/2014, n. 22016);

ebbene, il citato principio contabile nazionale OIC-16, in tema di ammortamento dei beni strumentali, prevede che:

“56. Il costo delle immobilizzazioni materiali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo, deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione. La quota di ammortamento imputata a ciascun esercizio si riferisce alla ripartizione del costo sostenuto sull’intera durata di utilizzazione.

57. L’ammortamento è calcolato anche sui cespiti temporaneamente non utilizzati”;

1.4. in conclusione, la sentenza impugnata è viziata per essersi discostata dal principio di diritto – che occorre adesso rendere esplicito – per il quale la determinazione della base imponibile delle società di capitali, ai fini della dichiarazione fiscale, di regola, è ispirata al criterio della “dipendenza”, ovverosia della “derivazione” dal risultato del conto economico, redatto in conformità dei canoni del codice civile e dei principi contabili nazionali, sicché, nella stessa dichiarazione, la quota di ammortamento di un bene strumentale è senz’altro deducibile, anche per le annualità durante le quali, a causa di un factum principis, non ne sia stato possibile l’utilizzo;

2. alla stregua delle precedenti considerazioni, accolto l’unico motivo del ricorso, la sentenza è cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., con l’accoglimento del ricorso introduttivo della contribuente”.

Corte di Cassazione – Sentenza 24 aprile 2019, n. 17546

Sul ricorso iscritto al n. 20341/2012 R.G. proposto da

C. G. SPA (già ING. M. SPA), rappresentata e difesa dall’avv. Luigi Querci, elettivamente domiciliata in Roma, viale del Vígnola n. 5, presso lo studio dell’avv. Livia Ranuzzi.

– ricorrente –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato.

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione n. 6, n. 15/6/12, pronunciata il 27/01/2012, depositata il 3/02/2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 marzo 2019 dal Consigliere Riccardo Guida. 

Rilevato che

1. Con ricorso alla CTP di Bari, la Ing. O.M. Spa impugnò l’avvio di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate aveva recuperato a tassazione IRES, IRAP, IVA, per il 2005, per quanto ancora rileva, la quota di ammortamento (di euro 260.297,24) di un impianto di compostaggio dei rifiuti, sul presupposto dell’indeducibilità del costo in quanto l’impianto, nella detta annualità, era rimasto inattivo perché sottoposto a sequestro giudiziario;

la CTP di Bari, con sentenza n. 44/2010, accolse (parzialmente) il ricorso della contribuente, ritenendo, tra l’altro, illegittimo il rilievo relativo all’indeducibilità del costo appena indicato;

l’Agenzia ha appellato la sentenza di primo grado e la società ha proposto appello incidentale;

la CTR della Puglia, in accoglimento dell’appello principale, ha disposto il recupero a reddito della somma di euro 260.297,24, e ha respinto l’appello incidentale della società;

in particolare, per quanto ancora interessa, la CTR ha rilevato che, per un verso, in base all’art. 102 TUIR, ai fini della deducibilità della quota d’ammortamento di un bene, è necessario che esso sia in funzione e venga utilizzato; per altro verso, che l’attribuzione a conto economico di un costo (la quota di ammortamento) relativo ad un bene che non partecipa al processo produttivo dell’impresa viola il principio d’inerenza, sancito dall’art. 109 TUIR;

il giudice dell’appello, quindi, ha negato la deducibilità della quota di ammortamento dell’impianto di compostaggio che, nel periodo d’imposta in esame, era inattivo;

la contribuente ha proposto ricorso per la cassazione di questa sentenza della CTR, sulla base di un unico motivo, cui l’Agenzia resiste con atto di costituzione, ai sensi dell’art. 370, primo comma, cod. proc. civ.; Considerato che:

1. con l’unico motivo del ricorso, denunciando, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione o/o falsa applicazione degli artt. 102, 109, comma 5, TUIR, la ricorrente censura la sentenza impugnata, che avrebbe erroneamente affermato che la deducibilità della quota d’ammortamento di un bene strumentale sia collegata al funzionamento dell’impianto nell’anno d’imposta di riferimento, anziché alla sola circostanza che l’impianto fosse funzionante nell’anno nel quale era iniziato l’ammortamento;

1.1. il motivo è fondato;

la CTR ha negato la deducibilità delle quote di ammortamento dell’impianto di compostaggio, nei due esercizi (2006 e 2007) durante i quali il bene strumentale era rimasto inattivo e, quindi, non aveva concorso alla produzione di ricavi;

la Commissione tributaria pugliese muove dalla premessa secondo cui, posto che, ai sensi dell’art. 102, comma 1, TUIR, le quote di ammortamento dei beni materiali strumentali sono deducibili dall’esercizio dell’entrata in funzione del bene, vi sarebbe un nesso imprescindibile tra deducibilità del costo (recte: della quota d’ammortamento dell’immobilizzazione materiale) e il suo effettivo utilizzo, sicché la mancata utilizzazione del bene, anche per un factum principis (come un sequestro), non ne consentirebbe la deducibilità;

ancora, nella fattispecie concreta il costo dell’impianto di compostaggio non sarebbe deducibile, per gli anni d’imposta nei quali è rimasto inattivo, per la semplice ragione che esso, nello stesso periodo, non ha concorso alla produzione dei ricavi dell’impresa;

in conclusione, la sentenza impugnata afferma che, in base alla disciplina tributaria, distonica rispetto ai criteri civilistici di redazione del bilancio delle società di capitali, ai fini della determinazione del reddito fiscalmente rilevante, è possibile fruire della deduzione dei soli costi che abbiano concorso a realizzare i ricavi, donde la necessità, in taluni casi, di rettificare l’utile civilistico;

un simile paradigma giuridico, ad avviso del giudice d’appello, sarebbe conforme al principio di inerenza, sancito dall’art. 109, comma 5, TUIR, per il quale le spese e gli altri componenti negativi sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito;

questa Corte, in passato, occupandosi di un argomento prossimo alla materia del contendere, ha avuto modo di affermare che: «In tema di determinazione del reddito di impresa, le quote di ammortamento del costo dei beni sono deducibili, ai sensi dell’art. 67, primo comma, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, (attuale art. 102 TUIR), purché i costi siano sostenuti in funzione della produzione di ricavi e, dunque, a condizione che i beni acquistati siano non soltanto strumentali alla specifica attività aziendale ma anche effettivamente utilizzati nell’esercizio dell’impresa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso che i componenti negativi, costituiti dall’ammortamento dell’avviamento e dalle quote degli ammortamenti ordinari, potessero essere portati in deduzione dalla società contribuente, successivamente alla messa in liquidazione ed alla cessione dell’azienda)» (Cass. 18/06/2014, n. 13807);

il precedente, però, non si attaglia compiutamente al thema decidendum poiché riguarda una fattispecie concreta – diversa dal caso in esame -, nella quale il bene non era più ammortizzabile perché l’impresa aveva cessato la propria attività e dismesso l’azienda, sicché la sua eliminazione definitiva dal processo produttivo aziendale rilevava ormai soltanto nella prospettiva del calcolo della plusvalenza o della minusvalenza da dismissione, da appostare nel bilancio di liquidazione dell’ente collettivo;

privo d’efficacia decisiva è anche il dictum di questa Corte (Cass. 4/04/2008, n. 8773) – che la ricorrente pone a fondamento della propria tesi difensiva -, che attiene a una vicenda affatto peculiare, nella quale, in ragione della relazione di congiunta funzione che si realizza tra gli erogatori dei carburanti usati nelle stazioni di servizio e quelli destinati al loro ricambio, per questi ultimi era stata ritenuta legittima la deduzione di quote di ammortamento, anche se lasciati in deposito presso le stazioni di servizio e non ancora utilizzati;

1.2. ciò precisato sul versante delle sentenze di cassazione, si rileva che, diversamente da quanto asserisce la CTR, non è l’inerenza o meno del costo il discrimine tra deducibilità e indeducibilità della quota di ammortamento di un bene strumentale (o immobilizzazione materiale), il cui utilizzo sia stato interrotto per factum principis;

secondo il recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità (Cass. 30/05/2018, n. 13588), che il Collegio condivide, in tema di deducibilità dei costi, l’inerenza, desumibile dall’art. 109, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986, deve essere riferita all’oggetto sociale dell’impresa, in quanto non integra un nesso di tipo utilitaristico tra costo e ricavo, bensì una correlazione tra costo e attività di impresa, anche solo potenzialmente capace di produrre reddito imponibile;

è chiaro, allora, che il costo del bene strumentale, registrato in bilancio in seguito alla sua acquisizione, e annualmente ammortizzabile nell’arco temporale della sua “vita utile”, è senz’altro “inerente”, per l’intrinseca potenzialità produttiva del bene medesimo, anche quando, per un fattore fortuito, ne sia temporaneamente impedito l’utilizzo;

escluso, perciò, che il concetto di inerenza sia la chiave di volta dell’intero ragionamento, neppure parrebbe dirimente fare riferimento all’art. 14, comma 4-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, che esclude la deducibilità dei costi e delle spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, poiché non risulta ex actis – ossia dalla sentenza impugnata, dalle difese delle parti o dall’avviso di accertamento – che il fisco abbia contestato l’obiettiva rilevanza penale dell’uso dell’impianto di compostaggio;

sembra più corretto, dunque, riportare la questione nell’alveo delle regole di redazione del bilancio dettate dal codice civile, valevoli, di norma, anche in ambito fiscale;

sin dall’art. 2, n. 16, della legge-delega n. 825 del 1971, il legislatore, nella determinazione delle base imponibile delle società, si è ispirato al principio delle “dipendenza”, ovverosia della “derivazione” dal risultato del conto economico redatto secondo i criteri del codice civile;

tale principio è stato recepito dall’art. 52, TUIR (attuale art. 83), anche a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 344 del 2003;

secondo l’opinione unanime della dottrina, inoltre, la determinazione civilistica rappresenta quanto di più approssimato all’effettivo incremento di ricchezza prodotto dall’attività sociale, espressivo della capacità contributiva attribuibile al soggetto passivo collettivo;

nella dichiarazione fiscale, pertanto, l’imponibile è liquidato apportando all’utile o alle perdite di esercizio quelle sole variazioni previste in esecuzione dello stesso TUIR, per la basilare esigenza di contemperare i necessari margini di discrezionalità del prudente apprezzamento imprenditoriale – propri del sistema civilistico – con i canoni di certezza, semplicità e prevenzione anti-elusiva che modulano l’interesse fiscale;

una simile prospettiva – preme rimarcarlo – vale come parametro interpretativo di alcune disposizioni derogatorie del TUIR, in tema di rimanenze (artt. 92, 93), interessi passivi (artt. 89, 96), proventi immobiliari (art. 90), spese di pubblicità, propaganda etc. (art. 108), svalutazioni e accantonamenti (artt. 106, 107);

è anche possibile, ovviamente, che si verifichi il fenomeno della “derivazione rovesciata”, allorquando la società adegui ab initio il bilancio civilistico ad esigenze tipicamente fiscali (Cass. 1699/1985);

in sintesi, le variazioni obbligatorie rispetto al conto economico non possono che essere unicamente quelle previste in esecuzione delle disposizioni del TUIR (sezione I, capo II, titolo II), come stabilisce esplicitamente il primo periodo dell’art. 83, TUIR; gli artt. 102, 102-bis, 103 e 104, TUIR, pongono sì misure, soprattutto quantitative, per l’imputazione delle quote di ammortamento, di cui la più rilevante è il rispetto del d.m. 31.12.1988 sui coefficienti d’ammortamento;

nessuna norma prevede, invece, l’interruzione dell’ammortamento a causa della sospensione temporanea dell’attività produttiva, meno che mai se disposta per l’effetto temporaneo di un factum principis, estraneo a scelte imprenditoriali volontarie;

ribadita, quindi, l’irrilevanza della sopravvenuta “non inerenza” del costo, il fulcro della complessa analisi è rappresentato dalle regole, recepite dal codice civile, di gestione dell’impresa nel rispetto del c.d. going concern, cioè la “funzione economica” dell’elemento considerato, per il vecchio testo dell’art. 2423-bis, primo comma, n. 1, cod. civ., ovvero, con maggiore precisione, “la prospettiva della continuazione dell’attività” (secondo l’ultima versione della norma), nonché i “criteri di valutazione (che) non possono essere modificati da un esercizio all’altro” (art. 2423-bis, primo comma, n. 6, cod. civ.);

quest’approccio ermeneutico all’esame delle poste di bilancio è in sintonia con quanto stabilito, in tema di ammortamento, dai principi contabili nazionali (OIC-16, vedi infra), la cui impostazione giuridico-formale non si discosta neppure dall’orizzonte economico-sostanziale tratteggiato dai principi contabili internazionali (IAS n. 16 – § 55);

il formante giurisprudenziale, del resto, è nel senso di allineare, ove possibile, l’inquadramento fiscale ai criteri di redazione del bilancio civilistico, così come integrati ed esplicitati dai principi contabili nazionali (Cass. 1304/19; 16447/18; 25690/2016; 21621/15; 23330/2013; 400/2013, in diversi contesti fiscali);

1.3. svolte queste premesse d’ordine sistematico, è ius receptum della Corte – questo sì conferente per la soluzione della fattispecie concreta -, da cui non v’è ragione per discostarsi, che: «ai fini della determinazione del reddito di impresa, la deduzione delle quote di ammortamento del costo dei beni strumentali deve avvenire in base alle inderogabili regole civilistiche di redazione del bilancio, operanti, in difetto di disposizioni specifiche di segno contrario, anche a fini fiscali. Con la conseguenza che, in sede di dichiarazione, il contribuente non può procedere discrezionalmente alla determinazione delle quote di ammortamento, giacché, stante la previsione dell’art. 2426, comma 1, n. 2, c.c., l’ammortamento deve essere necessariamente improntato a criterio di sistematicità […].» (Cass. 14/10/2015, n. 20680; vedi, anche, Cass. 17/10/2014, n. 22016);

ebbene, il citato principio contabile nazionale OIC-16, in tema di ammortamento dei beni strumentali, prevede che: “56. Il costo delle immobilizzazioni materiali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo, deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione. La quota di ammortamento imputata a ciascun esercizio si riferisce alla ripartizione del costo sostenuto sull’intera durata di utilizzazione. 57. L’ammortamento è calcolato anche sui cespiti temporaneamente non utilizzati”;

1.4. in conclusione, la sentenza impugnata è viziata per essersi discostata dal principio di diritto – che occorre adesso rendere esplicito – per il quale la determinazione della base imponibile delle società di capitali, ai fini della dichiarazione fiscale, di regola, è ispirata al criterio della “dipendenza”, ovverosia della “derivazione” dal risultato del conto economico, redatto in conformità dei canoni del codice civile e dei principi contabili nazionali, sicché, nella stessa dichiarazione, la quota di ammortamento di un bene strumentale è senz’altro deducibile, anche per le annualità durante le quali, a causa di un factum principis, non ne sia stato possibile l’utilizzo;

2. alla stregua delle precedenti considerazioni, accolto l’unico motivo del ricorso, la sentenza è cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., con l’accoglimento del ricorso introduttivo della contribuente;

3. le spese dei gradi di merito vanno compensate, tra le parti, mentre le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

4. rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 – quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Cass. 29/01/2016, n. 1778);

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della contribuente; compensa, tra le parti, le spese dei gradi di merito e condanna l’Agenzia delle entrate a corrispondere alla ricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.600,00, a titolo di compenso, oltre a euro 200,00 per esborsi, al 15% sul compenso, a titolo di rimborso forfetario delle spese generali, e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 marzo 2019.

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